VITA DI SAN DOMENICO DI GUZMAN

 

VITA DI SAN DOMENICO

sulla traccia di un’opera omonima del P. Lacordaire (1) diffusa in rete da Jotis S.

Carlo Turati, Milano 1854

INTRODUZIONE

Il secolo duodecimo dell’era cristiana era cominciato sotto i più felici auspici. Comunanza di fede e di sentimenti governava allora l’Occidente, formando di vari popoli ossequienti e liberi come una sola famiglia. A capo dell’ordine spirituale stava il Sommo Pontefice, il quale con maestà e giustizia insieme, ora soccorreva dal trono l’infermità della natura, ora alla debolezza della medesima, che mal sapeva ubbidire. Vicario di Dio e padre dei cuori, con la destra distesa sul Cristo e la sinistra sul tabernacolo, il pontefice romano guidava per diritte vie l’umana generazione, cercando di prevenire l’abuso dei propri pieni poteri con il sentimento della personale debolezza. A proteggere e favorire il papato ed i vescovi, stava il braccio forte e amico dei principi, in una concordia d’intenti mai veduta prima. La fede, la ragione, la giustizia mai si erano incontrate in così alto grado; né mai il ristabilimento dell’unità nelle viscere lacerate del genere era sembrato più probabile e più vicino.

A Gerusalemme, sulla tomba del Salvatore sventolava già il vessillo cristiano, invitante la Chiesa greca ad una gloriosa riconciliazione con la Chiesa latina. L’Islam vinto nella Spagna e cacciato dalle coste italiane, si trovava assalito nel cuore stesso della sua potenza; e venti popoli, marciando insieme alle frontiere dell’umanità rigenerata per difendere il Vangelo di Gesù Cristo contro l’orgoglio dell’ignoranza e la brutalità della forza, promettevano all’Europa la fine di quelle sanguinose migrazioni di cui l’Asia era il focolare. Chi avrebbe potuto predire allora l’ultimo termine delle vie trionfali aperte nell’Oriente dalla cristiana cavalleria? Chi prevedere ciò che sarebbe divenuto il mondo sotto l’indirizzo di un ordine politico che al di dentro aveva saputo creare una così grande unità, e al di fuori dar vita ad un movimento così straordinario?

Il secolo duodecimo però non finì come aveva cominciato; e quando giunto a sera piegò al tramonto per riposarsi nell’eternità, anche la Chiesa parve declinare con lui, china la fronte sotto un pesante avvenire. Non più la croce di Cristo sui minareti di Gerusalemme. Ai nostri cavalieri vinti da Saladino, era rimasto appena, qualche palmo di terra nella Siria; e la Chiesa greca, anziché ravvicinata a quella romana, per l’ingratitudine e la perfidia dei suoi verso i crociati, sempre più si ostinava nello scisma. L’Oriente era perduto! La storia ha chiarito poi le conseguenze di un tale disastro. Costantinopoli vinta; una parte delle terre europee in mano ai Turchi ottomani; milioni di cristiani sotto la dura servitù della loro potenza, ed il resto della cristianità minacciata fino ai tempi di Luigi XIV dalla scimitarra di Maometto; e poi tre secoli di scorrerie tartariche nel cuore stesso dell’Europa; lo scisma greco abbracciato anche dalla Russia, pronta a precipitarsi sull’Occidente per distruggervi ogni legge ed ogni libertà; l’Europa diventata talmente sconvolta per l’indebolimento delle razze musulmane, come prima lo era stata per la loro potenza; e l’Asia così difficile ad essere spartita come prima a conquistarsi. La ragione fu innanzi tutto spirituale: le interne condizioni della Chiesa offrivano triste spettacolo. Tutti gli sforzi di S. Bernardo per stabilire una sana disciplina contro il licenzioso trascorrere della mondanità, del sentire con il secolo, della simonia del clero, erano riusciti quasi inutili: e sorgente di questi mali, a così vivi colori descritti da S. Bernardo medesimo, erano appunto le simpatie allo spirito mondano. Alle sacre investiture dell’anello e del pastorale era subentrata una subdola usurpazione, una debolezza spirituale di cui la simonia era una delle espressioni meno importanti.

O vana gloria! esclama Pietro di Blois, o cieca ambizione! o fame, insaziabile delle dignità e degli onori mondani, vermi corruttori dei cuori e naufragio delle anime! E donde mai ne venne tal peste? Come s’è fatta ardita così esecrabile presunzione che spinge indegni alla ricerca delle dignità, tanto più accaniti a volerle, quanto meno meritevoli? Noncuranti dell’anima loro, né del loro corpo, da ogni parte si precipitano, i miseri, sulla cattedra pastorale divenuta per loro cattedra di morte, e per tutti causa di perdizione“.

E già trent’anni prima, S. Bernardo aveva scritto con amara ironia:

Fanciulli di scuola, giovanetti imberbi sono promossi alle ecclesiastiche dignità solo per la nobiltà dei natali, passando dalla sferza del pedagogo al governo del clero; più lieti talvolta di essersi sottratti alle sferzate, che di rivestire una pubblica autorità; più soddisfatti di non esser soggetti al comando, che premurosi di esercitarlo”.

Tale è la debolezza della parte umana della Chiesa! Grazie all’aiuto dei sovrani, voi la vedete convertire a prezzo di sangue infedeli nazioni a Gesù Cristo; la vedete incivilire i costumi dei barbari e coltivarne le intelligenze, dissodare le loro selve, riempire le loro città e le campagne di conventi e di santuari. E poi quando venti generazioni di santi hanno attirato su quei religiosi asili le benedizioni del cielo e della terra, allora in luogo del nobile che, mosso da Dio, colà si ritirava per piangere le sue colpe, in luogo del misero che, rassegnato nella Provvidenza vi piegava a terra le forti ginocchia, anelando di farsi ancora più umile, invece di santi, eredi di santi, ecco che vi trovate il misero che brama i piaceri, il nobile che brama gli onori, anime mediocri, che ignorano perfino l’oggetto stesso dei loro desideri. Ben presto l’intrigo farà capitare il pastorale del vescovo o dell’abate in mani che una pura intenzione non ha benedette; ben presto il mondo gioirà al vedere i suoi favoriti governare la Chiesa di Dio, e cangiare il giogo amabile di Gesù Cristo in secolarizzata spensieratezza. Risuoneranno i chiostri all’abbaiare di cani da caccia ed al nitrire di superbi cavalli. E chi discernerà più le vocazioni vere dalle false? Chi possederà tale scienza, o avrà pur tempo a pensarvi? Non curasi non di sapere come le anime siano state rigenerate a Gesù Cristo; basta solamente conoscere il loro nascimento secondo la carne. La preghiera, l’umiltà, la penitenza, il sacrificio se ne vanno come timidi uccelli fugati dai loro nidi, e le tombe dei santi nella stessa loro casa rimangono come cose di estranei.

Tale lo stato miserabile a cui ambizione ed empia vanità avevano ridotto non pochi dei chiostri e delle chiese d’Occidente sul finire del dodicesimo secolo; e se in vari luoghi il male non era così profondo, pure tuttavia era considerevole. La Santa Sede e i princìpi che la aiutavano e soccorrevano, per quanto tribolati anch’essi dagli scismi promossi e sostenuti contro di lei dall’imperatore Federico I, non erano rimasta inoperosa nell’apprestare rimedi a così gravi disordini. Il papato, in cinquantasei anni, aveva celebrato tre Concili ecumenici; però sempre senza conseguire, o solo in parte, quelle riforme, che pure erano necessarie.

Un dì, verso il 1160, un ricco signore di Lione, chiamato Pietro Valdo, vedendo un suo concittadino colpito da un fulmine cadere morto ai suoi piedi, tanto ne restò conquistato, che distribuito ai poveri tutto il suo avere, si consacrò interamente al servizio di Dio. E siccome la riforma della Chiesa era ciò che allora preoccupava maggiormente gli spiriti, Valdo dalla stessa abnegazione di sé, fu portato a credere di essere a ciò chiamato; onde raccolti un certo numero di uomini, tutti li fece persuasi di abbracciare con lui una vita apostolica. Una vita, tuttavia, che di apostolico mancava del cuore, per conservare solo la rinuncia ai beni materiali. Quanto poco differiscono alle volte gli ideali che fanno i grandi uomini da quelli che li rendono pubblici perturbatori! Se più genio e virtù più soda fossero stati in Pietro Valdo, anch’egli sarebbe potuto riuscire un S. Domenico; mentre fu vittima di una tentazione, fatale in tutti i tempi ad uomini di qualche talento. Salvare la chiesa con la chiesa gli parve cosa impossibile. Dichiarò quindi che la verace sposa di Gesù Cristo era venuta meno sotto Costantino per quel veleno dei temporali possedimenti; che la chiesa romana era la famosa prostituta descritta nell’Apocalisse, madre e maestra di tutti gli errori; che Scribi erano i prelati e Farisei i religiosi; che il pontefice romano e tutti i vescovi erano omicidi; che il clero non aveva diritto né a decime né a terre; esser peccato dotare chiese e conventi; dover tutti i chierici, ad esempio degli apostoli, guadagnarsi la vita con il lavoro delle proprie mani; finalmente lui, Pietro Valdo, esser venuto a ristabilire sulle sue fondamenta la società vera dei figlioli di Dio. Tralascio gli errori secondari che dovettero necessariamente pullulare da questi primi. Tutta la forza dei Valdesi era nella di loro organizzazione: settaria, chiusa, caratterizzata dall’obbedienza irrazionale e assoluta. Da qui, l’efficacia nell’attacco diretto contro la gerarchia ecclesiastica, e nel contrasto, vero o apparente, dei loro costumi con i costumi sregolati del clero d’allora. Arnaldo da Brescia, morto a Roma sopra un rogo, ne era stato il precursore: uomo la cui figura risalta nella storia assai più, che quella di Pietro Valdo. Ma Pietro Valdo ebbe il vantaggio di venire dopo di lui, quando lo scandalo era maturo; onde è che egli ebbe un successo formidabile. Valdo fu il vero patriarca delle eresie occidentali, improntate da lui d’uno dei grandi caratteri che le differenziano, dalle greche eresie, di un carattere cioè più organizzativo che speculativo.

Favorita dalle medesime circostanze che davano animo ai Valdesi, un’altra eresia d’origine orientale, insinuatasi prima in Germania ed in Italia, era giunta per ultimo a porre la sua principale stanza, nel mezzogiorno della Francia. Combattuta sempre e sempre rigogliosa, quest’eresia rimontava fin verso la fine del terzo secolo, quando pullulò sulle frontiere della Persia e dell’Impero Romano dalla fusione delle idee cristiane con la vecchia dottrina dei Persiani, che attribuiva i misteri di questo mondo alla lotta di due principi coeterni, l’uno buono, cattivo l’altro. Comunissime erano a quei tempi queste miscele di principi appartenenti a religioni e filosofie diverse, e ciò per quella tendenza degli spiriti deboli di volere unire insieme cose tra loro del tutto incompatibili.

Un persiano, per nome Manete, diede la sua ultima forma al mostruoso miscuglio di cui ora parliamo; ma fu meno fortunato degli altri eresiarchi, perché la sua setta non ebbe mai né templi, né sacerdozio, né popolo tali da poter costituirsi in società. Le leggi dei santi imperatori, convalidate dalla pubblica opinione, la combatterono a morte, quantunque ciò non servisse a farla scomparire del tutto. La condizione di società pubblica è una prova a cui l’errore non può mai reggere se non per breve tempo, tanto più breve quanto l’errore ha meno omogenee fondamenta e conseguenze più immorali. I Manichei dunque impediti di mostrarsi all’aperto, si relegarono nelle tenebre, stringendosi in società segreta: unica via concessa all’errore di perpetuarsi a lungo. Per tali misteriose associazioni infatti è più facile sfuggire la legge, che sottrarsi alla pubblica condanna. Niente impedisce che uomini indottrinati da uomini più perversi e di pratiche le più ridicole, vadano a reclutare fra le ombre spiriti malvagi e ad attirare gente amante di avventure all’incantesimo delle loro pratiche; ad imporre loro la credenza a dottrine non soggette a sindacato; a colpirli con uno scopo grande e remoto, al quale si creda che cento generazioni abbiano professato culto profondo; a legare finalmente i loro animi per mezzo delle più basse inclinazioni del cuore, consacrandone le passioni sopra altari sconosciuti al resto dell’umanità. Nel mondo perdurano tuttavia tali società segrete che, forse, non contano neppure tre soli iniziati, ma che ciò nonostante, per invisibile successione, risalgono fino all’antro di Trofonio od ai sotterranei dei templi egiziaci. Cotali uomini, inorgogliti oltre ogni dire di un così raro deposito, attraversano imperturbabili, i secoli con un profondo disprezzo di ciò che accade intorno a loro, giudicando tutto alla stregua della privilegiata dottrina che hanno avuto in sorte e di nient’altro più desiderosi che di plasmare a loro modo qualche Anima, perché sia l’erede della loro occulta felicità. E tale fu la vita dei Manichei, che appaiono qua e là nella storia, a somiglianza di quei mostri che seguono incognite vie nel fondo dell’oceano, e che tratto tratto levano la testa secolare al disopra delle acque. Il singolare dell’apparizione dei Manichei nel secolo duodecimo fu, che per la prima volta riuscì loro di costituirsi sotto forma di pubblica società. Strano spettacolo davvero! Settari che il Basso Impero aveva costantemente repressi, si stabiliscono apertamente in Francia, e sotto gli occhi di quegli stessi pontefici che venivano ascoltati dall’imperatore medesimo nel rispettare le leggi divine e la volontà delle nazioni cristiane! Nessun altro fatto rivela maggiormente la nascosta malattia che agitava allora l’Europa. In Francia era alla testa dei Manichei, volgarmente chiamati Albigesi, Raimondo VI, conte di Tolosa, pronipote di quel Raimondo, conte di S. Gilles, il cui nome viene celebrato con quello dei più illustri fra i cavalieri della prima crociata: con i nomi di Goffredo di Buglione, di Balduino, di Roberto, di Ugo, di Boemondo. Lasciatosi accalappiare dai misteri propri dei Manichei e dalla maschera valdese presa da essi per meglio uniformarsi al modo di pensare dei popoli occidentali, Raimondo rinunciò all’eredità della gloria e delle virtù trasmessegli dai suoi maggiori per farsi capo della più detestabile eresia che mai sia nata in Oriente.

Né questo è tutto. L’insegnamento delle scuole cattoliche, ristabilito dopo lunga interruzione, veniva sviluppandosi sotto l’influenza della filosofia di Aristotele; e una tendenza di questo movimento sembrava appunto quella di voler far prevalere la ragione alla fede nella esposizione dei dogmi cristiani. Abelardo, celebre per le sue colpe e per i suoi errori, era stato una delle vittime di questo nuovo metodo applicato alla teologia. S. Bernardo difatti lo accusa di trasformare la fede, che alla parola di Dio si appoggia, in una pura opinione fondata su principi e conclusioni d’ordine esclusivamente umano. E quantunque il Santo conseguisse una dura vittoria, onorata dalla verace sottomissione del suo avversario e da un raro esempio di riconciliazione, ciò nondimeno il male continuava il suo corso: perché in ogni tempo è difficile resistere a certi impulsi, la cui forza viene da lontano e dall’alto. L’epoca greca era rimasta impressa nella memoria delle persone colte come il più alto grado cui fosse giammai asceso il genio umano; né il cristianesimo aveva ancora avuto ancora agio di creare una letteratura paragonabile all’ellenica, di farsi una scienza ed una filosofia sua propria. Certamente negli scritti dei Padri il seme era stato gettato, ma a causa della non sistematicità dei contenuti, dai Padri ognuno trae ciò che lo aggrada; tornava poi più comodo accettare un sistema di discipline filosofiche e scientifiche già bello e fatto. Fu dunque prescelto Aristotele quale rappresentante della sapienza. Sventuratamente però Aristotele e l’Evangelo non erano sempre concordi; onde è che procedettero tre sette: una che sacrificava la filosofia a Gesù Cristo, conforme a quelle parole: Voi non avete che un solo maestro, che è Cristo (Mt 23,10); – un’altra che sacrificava Gesù Cristo alla filosofia, dovendo la ragione, primo lume intellettuale dell’uomo, riportare ogni cosa il primato; – una terza finalmente che metteva due ordini di verità, l’uno secondo la ragione, l’altro secondo la fede, ed il vero nell’uno, potere nell’altro esser falso. Insomma l’eresia e lo scisma, avvalorati dal deplorevole stato della disciplina ecclesiastica e dalla rinascenza delle scienze pagane, scuotevano nell’Occidente l’edificio cristiano; mentre l’infelice successo delle crociate ne compiva la rovina nell’Oriente, e schiudeva ai barbari le porte della Cristianità. I papi e i principi, è vero, opposero sommo coraggio contro i pericoli ognora crescenti di così triste situazione, invitando i popoli a nuove crociate, celebrando Concili contro l’errore e la corruzione, vigilando nelle scuole sulla integrità della dottrina, riallacciando con le provvide loro mani relazioni più amichevoli tra la fede e il comune modo di sentire in Europa. Ma chi avrebbe potuto scoprire l’oscuro malessere che affievoliva il cuore del clero, più d’ogni altro chiamato a rifulgere come esempio ai popoli? Certo, vi fu un San Bernardo e vi furono i santi guerrieri degli Ordini cavallereschi, ma chi avrebbe potuto sostenere da solo tutto il peso delle cose divine ed umane?

Anche gli uomini più grandi hanno bisogno del concorso di molte forze, e quelle che la Provvidenza aveva accordate nel passato, sembravano scarse ai bisogni del presente e dell’avvenire. Le opere di Clodoveo dei Franchi, di Carlo Magno, di San Stefano d’Ungheria, di Sant’Enrico Imperatore, solo parzialmente ancora in piedi perché forti del genio di quanti le avevano stabilite, pure invocavano in loro aiuto una nuova effusione di questo Spirito, che solo genera l’immortalità. Sono questi i momenti supremi in cui si ha da porre la mente ai consigli di Dio.

Trecento anni più tardi nuovamente Iddio abbandonerà mezza Europa in preda all’errore, affinché l’errore stesso conduca a trionfi di cui a Giosafat si vedrà il segreto: ma nel Duecento gli piacque di soccorrere la Chiesa per la diretta via della misericordia.

La Vergine Inviolata rivolse a Gesù lo sguardo, alle di Lui mani e piedi per noi trafitti; e da quello sguardo amoroso sorse una supplica cui il Figlio non seppe dire di no. Il fatto è confermato con numerose accadimenti riportati dalle cronache del Padre Geraldo di Frachet (1195-1271), tra i quali ne eleggiamo uno perché riferito dal Beato Umberto da Romans:

Al tempo in cui Papa Innocenzo III mandò dodici abati cistercensi a predicare contro gli eretici albigesi, capitò che uno di essi passasse con un suo monaco per una certa contrada dove si era radunata una grande folla per vedere un uomo che si diceva risuscitato da morte dopo due giorni. Data la dignità che rivestiva, temendo l’abate di compromettere l’onore suo e del suo Ordine accostandosi a quello spettacolo, pensò di inviarvi il monaco che l’accompagnava, affidandogli l’incarico di accertarsi della verità e, ottenutala, di chiedere a quell’uomo se da morto avesse visto qualcosa degno di venire ricordato.

Il monaco compì la sua missione e, avendo sollecitato il risorto a riferire ciò che aveva veduto, sentì rispondersi di aver vista per tre giorni e per tre notti continue la Nostra gloriosa Signora, la Vergine Madre di Dio, in ginocchio, a mani giunte, con il viso rigato da lacrime, pregare per il genere umano con queste parole: “Figlio, ti ringrazio per esserti degnato di scegliere me come tua madre e regina del Cielo. Ma in pari tempo sono molto afflitta nel vedere che si danna la maggior parte delle anime, per le quali con la povertà, con le umiliazioni e le percosse tanto hai sofferto. Perciò, per non permettere che sia stato speso invano un così inestimabile prezzo e sia stato inutilmente versato il tuo sangue prezioso, io supplico la tua clemenza perché per la salvezza delle anime tu adotti qualche rimedio”. A queste parole della pia madre il Figlio rispose: “Cara madre, cosa potrei o dovrei fare di più non lo feci per il genere umano? Per la loro salvezza non mandai forse i patriarchi, i profeti, gli Apostoli, i martiri, i confessori e i dottori della Chiesa? Ed io non mi offrii alla morte per loro? Dovrei forse salvare il peccatore insieme con il giusto, il reo con l’innocente? Questo non è conforme alla mia giustizia, disdice alla mia maestà. Sono certamente misericordioso con coloro che si pentono, ma devo essere giusto con i reprobi. Ma indicami tu, dolce Madre, cosa debbo fare: chiedi e ti sarà facilmente accordato”. La madre così glirispose: “Non sta a me insegnarti quello che devi fare, perché tu, essendo la somma sapienza del Padre, conosci già tutto. Ma io spero che, se tu lo vuoi, possa trovare un rimedio per il popolo così in pericolo”. Così, con tali argomenti la Madre di Misericordia per tre giorni continui supplicò il Figlio per i peccatori. Finalmente, al terzo giorno egli con molto rispetto la sollevò e le disse: “So, o dolce Madre, che le anime periscono per mancanza di predicatori, non avendo chi spezzi loro il pane delle Sacre Scritture, chi annunci loro la verità ed apra per loro i libri chiusi. Per venire incontro alle tue preghiere manderò al mondo dei nuovi messaggeri, ossia l’Ordine dei Predicatori, i quali richiameranno il popolo invitandolo alle nozze eterne. Dopo chiuderemo la porta a tutti i ritardatari, ai malvagi e a quanti non hanno dato frutti” (Frachet, I, c. 3).

Ed ecco sorse un piccolo uomo, San Domenico: ma, purtroppo, ciò che Dio creò in un sol tratto, una sola penna non vale a descriverlo. Onde sarà sempre molto per noi, se riusciremo a dare qualche cenno della vita del Patriarca S. Domenico a coloro che non ne sanno affatto la storia.

CAPITOLO I.

Genesi di San Domenico.

In una valle della Vecchia Castiglia irrigata dal Duero e quasi ad eguale distanza da Aranda come da Osma, sorge un piccolo villaggio con il nome di Caleruega nel dialetto del paese, e Calaroga nella lingua più dolce di molti storici. Quivi nacque S. Domenico l’anno 1170 dell’era cristiana; e prima a Dio, poi a Felice di Gusman ed a Giovanna d’Aza dovette la sua esistenza. Sono ancora in piedi alcuni ruderi della casa che quei pii signori possedevano a Calaroga, ed in cui S. Domenico venne alla luce.

Alfonso il Savio, re di Castiglia, d’intesa con la moglie, con i figli e con i Grandi di Spagna, nel 1266 trasformò quell’abitazione in un monastero di religiose domenicane. Vi si notano tuttora parti più antiche che non il corpo dell’edificio, e poco rispondenti all’architettura di un monastero, quali: una torre militare del medio evo, in cui sono incrostate le armi dei Gusman; una fontana che dai Gusman prende nome; ed altri avanzi chiamati dal popolo, organo della tradizione, il palazzo dei Gusman. Il ramo castigliano di questa illustre famiglia aveva la sua principale residenza a poche leghe dalla città, nel castello dei Gusman; e la tomba a Gumiel d’Izam, nelle vicinanze di Calaroga, in una cappella della chiesa dei Cisterciensi. Là, dopo morti, furono trasportati Felice Gusman e Giovanna d’Aza, e seppelliti in due cripte contigue. Ma la venerazione stessa di cui furono oggetto, fu presto causa, che venissero separati. L’infante di Castiglia Giovanni Emanuele, verso il 1318 volle che il corpo di Giovanna d’Aza fosse trasferito nel convento dei Domenicani di Pennafiel, da lui medesimo fatto edificare. Fu così che Felice rimase solo nel sepolcro dei suoi maggiori, qual testimonio fedele dello splendore della sua famiglia, da lui trasmesso a S. Domenico; mentre Giovanna se ne andava a raggiungere la posterità spirituale del suo figliolo, onde godere di quella gloria da lui acquistata coll’anteporre la fecondità che viene dal Cristo a quella della carne e del sangue.

E’ celebre il prodigio che precedette la nascita di San Domenico. Parve alla madre di vedere in sogno il frutto delle sue viscere sotto la forma di un cane, che avesse in bocca una fiaccola accesa e che le balzasse dal grembo come per incendiare tutta la terra. Turbata assai da un presagio, di cui ignorava affatto il significato, andava spesso a pregare sulla tomba di S. Domenico di Silos, già abate del monastero omonimo, posto a poca distanza da Calaroga. E fu in riconoscenza delle consolazioni di là riportate che la madre volle imposto il nome di Domenico a quel suo figliolo, che era stato l’oggetto di tante sue preghiere. Era il terzo figlio che usciva dal suo seno benedetto. Antonio, il primogenito, consacrò la vita al servigio dei poverelli, e la sua grande carità molto fece onore al carattere sacerdotale di cui fu insignito; il secondo, per nome Mannes, morì rivestito anch’egli dell’abito dei Frati Predicatori.

Quando Domenico fu portato alla chiesa per esservi battezzato, un nuovo prodigio manifestò la grandezza a cui era predestinato. La madrina – gli storici non ce la fanno conoscere se non con il nome di nobile – vide una stella risplendere mirabilmente sulla fronte del battezzato; del che pare rimanesse vestigio sul volto di Domenico, quale segno caratteristico della sua fisionomia, brillando sempre sulla sua fronte un certo splendore che dolcemente attraeva il cuore di chi lo riguardasse. Il battistero di marmo bianco dove Domenico fu rigenerato coll’acqua sacramentale, nel 1605 venne trasportato nel convento dei Frati Predicatori a Valladolid per comando di Filippo III, che volle farvi battezzare suo figlio. Oggi si può vedere in S. Domenico di Madrid, e parecchi altri infanti di Spagna vi sono stati iniziati alla vita in Gesù Cristo, Signor Nostro amatissimo.

Domenico fu nutrito unicamente di latte materno; la sua madre non permise che altro sangue gli scorresse nelle vene: lo volle invece stretto sempre al suo seno, dal quale non poté attingere che casto alimento, e vicino alle proprie labbra, da cui non poté altro ascoltare che parole di verità. In questo commercio di amore materno egli aveva forse a temere l’involontaria mollezza delle fasce, e quella sovrabbondanza di cure, da cui anche la più cristiana tenerezza non sa sempre contenersi; ma la grazia che operava, in lui fu ben presto virtù preservatrice anche contro questo pericolo. Domenico infatti appena poté muovere con libertà le membra, segretamente usciva dalla culla per coricarsi in terra, quasi conoscesse già le miserie degli uomini e la differenza della loro sorte quaggiù, né pieno di amore per essi, gli reggesse il cuore di rimanere in morbido letto a preferenza dell’ultimo dei suoi fratelli; o meglio ancora, già iniziato ai segreti della culla di Gesù Cristo, non ambisse altro letto diverso dal suo. Questo è quanto sappiamo dei primi sei anni della sua vita.

Entrato nel settimo anno Domenico lasciò la casa paterna per essere condotto a Gumiel d’Izam, presso suo zio, arciprete di quella chiesa. Ivi, vicino alla tomba dei suoi antenati, sotto la doppia autorità della parentela e del sacerdozio, passò Domenico la seconda metà dell’infanzia. Scrive uno storico: “prima che il mondo avesse fatto impressione sull’animo del fanciullo, fu affidato, come Samuele, alla scuola della, Chiesa, acciocché un sano insegnamento mettesse radici nel suo tenero cuore. E basato sopra così solidi fondamenti, crebbe veramente di corpo e di spirito, elevandosi ogni giorno, con progresso felice, a più alto grado di virtù“.

La terza scuola in cui Domenico venne formandosi, fu, l’Università, di Palenza, nel regno di Leone, la sola allora in tutta la Spagna. Era sui quindici anni, e là per la prima volta si vide in balìa di se stesso, lungi dalla fortunata valle, dove, sotto le torri di Calaroga e di Gumiel d’Izam, aveva lasciato tutte le dolci e care memorie, che richiamano l’anima verso la terra natale. Rimase a Palenza per dieci anni, dei quali i primi sei consacrò allo studio delle lettere e della filosofia, quali allora s’insegnavano.

Ma per quanto l’angelico giovanetto, fa notare uno storico, penetrasse assai facilmente nelle ragioni della scienza umana, nondimeno non vi si sentiva troppo attratto, cercandovi indarno la sapienza divina, che è il Cristo.

Questa infatti nessun filosofo la poté mai ad altri comunicare; nessun principe di questo mondo l’ha mai conosciuta. Onde per il timore di sprecare in vani esercizi il fiore e la forza della sua giovinezza, e per estinguere la sete che lo divorava, Domenico attinse, alle profonde e limpide sorgenti, della teologia. Invocando e pregando il Cristo, ch’è la sapienza del Padre, aprì alla verace scienza il suo cuore, agli insegnamenti della Sacra Scrittura apprestò le sue orecchie. E così dolce gli giunse la divina parola, e con così ardente brama la ricevette nell’anima, che durante i quattro anni che vi si applicò, passò quasi insonni le notti consacrando allo studio il tempo del riposo; e per dieci anni si astenne anche dal vino, onde dissetarsi al fonte di questa divina sapienza con castità di lei sempre più degna. Era cosa ammirabile e cara veder lui così giovane, quale traspariva dal florido aspetto, accoppiare tanto bene e nelle parole e nel modi la gravità di una veneranda vecchiezza. Superiore agli svaghi propri della sua età, non ricercava che la giustizia; geloso del tempo, anteponeva ad inutili passeggi la solitudine della chiesa, sua madre, e la sacra quiete dei di lei tabernacoli, fra la preghiera ed il lavoro egualmente assiduo passando tutti i suoi giorni. Né il fervido amore con il quale osservava i divini comandamenti fu senza la meritata ricompensa; perché il datore di ogni bene infuso in lui tanto spirito di saggezza e d’intelligenza, da fargli risolvere senza alcuna difficoltà le più ardue questioni”.

Due episodi di questi dieci anni passati a Palenza ci sono stati tramandati. Il primo, quando Domenico durante una carestia che desolava la Spagna, non contento di dare ai poveri tutto ciò che aveva, non escluse le vesti, giunse a vendere anche i libri annotati di proprio pugno per distribuirne il denaro ai poveri. Ed a chi faceva le meraviglie com’egli si fosse potuto privare dei mezzi stessi di studio, rispose con queste poche parole, le prime che di lui ci siano pervenute: “Potrei forse studiare su pelli morte, quando vi sono uomini che muoiono di fame?”. Nobile esempio, che mosse i professori stessi e gli alunni dell’Università a venire anche loro in soccorso di quegli sventurati.

L’altro episodio avvenne quando alla vista di una donna che piangeva dirottamente perché non aveva modo di riscattare il suo fratello schiavo dei Mori, il Santo offrì per il riscatto la sua stessa persona. Dio però non lo permise, riservando Domenico alla redenzione spirituale di moltissimi uomini. Come a un viaggiatore che passi, al cadere dell’autunno, per un campo spogliato di messi, uno o l’altro frutto sfuggito alla mano dell’agricoltore ed unico resto di una fertilità scomparsa basta per giudicare dei campi sconosciuti che attraversa; così la Provvidenza lasciando nell’ombra del passato la giovinezza del suo servo Domenico, pure ha voluto che la storia ce ne conservasse alcuni tratti: imperfette ma vive rivelazioni di un’anima, in cui la purità, la grazia, l’intelligenza, la verità, tutte le virtù insomma erano i frutti dell’amore di Dio e degli uomini, maturi innanzi stagione.

Domenico toccava già l’anno venticinquesimo, e Dio non gli aveva ancora manifestato ciò che richiedesse da lui. Per l’uomo di mondo la vita è come uno spazio da percorrersi il più lentamente possibile, e per la via più dolce; tale però non è per il cristiano, il quale sa che ogni uomo è vicario di Gesù Cristo per cooperare con il sacrificio di sé alla redenzione dell’umanità, e che nel disegno di questa grand’opera ciascuno ha un posto preparatogli fin dall’eternità, ma ch’egli è libero di accettare o di ricusare. E sa di più che se abbandonerà volontariamente il posto offertogli dalla Provvidenza nella milizia delle creature utili, un altro migliore di lui vi sarà sostituito; ed egli rimarrà abbandonato a se stesso nella via larga, ma corta dell’egoismo. Questi pensieri occupano seriamente il cristiano a cui non è ancor nota la sua vocazione; e convinto che il più certo mezzo per conoscerla è il vivo desiderio di adempirla qualunque essa sia, sta pronto a tutto ciò che Dio voglia da lui. Di tutti gli uffici necessari alla repubblica cristiana, non ne disprezza alcuno, perché in ciascuno possono sempre riscontrarsi le tre condizioni che ne costituiscono la vera importanza: la volontà di Dio che lo impone, il bene che ne risulta dalla fedele esecuzione, e l’ossequio del cuore devoto chiamato ad esercitarlo. Crede pure fermamente che gli uffici meno onorati non sono i più spregevoli, e che la corona dei santi mai discende più opportunamente dal cielo di quando va ad ornare una fronte povera e incanutita nell’umiltà volontaria di una dura abnegazione. Poco dunque importa al cristiano dove Dio lo destini; gli basta sapere che fa la di Lui volontà. Ora Iddio aveva preparato per il giovane Domenico un mediatore ben degno, il quale gli rivelasse la sua vocazione non solo, ma gli aprisse le porte della sua futura carriera, e l’introducesse per vie impreviste sul teatro ove la Provvidenza lo aspettava.

Fra i mezzi di riforma proposti da coloro che si studiavano di rialzare l’ecclesiastica disciplina, uno era particolarmente raccomandato dai Sommi Pontefici, cioè l’introduzione della vita comune nel clero. In comune erano vissuti gli Apostoli: e S. Agostino ispirandosi appunto a loro aveva lasciato a tal fine la famosa Regola che porta il suo nome. La vita comune non è in sostanza che la vita di famiglia e di amore al più alto grado di perfezione; ed è impossibile praticarla fedelmente, e non sentirsi compresi da sentimenti di fraternità, di povertà, di pazienza, di abnegazione, che sono l’anima del cristianesimo. Da un secolo e mezzo circa si dava il nome di Canonici Regolari a quei preti, che abbracciavano tal genere di vita. Essi peraltro, eccettuato l’Ordine dei Canonici Regolari Premonstratensi, fondate da San Norberto nel 1120, non costituivano un corpo solo sotto un medesimo capo; ma ogni casa aveva il suo proprio Priore, dipendente unicamente dal Vescovo. Martino di Bazan, vescovo di Osma, desideroso di contribuire egli pure alla restaurazione della Chiesa, aveva di recente mutato in Canonici Regolari i canonici della sua cattedrale; e venuto a sapere come all’Università di Palenza si trovasse un giovane di raro merito, nativo della sua diocesi, concepì la speranza d’incorporarlo al suo capitolo e d’averlo così cooperatore nella riforma. Affidò l’affare a quell’uomo che gli era stato principale aiuto nella difficile opera intrapresa, uomo illustre per nascita, per ingegno, per dottrina, per immacolatezza di vita, e che a queste qualità, comuni anche ad altri, aggiunse poi un titolo non diviso con altri mai. Sono sei secoli che lo spagnolo Don Diego d’Azevedo riposa sotto una pietra che non mi fu dato visitare; ciò nonostante non posso proferire il suo nome, senza provarne sentimenti di affettuosa riverenza. Egli fu il mediatore, scelto da Dio per illuminare e dirigere il patriarca di una famiglia di cui sono figliolo; ed io risalendo con la memoria la lunga catena dei miei padri spirituali, lo ritrovo fra S. Domenico e Gesù Cristo.

La storia non ci ha conservato i primi colloqui fra Don Diego e il giovane Gusman; ma dagli effetti che ne seguirono, è facile indovinarli. Sull’età dei venticinque anni ogni anima generosa non altro e meglio desidera che di donare sé stessa. Ricca di amore come di forza non chiede al cielo e alla terra che una causa, grande cui consacrarsi con devozione magnanima. E se ciò è vero di ogni anima ben temperata per felice disposizione di natura, quanto più dovrà dirsi di quella in cui il cristianesimo e la natura insieme si uniscano quasi vergini fiumi, di cui non una stilla sola si è perduta in vane passioni? Facile dunque è immaginare quali fossero i discorsi fra Don Diego ed il giovane studente di Palenza. In pochi minuti gl’insegnò senza dubbio quel che indarno si cerca nei libri e nelle Università: a qual punto cioè fosse allora giunta la lotta del bene e del male nel mondo, quali le profonde ferite inflitte alla Chiesa, quale la generale tendenza delle cose, quale insomma l’intreccio segreto di tutto un secolo. E Domenico, messo a parte dei mali del suo tempo da un uomo che li sentiva profondamente, provò certamente l’irresistibile bisogno di contribuire anch’egli con il corpo e collo spirito a vantaggio della Cristianità sofferente. Intravide in un baleno la sua vocazione, il suo dovere nello stato sacerdotale secondo l’ordine di Melchisedech, sull’esempio di Gesù Cristo, unico Salvatore del mondo, unica sorgente di verità, di bene, di grazia, di pace, di ogni nobile sacrificio; i cui nemici, comunque si chiamino, sono i nemici eterni del genere umano.

Questo divino sacerdozio, avvilito in mani troppo indegne della consacrazione, aveva bisogno di essere rinobilitato al cospetto di Dio e dei popoli: cosa impossibile ad ottenersi, se non con il far rivivere le apostoliche virtù in coloro che ne avevano l’onore e l’obbligo. E perché in ogni rinnovazione di cose, questo è il primo passo: fare cioè quel che si vuol poi fatto dagli altri; l’erede dei Gusman consacrò la sua vita a Dio nel capitolo già riformato di Osma, sotto la direzione di Don Diego che ne era il priore. “Allora – così si esprime il beato Giordano di Sassonia – egli così si mostrò tra i canonici suoi fratelli quasi fiaccola ardente, primo in santità, ultimo di tutti per umiltà di cuore, spirante intorno a sé un odore di vita, che vita in altri infondeva, ed un profumo simile a quello d’incenso. I suoi fratelli attratti da questa sua condotta tanto religiosa, lo elessero a loro sottopriore, affinché collocato più in alto, il suo esempio fosse meglio avvertito e più efficace. E Domenico, come olivo che mette rampollo, come cipresso che s’innalza al cielo, passava il giorno e la notte in chiesa pregando incessantemente, senza uscire quasi mai fuori del chiostro per timore di rubare tempo alle consuete contemplazioni. Dio gli aveva fatto grazia di piangere per i peccatori, per gl’infelici e per gli afflitti; il santuario interno della sua compassione era ricolmo dei loro mali, e questo amore doloroso, premendogli fortemente il cuore, ne traeva le lacrime. Era suo costume, e di rado lo interrompeva, di passare la notte pregando, intrattenendosi, a porte chiuse, con Dio. Ed allora si udivano talvolta vive voci e come dei gemiti, indarno soffocati in petto. La domanda che più di frequente indirizzava a Dio era specialmente quella della grazia di una carità verace, di un amore che niente risparmiasse per la salute degli uomini; persuaso di non poter essere un membro vero del Cristo, se non quando si fosse consacrato con tutte le forze alla redenzione delle anime, sull’esempio dello stesso Salvator nostro Gesù Cristo, immolatosi generosamente per la salute di tutti. Leggeva un libro intitolato Conferenze dei Padri, dove si parla dei vizi e della spirituale perfezione; e leggendolo faceva ogni sforzo per conoscere tutte le vie del bene e seguirle. Queste letture coadiuvate dalla grazia lo sublimarono a purità di coscienza non comune, ad un grado di contemplazione illustrata da copiosi lumi, ad una perfezione insomma elevatissima”.

La Provvidenza non ebbe fretta riguardo a Domenico, quantunque la sua vita non dovesse esser lunga; e per ben nove anni lo lasciò ad Osma, affinché si preparasse ad una missione a lui ancora sconosciuta. In questo frattempo, cioè nel 1201, Don Diego d’Azevedo successe nella sede vescovile a Martino di Bazan; e Domenico, poco dopo, cominciò ad annunciare la parola di Dio, sempre però nelle vicinanze di Osma, continuando molto probabilmente in questo suo ministero, di cui ignoriamo i particolari, fino al 1203: momento solenne, in cui Domenico sull’età di trentaquattro anni lasciò la Spagna, per incamminarsi, senza saperlo, verso il luogo dei suoi destini.

Qui finisce la genesi di S. Domenico, vale a dire la serie di quelle cose che formando il corpo e l’anima di lui, lo prepararono alla missione provvidenziale ch’egli liberamente doveva compiere. Ogni uomo ha la sua genesi proporzionata alla sua futura missione nel mondo, la conoscenza della quale basta da sola a fare intravedere ciò ch’egli sarà. L’amicizia ci apre i nascondigli profondi ove stanno sepolti i misteri del passato e dell’avvenire; la confessione ce li fa conoscere sotto altro aspetto; la storia tenta di penetrarvi dentro fino a rintracciarli nelle prime loro cause, per rannodarne così il filo alla mano di Colui che crea i germi e vi depone il bene sotto innumerevoli forme. Domenico chiamato da Dio a fondare un Ordine nuovo, che avrebbe edificata la Chiesa con la povertà, con la predicazione e con la scienza divina, ebbe una genesi manifestamente conforme a tale predestinazione. Nasce da famiglia illustre, perché la povertà volontaria è più attraente in chi ha saputo dispregiare e la fortuna e la nobiltà che possedeva; nasce nella Spagna, fuori del paese che sarà il teatro del suo apostolato, perché uno dei più grandi sacrifici riservati all’apostolo è quello appunto di abbandonare la patria per esser lume a nazioni di cui ignora anche la lingua; passa all’Università i primi, dieci anni della sua giovinezza per acquistarvi la scienza necessaria all’evangelico ministero, e trasmetterne l’eredità e la cultura al suo Ordine; per altri nove anni si assoggetta alle pratiche della vita comune affine di sperimentarne i benefici, le difficoltà, i pregi e non imporre in seguito ai suoi fratelli un giogo che egli stesso non avesse portato per molto tempo.

Fin dall’infanzia poi Dio gli dà l’istinto e la grazia di sottomettere il corpo ad un genere di vita assai duro. Perché come l’apostolo sopporterebbe la fatica dei viaggi, il caldo, il freddo, la fame, le prigioni, le percosse, la miseria, se per tempo non avesse adusato il corpo alla più rigida disciplina? E anche un gusto precoce ed ardente della preghiera gli è dato da Dio, essendo la preghiera l’atto onnipotente che mette a disposizione dell’uomo le forze stesse del Cielo: il Cielo è inaccessibile alla violenza; la preghiera lo abbassa fino a noi. Soprattutto poi Domenico è adorno del dono senza il quale tutti gli altri sono un nulla, il dono di una carità immensa, che giorno e notte lo stimola a consacrarsi tutto alla salvezza dei suoi fratelli, e lo rende sensibile fino alla lacrime a tutte le loro afflizioni. Ad iniziarlo infine ne’ misteri del suo secolo, Dio lo fa incontrare in un uomo di forte tempra, che gli sarebbe amico fedele e suo Vescovo, e che lo avrebbe introdotto, come ora vedremo, in Francia ed a Roma. Questi i fatti, non numerosi, ma progressivi e profondi, che s’intrecciano man mano in un giro di trentaquattro anni, e che ci mostrano Domenico già formato e giunto immacolato alle porte di una, virilità la più splendida che possa desiderare un, uomo, il quale abbia conoscenza di Dio.

CAPITOLO II Arrivo di S. Domenico in Francia. Suo primo viaggio a Roma. Colloquio a Montpellier.

Alfonso VII, re di Castiglia avendo divisato di dare per sposa al suo figliolo una principessa di Danimarca, scelse a trattare l’affare il Vescovo d’Osma; il quale preso con sé Domenico, verso la fine del 1203 se ne partì a tale scopo per il Settentrione della Germania. Ambedue, nell’attraversare la Linguadoca, poterono verificare con i propri occhi i progressi spaventosi degli eretici Albigesi, e n’ebbero il cuore amaramente contristato. Giunti poi a Tolosa, Domenico s’accorse che lo stesso loro albergatore era eretico; e per quanto il tempo fosse ristretto – non dovevano trattenersi che una sola notte – pure egli non volle che il suo passaggio restasse infruttuoso per il traviato uomo. Gesù Cristo aveva detto agli Apostoli: “Quando voi entrerete in una casa sia questo il vostro saluto: Pace a questa casa! E se la casa n’è degna, la vostra pace discenderà sopra di essa; se poi non ne è degna, la vostra pace ritornerà a voi” (Mt 10, 12-13). I Santi, che tutte le parole di Gesù Cristo sentono vive nell’anima, e conoscono la virtù di una benedizione data anche a chi l’ignori, si credono come inviati da Dio ad ogni creatura in cui s’imbattono, e procurano di non lasciarla, se prima non le abbiano deposto nel seno qualche germe di misericordia. Domenico quindi non fu pago di pregare in segreto per l’albergatore infedele, ma passò la notte conversando, con lui; e l’inaspettata eloquenza del forestiero così fortemente scosse il cuore dell’eretico, che prima dell’alba, già era ritornato alla fede. A questo tenne dietro un altro prodigio. Poiché Domenico toccato fortemente sia dalla conquista da lui fatta a pro della verità, che dallo spettacolo straziante delle rovine cagionate dall’errore, concepì allora per la prima volta l’idea di creare un Ordine tutto consacrato alla difesa della Chiesa. Per mezzo della predicazione. E tal pensiero subitaneo talmente s’impadronì del suo spirito, che mai più lo lasciò. Ond’egli partì dalla Francia con il segreto ormai trovato della sua futura vocazione; quasi che la Francia, gelosa di non aver dato alla luce un tant’uomo, avesse impetrato da Dio che almeno Domenico non avesse invano messo piede sul suo suolo, e fosse a lei riserbata l’ispirazione suprema della di lui vita.

Don Diego e Domenico giunti, non senza gran disagio, a termine del loro viaggio, trovarono la corte di Danimarca disposta a stringere gli sponsali desiderati da quella di Castiglia. Quindi incontanente se ne partirono per darne notizia a re Alfonso, e ritornare poi con più magnifico apparato a prender la principessa e condurla in Spagna. Ma essa in questo frattempo morì. Don Diego liberato dalla sua missione, spedì al re un messaggio; ed in compagnia di Domenico rivolse i passi verso Roma.

Non v’era cristiano a quei tempi il quale si rassegnasse a morire senza aver prima appressate le proprie labbra sulla tomba dei Beati Apostoli Pietro e Paolo. Il poverello stesso muovevasi a piedi da terre le più lontane per visitare le loro reliquie, e ricevere almeno una volta in vita la benedizione del Vicario di Gesù Cristo. Don Diego e Domenico s’inginocchiarono insieme su quella tomba che governa il mondo; e levando umilmente la fronte dalla polvere, provarono anche un’altra consolazione, la più grande che possa toccare ad un cristiano quaggiù, quella di vedere sul trono pontificio un uomo degno di occuparlo. Questi era Innocenzo III. Quali furono i sentimenti di cui fu ripiena l’anima loro alla vista della mondiale città, la storia non lo dice. Chi va a Roma per la prima volta ed ha l’unzione del cristianesimo insieme alla grazia della giovinezza, questi solo può comprendere l’emozione che essa è capace di produrre; altri non lo potrà giammai. Ed io amo la sobrietà di quegli antichi storici che tacquero quel che la parola non vale ad esprimere.

Il Vescovo di Osma aveva in mente di chiedere una grazia al Pontefice; voleva cioè rinunziare all’episcopato per consacrare tutto il resto della sua vita alla propagazione della fede in, mezzo ai Cumani, popolo barbaro sui confini dell’Ungheria, e famoso per la crudeltà dei suoi costumi. Innocenzo III però ricusò di accondiscendere a questo eroico desiderio; e quantunque Diego facesse premure, affinché gli fosso almeno concesso, pur conservando il vescovado di Osma, di potere andare a predicare agli infedeli, il Papa stette fermo nella negativa e gli comandò di tornarsene alla sua sede.

I due pellegrini dunque nella primavera del 1205 rivalicarono le Alpi coll’intenzione di tornare direttamente nella Spagna. Cedettero tuttavia al pio desiderio di visitare, passando, uno dei più celebri monasteri della cristianità; e facendo un largo giro, si fermarono a bussare alla porta dell’abbazia di Citeaux.

Lo spirito di S. Bernardo aleggiava ancora colà. Che se l’osservanza non era più quella, pur v’erano, rimembranze assai belle delle di lui virtù, tanto che il Vescovo d’Osma ne rimase innamorato, e manifestò ai religiosi il desiderio di ricevere il loro abito illustre. Gli fu concesso senza difficoltà; e coll’indossare quelle divise monastiche, poté lenire alquanto il dolore di non esser riuscito a farsi povero missionario in paesi infedeli. Domenico si trattenne dall’imitare l’amico, per quanto riportasse da Citeaux grande stima e viva affezione verso i religiosi di quell’Ordine. Ambedue quindi, dopo breve soggiorno nell’abbazia, ripresero il cammino; e scendendo, com’è da presumere, lungo le sponde della Saona e del Rodano, raggiunsero i sobborghi di Montpellier.

Tre uomini che a quei tempi ebbero gran parte negli affari della Chiesa, si trovavano allora a Montpellier, cioè: Arnaldo, abate di Citeaux; Rodolfo e Pietro di Castelnau, monaci del medesimo Ordine. Il papa Innocenzo III li aveva nominati legati apostolici per le provincie d’Aix, d’Arles, e di Narbona, con piene facoltà di fare quanto avessero creduto opportuno per la repressione dell’eresia. La loro legazione però, quantunque datasse da più di un anno, non aveva riportato alcun frutto. Il conte di Tolosa, signore di quelle province, proteggeva apertamente gli eretici; tra i vescovi, chi per viltà, chi per trascuratezza, taluni anche per essere eretici loro stessi, tutti insomma si ricusavano d’aiutare i legati; ed il clero era talmente caduto nel disprezzo dei popoli “che il nome di ecclesiastico – fa notare Guglielmo di Puy Laurens – era passato in proverbio come dicevasi da molti: vorrei piuttosto essere un ecclesiastico, che far questa o quella cosa. E quando i chierici uscivano in pubblico, procuravano a bella posta d’aggiustarsi i capelli in modo da nascondere la tonsura resa già piccolissima. Raramente i nobili indirizzavano i loro figlioli per la via del chiericato; e per provvedere alle chiese di cui essi riscuotevano le decime, presentavano i figli dei loro dipendenti; i vescovi poi conferivano gli ordini a chi potevano”. Innocenzo III non aveva dissimulato ai suoi legati la gravezza del male; che anzi in una lettera del 31 maggio 1204, così loro si esprimeva: “Quelli stessi che S. Pietro aveva chiamati a parte delle sue cure per vegliare sul popolo d’Israele, non vegliano la notte sopra la greggia, ma se la dormono; e mentre Israele è alle prese con Madian, essi si ritraggono dalla battaglia. Il pastore degenerò in mercenario; più non pasce il gregge, ma se medesimo; ha cura del latte e della lana, lascia poi che i lupi entrino pur nell’ovile; non si oppone affatto quale antemurale ai nemici della casa del Signore; ma vero mercenario, fugge davanti all’empietà che potrebbe distruggere, e con tradimento se ne fa protettore. Quasi tutti hanno abbandonata la causa di Dio; e fra quelli che le sono rimasti fedeli, la maggior parte le sono inutili”.

I tre legati erano uomini di fede viva e di fermo carattere; ma, abbandonati da tutti non avean potuto agire né per via di autorità, né per via di persuasione. Nessun vescovo di quelle province aveva voluto unirsi a loro per esortare il conte Raimondo VI a riandare con la memoria le gloriose gesta dei suoi maggiori. Né più felice era stato il successo delle conferenze tenute con gli eretici, i quali sempre rinfacciavano loro l’abominevole vita del clero, facendosi forti con quelle parole di Gesù: Voi li conoscerete dai loro frutti (Mt 7,16). Quindi nonostante la virile tempra del loro animo, i legati sconfortati sperimentavano dolorosamente esservi dei pesi impossibili a sollevarsi dall’uomo, quando colpe accumulate hanno esposto la verità ad esser vittima delle passioni. Ed era sotto l’incubo di questa impressione che a Montpellier stavano deliberando sul da farsi. La comune risoluzione era stata quella d’informare di tutto esattamente il Pontefice, e nel tempo stesso rimettere nelle sue mani un incarico che essi non valevano a disimpegnare né con frutto, né con onore. Ma ciò che è disperato agli occhi degli uomini, non lo è per Iddio. La divina Provvidenza preparava già da trenta anni la formidabile risposta ai lamenti dei suoi servi ed alle ingiurie dei suoi nemici; e l’ora era suonata perché questa risposta si desse. Infatti in quell’istante medesimo che i legati avevano presa così triste determinazione, vennero a sapere che Don Diego d’Azevedo, vescovo di Osma, era giunto a Montpellier. Subito fecero pratiche perché li andasse a trovare, e Don Diego accondiscese al loro invito.

Qui lasceremo parlare il B. Giordano di Sassonia.

“I legati lo accolgono con onore e lo richiedono di consigli, sapendo bene esser lui un santo uomo, savio, e pieno di zelo per la fede. Dotato com’era di prudenza e addentro nelle vie del Signore, comincia egli dall’informarsi degli usi e dei costumi degli eretici, e trova che questi facevano proseliti per la via della persuasione, con la predicazione cioè, e con un certo apparato di santità; mentre i legati erano circondati da grande e sfarzoso corteggio di servi, di cavalli e di vestimenta.

Ond’egli allora: – Non è questo, fratelli miei, il modo di comportarsi; non è possibile far rinsavire questi traviati con le parole soltanto, quando essi si fanno forti coll’esempio. Costoro seducono le anime semplici simulando povertà ed austerità evangelica; se voi dunque presenterete loro tutt’altro spettacolo, edificherete poco, e distruggerete molto; né il loro cuore sarà scosso mai. Combattete l’esempio coll’esempio; ad una finta santità opponete la vera; per vincere l’ingannevole fasto degli apostoli bugiardi, non c’è altra via che una provata umiltà. Fu per questo che Paolo si trovò costretto a mostrare la sua virtù, le austerità, i continui travagli della sua vita a coloro che si gonfiavano contro di lui dei loro meriti e delle loro fatiche. I legati risposero: Ottimo padre, e allora qual consiglio ci dareste? – Di fare, rispose Diego, quello che farò io. – E pieno dello spirito del Signore, chiama quelli del suo seguito; ordina loro di tornarsene ad Osma con tutti gli equipaggi ed i bagagli; con se non ritiene che un piccolo numero di ecclesiastici, dichiarando di voler rimanere in quelle contrade a difesa della fede. Tra quelli fatti rimanere, c’era il sottopriore Domenico, da lui amato e stimato sommamente; quel Domenico, che fu l’istitutore dell’Ordine dei Frati Predicatori, e che fin da quel momento non si chiamò più sottopriore, ma Fra Domenico, uomo del Signore veramente, per l’innocenza della vita e per lo zelo della legge di Dio. I legati attratti dal consiglio e dall’esempio di Don Diego, senza indugio l’imitarono. Rimandarono anch’essi i bagagli ed i servi, non conservando con sé altro che i libri necessari per le controversie; e a piedi, in stato di perfetta povertà volontaria, con a capo il Vescovo di Osma, se ne andarono a predicare la vera fede”.

Con quale arte e con quanta pazienza aveva Dio preparato tal soluzione! Sulla riva di un fiume spagnolo due uomini, diversi di età, ricevono abbondantemente lo Spirito del Signore, ed a suo tempo s’incontrano, attirati l’un l’altro dal profumo delle loro virtù, come due alberi preziosi piantati in una stessa foresta che si cercano e si piegano a vicenda per toccarsi. Quando poi una lunga amicizia ha congiunto intimamente la loro vita ed i loro pensieri, un destino imprevisto li trasporta fuori del paese natale, li fa viaggiare per l’Europa dai Pirenei al mar Baltico, dal Tevere ai colli della Borgogna, affinché senza neppure averlo sognato, arrivino in tempo a dare un consiglio a uomini sconfortati, benché di grande animo; consiglio che cambia la faccia delle cose, salva l’onor della Chiesa e prepara legioni di apostoli per un prossimo avvenire! I nemici della Chiesa non ne devono aver mai letta attentamente la storia; altrimenti avrebbero notato l’inesauribile fecondità dei suoi mezzi e l’opportunità medesima di tanta fecondità. La Chiesa, simile a quel gigante, figlio della terra, che raccoglieva nuovo vigore dalle sue stesse cadute, la vedi ritornare per mezzo delle sventure alle virtù della sua culla e, nella perdita stessa della possanza avuta dal mondo, ricuperare la naturale sua forza. Il mondo non potrà toglierle se non ciò che le ha dato: nobiltà di sangue, privilegi, onori, protezioni: vesti tessute da mani impure, tunica di Dejanira, che la Chiesa non deve portare sulla sua carne ch’è sacra, ma tutt’al più sopra il sacco della sua nativa umiltà. Se l’onore, invece di essere strumento della carità ed ornamento della verità, altera l’una e l’altra, è d’uopo che vada perduto; e il inondo, disonorando allora la Chiesa, non fa che renderle la veste nuziale donatale dal divino suo sposo, e che niuno varrà mai a strapparle di dosso. Come infatti togliere la nudità a chi la vuole? Come rapire il nulla a chi ne fa suo tesoro? Nella Croce accettata Dio ha posto la forza della sua Chiesa, e non v’ha mano d’uomo che possa penetrare in quest’abisso per impossessarsi di qualche cosa. Onde i persecutori più accorti non tanto si studiarono di spogliare, quanto di corrompere la Chiesa; ed è questo l’ultimo gradino di depravazione possibile. Battendo questa rotta tutto sarebbe perduto, caso mai Dio permettesse che la corruzione fosse universale. Ma invece la corruzione genera la vita, e la Coscienza rinasce dalle sue stesse rovine: circolo vizioso di cui Dio solo ha il segreto e con cui governa il mondo.

Niente v’era di più disperato, delle condizioni religiose in Linguadoca nel 1205. Il principe, un eretico appassionato; la maggior parte dei baroni favoreggianti l’eresia: quando il potere civile non aiuta la Chiesa è la rovina. I vescovi, poi, senza cura dei loro doveri, anzi alcuni, come il vescovo di Tolosa e l’arcivescovo d’Auch, contaminati da pubblici delitti; il clero caduto in disistima; i cattolici rimasti fedeli pochi di numero; l’errore insultante con menzognere virtù ai disordini della Chiesa; lo scoraggiamento infine in coloro stessi che in un cuore casto e forte serbavano immacolata la fede. Eppure due cristiani passati a caso per di là, bastano per far cambiare aspetto ad ogni cosa. Rincuorano i legati della S. Sede, confondono gli eretici con un apostolato povero ed austero, confermano le anime vacillanti e consolano le salde, scuotono i vescovi dalla loro indolenza, un gran vescovo salirà allora sulla sede di Tolosa; e se il successo rimarrà ancora in forse, pur sarà sempre bastante per far conoscere da qual parte stia la verità, la giustizia, l’abnegazione e la certezza di una causa divina.

CAPITOLO III.

Apostolato di S. Domenico dall’abboccamento di Montpellier fino al principio della guerra Albigese

Fondazione del monastero di Notre-Dame di Prouille.

Quanto fra i legati apostolici ed il Vescovo di Osma era stato stabilito, senza indugio fu mandato ad effetto. L’abate di Citeaux partì per la Borgogna a presiedervi il capitolo generale del suo Ordine, e promise che sarebbe tornato con buon numero di operai evangelici. Gli altri due legati con Don Diego, con Domenico e con alcuni preti spagnoli s’avviarono a piedi verso Narbona e Tolosa. Strada facendo, sostavano nelle città e nelle borgate a seconda che lo Spirito del Signore li ispirava o potevano rilevare dalle circostanze che la loro parola sarebbe stata fruttuosa. Divisato poi che avessero di predicare in qualche luogo, ci si fermavano più o meno, attesa l’importanza del paese e l’impressione prodottavi. Ai cattolici predicavano nelle chiese; con gli eretici tenevano conferenze in case private. L’uso di tali conferenze è antichissimo. San Paolo stesso ne teneva di frequente con gli Ebrei, e S. Agostino con i Donatisti e con i Manichei dell’Africa. E per verità, se fra le cause dell’errore si conta pure l’ostinazione, l’ignoranza ne è la causa più comune. La maggior parte degli uomini non rigettano la verità solo perché, ignorandola, se la rappresentano sotto forme, che non hanno niente di reale.

Uno degli obblighi dell’apostolo è dunque esporre chiaramente la vera fede, sceverandola da tutte le opinioni particolari che la oscurano, lasciando allo spirito umano tutta la libertà che la parola di Dio e la Chiesa, sua interprete, gli consentono. Ma questa esposizione non è possibile se non in quanto attira coloro che ne hanno bisogno; ed allora solo è completa, quando permette agli avversari la discussione, come noi ci riserbiamo il diritto di esaminare le loro dottrine. E’ questo il fine delle conferenze, onorevole palestra, dove uomini di buona fede invitano a discutere uomini di buona fede, dove la parola è l’arma uguale per tutti, e la coscienza il solo giudice.

Se però l’uso delle conferenze è antico, quelle tenute con gli Albigesi rivestirono una certa novità ed arditezza tutta propria. I cattolici non temettero di eleggere spesso ad arbitri delle controversie gli stessi avversari, rimettendosi al loro giudizio, invitando a presiedere l’assemblea i più celebri fra gli eretici, e dichiarando fin da principio che sul valore delle ragioni addotte da ambedue le parti, sarebbero stati alle loro decisioni. Quest’eroica fiducia fruttò loro assai bene, e più volte poterono rallegrarsi di avere confidato assai nel cuore umano; ebbero anzi le più solenni prove dell’inesauribile disposizione al bene che sempre vi si nasconde.

Una delle prime borgate dove i nostri si fermarono fu Caraman, non lontano da Tolosa. Con tanto successo vi annunciarono per otto giorni la verità, che gli abitanti volevano cacciarne a forza gli eretici; e quando i missionari partirono, li accompagnarono per lungo tratto. Beziers li ebbe per quindici giorni. Ivi la piccola schiera rimase priva di Pietro di Castelnau pregato dagli amici ad allontanarsi a cagione dell’odio particolare che a lui, portavano gli eretici. Una terza stazione fu fatta a Carcassona; un’altra a Verfeuil, nelle vicinanze dì Tolosa; una quinta. a Fanjeaux, piccola città situata in alto fra Carcassona e Pamiers. Quest’ultima è rimasta celebre per un fatto miracoloso, che il B. Giordano di Sassonia racconta con queste parole:

Accadde che a Fanjeaux fosse tenuta una clamorosa conferenza davanti ad una moltitudine di fedeli ed infedeli. I cattolici avevano preparati diversi memoriali pieni di argomenti e di autorità a sostegno della loro fede; esaminati però, e confrontati insieme, fu prescelto, per opporre al memoriale che dal canto loro avrebbero presentato gli eretici, quello del beato servo di Dio Domenico. Di comune accordo con gli eretici furono designati tre arbitri per giudicare da qual parte militassero ragioni migliori, e per conseguenza più soda fosse la fede. Ma dopo molto ragionare, non consentendo gli arbitri in una stessa sentenza, venne loro in mente di gettare nel fuoco le due memorie, persuasi che se una fosse risparmiata dalle fiamme, essa avrebbe contenuto senza dubbio la vera dottrina. Si accese dunque un gran fuoco e vi si gettarono i due volumi; quello degli eretici fu subito in fiamme, mentre l’altro che il beato servo di Dio Domenico aveva scritto, non solamente rimase illeso, ma fu respinto via dal fuoco stesso in presenza di tutta quanta l’assemblea. Vi si rigettò una seconda volta e poi una terza, ed il prodigio sempre ripetutosi diede manifestamente a conoscere da qual parte stesse la verità, e quanta fosse la santità di chi aveva scritto quel libro”.

La memoria di questo fatto è rimasta non solo nella storia, ma anche nelle tradizioni di Fanjeaux; e nel 1325 gli abitanti di quel luogo ottennero da Carlo il Bello di poter comprare la casa ove era avvenuto il prodigio e di trasformarla in cappella, arricchita poi dai Sommi Pontefici di molti privilegi Un miracolo simile accadde più tardi a Montréal, ma in segreto, fra eretici convenuti nottetempo per esaminare un altro memoriale del medesimo servo di Dio. Per quanto però si fossero promessi a vicenda di occultare la cosa, pure uno di essi, convertitosi alla fede, la rivelò.

Frattanto Domenico si era bene accorto che una delle cause per cui l’eresia progrediva era la scaltrezza con la quale gli eretici attiravano a sé l’educazione di nobili giovinette, che le famiglie per mancanza di mezzi non potevano educare convenientemente alla loro condizione. Stava quindi investigando al cospetto di Dio il da farsi per rimediare a tanta seduzione; e credette di potervi provvedere con la fondazione di un monastero destinato a ricevere quelle fanciulle cattoliche che la nobiltà dei natali e la povertà insieme esponevano alle insidie dell’eresia. Eravi a Prouille, villaggio posto in una pianura tra Fanjeaux e Montréal, alle falde dei Pirenei, una chiesa dedicata alla SS. Vergine e celebre da molto tempo nella venerazione dei popoli. Domenico nutriva devozione particolare per Notre-Dame di Prouille; spesso nei suoi viaggi apostolici ci si era fermato a pregare; e sia che salisse i primi colli dei Pirenei, sia che ne discendesse, l’umile santuario di Prouille gli era sempre apparso, all’entrare nella Linguadoca, come un luogo di speranze e di consolazioni. Quivi dunque, a fianco della chiesa, coll’approvazione e con l’aiuto del vescovo Folco, asceso allora alla sede di Tolosa, edificò Domenico il suo monastero. Folco era monaco cistercense, assai noto per la purità della vita e l’ardore della fede; ed i cattolici, di Tolosa se l’erano scelto per vescovo, dopo che Raimondo di Rabenstens, suo predecessore, per decreto del Pontefice ne era stato rimosso. La sua elezione ad una sede tanto importante fu accolta con somma gioia in tutta la Chiesa; e quando lo venne a sapere anche il legato Pietro di Castelnau, allora gravemente infermo, sollevatosi un po’ dal letto, a mani giunte ne rese grazie al Signore. Folco ben presto fu l’amico di Domenico e di Don Diego, e favorì quanto poté l’erezione del monastero di Prouille, cui concesse prima l’uso e poi la proprietà della chiesa di Santa Maria, accanto alla quale Domenico l’aveva edificato. E prima di Folco, Berengario, arcivescovo di Narbona, aveva donato alle suore, quattro mesi appena dacché si erano riunite, la chiesa di S. Martino di Limoux con tutte le rendite che le appartenevano. In seguito anche il conte Simone di Montfort ed altri nobili cattolici fecero doni rimarchevoli a Prouille, che ben presto addivenne un fiorente e celebre monastero. Parve anzi che una grazia speciale sempre lo assistesse; perché la stessa guerra civile e religiosa che di lì a poco scoppiò, non si avvicinò alle sue mura se non per venerarle. E mentre le chiese erano spogliate, i monasteri distrutti, l’eresia in armi e spesso vittoriosa, povere figliole del tutto indifese pregavano tranquillamente a Prouille, all’ombra ancor giovane del loro chiostro. Le prime opere dei Santi spirano sempre un profumo di verginità che tocca il cuore di Dio; e Colui che protegge il filo d’erba contro la tempesta, veglia alla culla delle grandi cose.

Quale fosse in principio l’abito e quali le regole delle Suore di Prouille, non si sa con certezza. A capo stava una Priora sotto la Direzione di Domenico, che ritenne l’amministrazione spirituale e temporale del monastero, affinché le sue care figliole non fossero disgiunte dal futuro Ordine che stava meditando, anzi ne fossero come il primo seme. Però non permettendogli le sue cure apostoliche di fissare in Prouille la sua residenza, commise l’amministrazione temporale del monastero ad un abitante di Pamiers, a lui bene affetto, per nome Guglielmo Claret; e chiamò altresì a parte della direzione spirituale uno o due ecclesiastici, francesi o spagnoli non so, e di cui anche il nome è rimasto sconosciuto. Una parte del monastero fuori di clausura, fu adibita ad uso di Domenico e dei suoi coadiutori, affinché la loro abitazione distinta, ma sotto un medesimo tetto, fosse garanzia dell’unione che legherebbe un giorno i Frati Predicatori alle Suore Predicatrici, due rami sbocciati da un medesimo tronco. E quando tutto fu ultimato il 27 dicembre 1206, festa di S. Giovanni Evangelista, Domenico ebbe la consolazione di aprire le porte di Notre-Dame di Prouille a parecchie gentildonne e giovanette che per mezzo suo avevano desiderato consacrarsi a Dio.

Tali i primordi delle istituzioni Domenicane. Da principio un asilo a protezione della triplice debolezza del sesso, della nascita e della povertà, come la redenzione del mondo che cominciò nel seno di una vergine povera e figlia di David. Notre-Dame di Prouille, solitaria e modesta, aspettò ancora lungamente ai piedi della montagna i fratelli e le sorelle che avrebbe avuti senza numero, e che avrebbero portato il suo nome fino all’estremità della terra. Primogenita di un padre che lentamente avanzava sotto la paziente direzione di Dio, cresceva anch’essa in silenzio, onorata dall’amicizia di molti uomini grandi e quasi cullata sulle loro ginocchia. Domenico poi, che dopo l’abboccamento di Montpellier aveva lasciato il titolo di sottopriore d’Osma, per prender quello di Fra Domenico, aggiunse allora a questa umile e dolce denominazione, l’altra di Priore di Prouille, onde veniva chiamato: Fra Domenico, priore di Prouille.

Qualche tempo dopo questa fondazione, Domenico trovandosi a Fanjeaux, fatta la predica era rimasto, secondo il suo solito, in Chiesa a pregare: quand’ecco che nove nobili signore si prostrano ai suoi piedi e: “Servo di Dio, gli dicono, aiutateci. S’egli è vero ciò che oggi voi avete predicato, ben da gran tempo il nostro spirito è accecato dall’errore; perché a coloro che voi chiamate eretici, e noi buonomini, fino ad oggi abbiamo prestato fede ed aderito, con tutta convinzione, ora non sappiamo più che pensare. Servo di Dio abbiate pietà di noi e pregate il Signore Dio vostro, che ci faccia conoscere la vera fede nella quale dobbiamo vivere e morire, per esser salve”. Domenico rimasto assorto ancora per qualche momento nella preghiera, poi rispose loro: “Abbiate pazienza e aspettate senza timore. Io credo che il Signore, il quale non vuole che alcuno si perda, vi mostrerà a qual padrone abbiate servito fin qui”. E tutta ad un tratto apparve in forma di immondo animale lo spirito di errore e di odio; e Domenico rassicurandole: “Voi potete argomentare da questo mostro, che Dio vi ha fatto comparire dinanzi, chi sia colui che, dando retta agli eretici, fino ad ora avete servito”. Le donne, piene di riconoscenza verso il Signore, sull’istante e con fermo proposito si convertirono alla fede, cattolica; anzi alcune si consacrarono a Dio nel monastero di Prouille.

Nella primavera dell’anno,1207 fu tenuta a Montréal una delle solite conferenze fra albigesi e cattolici. Questi ultimi scelsero fra gli avversari quattro arbitri ai quali furono rimessi da ambedue le parti alcuni memoriali sulle materie controverse. La pubblica disputa fu protratta per quindici giorni, dopo i quali gli arbitri si ritirarono senza volersi pronunziare. Sentivano vivamente nella loro coscienza la superiorità dei cattolici, ma non avevano coraggio di fare una dichiarazione aperta contro il loro partito. Ciò nonostante, centocinquanta uomini abiurarono l’eresia e ritornarono nel seno della Chiesa. Il legato Pietro di Castelnau era presente a questa conferenza; e poco dopo giunsero a Montréal anche l’abate di Citeaux, dodici altri abati del medesimo Ordine e circa venti religiosi, tutti uomini di cuore, versati nelle cose divine e d’una santità di vita degna della missione che venivano a compiere. Avevano lasciato Citeaux allo sciogliersi del capitolo generale, e secondo le raccomandazioni del Vescovo d’Osma si erano messi in viaggio non portando con se che il puro necessario. Questo rinforzo rianimò i cattolici, i quali dopo due anni di fatiche vedevano finalmente qualche frutto dei loro sudori e sperimentavano di non avere confidato invano sull’assistenza promessa a tutti coloro che sinceramente si consacrano alla causa di Dio. La provincia di Narbona era già stata evangelizzata da cima a fondo; molte le conversioni operate; l’orgoglio degli eretici rintuzzato da virtù superiore alle loro forze; ed i popoli spettatori di tanto risveglio, avevano ben potuto comprendere non esser poi la Chiesa Cattolica sull’orlo della tomba. Folco aveva rialzata la dignità episcopale; Navarre, vescovo di Conserans, lo imitava; gli altri colleghi, prima freddi, scuotevansi anch’essi dal loro torpore; e con la fondazione del monastero di Prouille era stata riabilitata la nobiltà cattolica decaduta. Il più gran fatto però era quello di aver potuto riunire insieme uomini eminenti per virtù, per dottrina e per carattere, animati dal comune pensiero dell’apostolato; e di aver dato a questo apostolato nascente una consistenza insperata.

Tuttavia richiedevasi ancora maggiore unità fra questi elementi retti da quattro differenti autorità, cioè dai legati, dai vescovi, dagli abati di Citeaux e dagli spagnoli; per la qual cosa parlavasi spesso della necessità di fondare un Ordine religioso che avesse per ufficio la predicazione. E se la venuta dei cistercensi a Montreal consolidò tutte le cose fino allora operate, ispirò ancora un desiderio più risoluto di andare innanzi. Anima dell’impresa era il Vescovo d’Osma, per quanto come semplice vescovo fosse inferiore ai legati, e come straniero dipendesse nell’esercizio del suo spirituale ministero dai prelati francesi. Ma era stato lui che con i suoi consigli aveva ridato vita ad ogni cosa quando tutto era disperato; lui che per primo aveva messo mano all’opera senza mai voltarsi indietro; lui che si era conciliato perfino l’affezione degli eretici, i quali andavano dicendo: “essere impossibile che un tant’uomo non fosse predestinato alla vita; e senza dubbio non per altro fine essere inviato fra loro, che per ammaestrarli sulla vera dottrina”. Insomma quella forza segreta che spinge ciascun uomo verso il proprio destino, aveva innalzato Diego al di sopra di tutti. Pensò egli dunque di tornare nella Spagna onde regolare gli affari della sua diocesi, raccogliere offerte a vantaggio del monastero di Prouille che versava nel momento in strettezze, e reclutare nuovi operai da condurre in Francia, affine di stabilire sempre meglio l’impresa già bene avviata. Fermo in questa risoluzione, riprese a piedi la via per la Spagna.

Giunto a Pamiers, Don Diego s’incontrò con il Vescovo di Tolosa, con quello di Conserans, e con un gran numero di Abati di diversi monasteri, i quali saputo della sua partenza, erano venuti per salutarlo. La presenza loro fu occasione di una celebre disputa con i Valdesi, predominanti in Pamiers sotto la protezione del conte di Foix. Il conte invitò alternativamente a mensa i cattolici e gli eretici, ed offrì loro il suo palazzo per tenervi la conferenza. Ad arbitro della disputa i cattolici scelsero il più spinto fra i loro avversari, il quale era ancora uno dei più distinti personaggi della città. Il successo superò ogni aspettativa. Arnaldo di Campranham, l’arbitro designato, pronunciò la sentenza in favore dei cattolici ed abiurò l’eresia; e un altro eretico assai celebre, Durando di Huesca, non contento di essersi convertito alla vera fede, abbracciò in seguito la vita religiosa in Catalogna dove si era ritirato, e fu il fondatore di una nuova congregazione sotto il nome di veri cattolici. Queste due abiure, e non furono le sole, destarono, gran rumore nella città di Pamiers, e meritarono ai cattolici dimostrazioni grandi di gioia e di stima da parte del popolo. Dopo questo trionfo, degna corona di un laborioso apostolato, Don Diego disse addio a tutti i venuti ad ossequiarlo avanti la sua partenza dalla Francia. S’ignora se Domenico l’avesse accompagnato fin là; forse la loro separazione ebbe luogo a Prouille, e sotto quel tetto prediletto si videro per l’ultima volta. Negli imperscrutabili giudizi di Dio era scritto, che essi mai più si sarebbero incontrati su la terra.

Don Diego valicati i Pirenei, e traversata, sempre a piedi, l’Aragona, rivide finalmente Osma, e si assise sulla sua cattedra, vedovata per tre anni del suo pastore. Quando già stava preparandosi a lasciare di bel nuovo la patria, Dio lo chiamò alla città permanente degli angeli e degli uomini. Fu sepolto in una chiesa della città vescovile, con questa breve iscrizione: Qui giace Diego di Azevedo, vescovo di Osma, morto l’anno 1245. La sua morte tramandata ai posteri con tanta semplicità, ebbe nondimeno tali conseguenze da far chiaramente rilevare la scomparsa di un uomo grande. Ne era infatti giunta appena la voce oltre i Pirenei, che l’opera grandiosa da lui organizzata subito venne meno. Gli abati e i religiosi di Citeaux ripresero la via per i loro monasteri; la maggior parte degli spagnoli che Don Diego aveva lasciati sotto la presidenza di Domenico, se ne tornarono nella Spagna; dei tre legati, Rodolfo era morto, Arnaldo si era appena fatto vivo per un momento, e Pietro di Castelnau era in Provenza, alla vigilia di cader vittima sotto i colpi di un assassino. Un uomo solo perseverava, sempre compreso dell’antico pensiero dì Tolosa e di Montpellier; un piccolo uomo giovane e straniero, senza poteri, rimasto fino allora in seconda linea, impotente quindi a sostituirsi d’un tratto ad un Azevedo in cui l’episcopato, l’età, la rinomanza avvaloravano di gran lunga il genio e la virtù. Il più che poté fare Domenico dunque fu non soccombere al terribile colpo di tale perdita, e, anche privo dell’amico, rimanere costante. Otto anni di continue fatiche gli furono necessari per riparare al vuoto che intorno a lui si era fatto; né ci fu mai uomo che più penosamente di Domenico si sia spinto verso la meta prefissa, per raggiungerla poi con una rapidità ancor più meravigliosa.

Alcuni miracoli resero celebre la tomba di Azevedo. Nella medesima chiesa dove riposavano le sue spoglie fu in seguito eretta una cappella a S. Domenico: la pietà dei fedeli li volle ravvicinati fra loro, con il trasportare il corpo dell’uno sotto l’immagine dell’altro. Ma come se Domenico non potesse permettere che stesse ai suoi piedi chi sulla terra era stato il suo mediatore, da una mano riverente fu tolto di là il venerabile capo, tempio una volta del pensiero dell’amico, e dato al convento dei Frati Predicatori di Malaga. Nonostante questi onori, la rinomanza in Azevedo non ha uguagliato il suo merito. La Francia non lo vide che di passaggio; la Spagna lo conobbe troppo poco; ed egli scomparve senza aver condotto a termine alcun impresa. Dio non l’aveva predestinato che a precursore di un altro uomo più santo e più straordinario di lui. Arduo compito, per cui richiedesi un cuore totalmente disinteressato, ed a cui Azevedo corrispose con quella stessa semplicità che gli faceva varcare a piedi i Pirenei. Egli fu sempre dimentico di se stesso; ma la posterità di S. Domenico ne serba riverente e grata memoria, come fu grande la sua umiltà; ed io non posso ora separarmi da lui, se non con la pietà di un figlio che testé abbia chiuso gli occhi al suo genitore.

Tutto dunque andò in dispersione per la morte del Vescovo di Osma, e Domenico si trovò quasi solo sul campo. I due o tre cooperatori rimasti con lui, avrebbero potuto abbandonarlo da un momento all’altro, trattenuti com’erano solo dal loro buon volere. Né questa solitudine fu l’unica sua sventura; perché una terribile guerra venne ad accrescerne le amarezze e le difficoltà.

Il legato Pietro di Castelnau aveva detto più volte che la religione non sarebbe rifiorita in Linguadoca, prima che il sangue di un martire avesse irrigato il suolo; e ardentemente pregava Dio di concedergli la grazia d’esser lui la vittima. I suoi voti furono esauditi. Dietro premurosi inviti del conte di Tolosa, poco prima scomunicato e che ora diceva volersi riconciliare con la Chiesa, Pietro e l’abate di Citeaux, spinti da vivissimo desiderio di pace, si erano recati a Saint-Gilles, per il richiesto abboccamento. Ma il conte non voleva che burlarsi di loro, e mostrò con il fatto di non avere avuto altro fine nell’invito che di ottenere con il terrore la liberazione dalla scomunica, minacciando la morte ai legati, se avessero ardito partite da Saint-Gilles prima di averlo assolto. I legati però disprezzando le sue minacce se ne ripartirono, protetti da una scorta data loro dai magistrati della città. La notte sostarono sulla riva del Rodano, e il domani, accomiatata quella gente che li aveva accompagnati, già si disponevano a passare il fiume, quando si fecero loro innanzi due uomini, uno dei quali immerse la lancia nel petto di Pietro di Castelnau. Il legato, ferito a morte, disse al suo uccisore: “Che Iddio ti perdoni come io ti perdono”. E ripetute più volte queste parole, ed esortati i compagni a servire intrepidamente ed instancabilmente la Chiesa, esalò l’ultimo respiro. Il suo corpo fu trasportato all’abbazia di Saint-Gilles; l’uccisione avvenne il 15 gennaio 1208.

Quest’omicidio fu il segnale di una guerra, in cui per quanto Domenico non avesse parte alcuna, pure fu a lui sorgente di grandi sfide nell’esercizio del suo apostolato; e gli avvenimenti di tal guerra sono così collegati con quelli della di lui vita, che non posso fare a meno di tracciarne rapidamente la storia.

CAPITOLO IV

Guerra degli Albigesi.

La guerra è l’atto con cui un popolo si oppone all’ingiustizia a prezzo del proprio sangue. Dov’è ingiustizia ivi è ragione legittima di guerra fino ad equa riparazione. La guerra dunque, dopo la religione è il primo dei doveri umani; l’una insegna il diritto, l’altra lo difende; l’una è la parola di Dio, l’altra ne è il braccio. Santo, santo, santo è il Signore, Dio degli eserciti, vale a dire il Dio della giustizia, il Dio che crea i forti in soccorso dei deboli, il Dio che balza dal trono i superbi, che suscita Ciro contro Babilonia, infrange le porte di bronzo a favore dei popoli, fa del carnefice un soldato e del soldato una vittima. Anche la guerra però, come le cose, più sante, può essere sviata dal suo fine, e degenerare in strumento di oppressione; onde a giudicare rettamente di essa in casi particolari, è necessario conoscerne lo scopo. Ogni guerra di liberazione è sacra; ogni guerra d’oppressione è maledetta.

Fino ai tempi delle crociate, la difesa del proprio paese e del governo legittimo di ciascun popolo fu quasi il solo ideale di cui si occupasse e da cui traesse vigore la santità della spada. Il soldato moriva alle frontiere della patria, nome il più caro che ispirasse il suo cuore nell’ora della battaglia. Ma dopoché Gregorio VII ebbe suscitato nello spirito dei suoi contemporanei l’idea della repubblica cristiana, il campo del sacrificio si estese insieme a quello della fratellanza. L’Europa, unita nella stessa fede, comprese che ogni popolo cattolico oppresso aveva diritto, chiunque fosse l’oppressore, ad essere soccorso; e che essa, per difenderlo, giustamente poteva impugnare la spada.

Fu così che sorse la cavalleria; e la guerra addivenne non solo un dovere cristiano, ma anche un ufficio monastico. Battaglioni di monaci furono veduti ricoprire di cilicio e di scudo le frontiere d’Occidente; ogni anima battezzata sentì di essere il braccio del diritto contro la forza; e figlia di quel Dio che raccoglie il minimo lamento di ogni sua creatura, sentì ancora il dovere di esser pronta al primo grido di dolore. Come un cacciatore armato che ritto a piede d’un albero ascolta da qual parte venga il vento, l’Europa con la lancia in resta e il piede nella staffa, stava in quei tempi spiando attentamente da qual parte venisse l’ingiuria. E sia che fosse lanciata dal trono o dalla torre d’un semplice castello, sia che abbisognasse traversare mari o bastasse breve e corsa a cavallo per rintuzzarla, tempo, luogo, pericoli, grandezza, niente valeva a trattenere alcuno. Né si calcolava prima se vi sarebbe stato danno o tornaconto: il sangue o non si dà, o si dà da generosi; quaggiù la coscienza, lassù lo rimerita Iddio.

Fra i deboli oppressi che la cristiana cavalleria aveva preso a proteggere, la Chiesa, come la cosa più sacra, teneva il primo posto. La Chiesa senza soldati, senza bastioni a difesa, era stata sempre alla mercé dei suoi persecutori; ogni principe che le avesse voluto male, poteva osare tutto contro di lei. Ma poiché la cristiana cavalleria si fu affermata, fu essa la protettrice della città di Dio: dapprima perché la città di Dio era debole; in seguito perché la causa della di lei libertà era la causa stessa del genere umano. La Chiesa oppressa aveva diritto, come ogni altro, alla difesa del cavaliere e del potere temporale; e fondata com’è da Gesù Cristo per perpetuare l’opera dell’emancipazione terrena e della salvezza eterna degli uomini, la Chiesa reputavasi allora come la madre, la sposa, la sorella di chiunque avesse avuto sangue generoso e buona spada: io credo che ai nostri giorni non vi sia persona la quale non sappia apprezzare tali sentimenti.

Il nostro secolo fra le tante miserie, almeno questo ha di gloria; di saper riconoscere esservi interessi ben più alti e più universali che non quelli di vivere e godere. La simpatia dei popoli travalica nuovamente le frontiere, e la voce degli oppressi trova un’eco nel mondo. Qual francese non accompagnerebbe, se non con la persona, almeno con il desiderio, un esercito di cavalieri che attraversasse l’Europa a soccorso della Polonia oppressa dallo Czar? O qual francese, anche incredulo, fra i delitti, di cui è vittima quell’illustre nazione, non vorrà numerare la violenza fatta alla sua religione, l’esilio dei suoi preti e dei suoi vescovi, la soppressione dei monasteri, la rapina delle chiese, la tortura delle coscienze? Se il sequestro arbitrario e l’incarcerazione dell’arcivescovo di Colonia hanno prodotto, tanta impressione nell’Europa moderna, che non dovette essere nell’Europa del secolo decimoterzo all’annunzio che un ambasciatore apostolico era stato ucciso proditoriamente a colpi di lancia?.

Né questo era il solo atto d’oppressione di cui la cristianità avesse diritto di chiedere ragione al conte di Tolosa; già da lungo tempo nelle terre dov’egli imperava non vi era più libertà alcuna per i cattolici. Devastati i monasteri, messe a ruba le chiese, di cui molte trasformate in fortezze; i vescovi di Carpentras, e di Vaison cacciati dalle loro sedi; ed un cattolico invano avrebbe sperato giustizia contro un eretico. Tutte le imprese dell’eresia erano dal conte protette; mentre verso la religione cattolica ostentava quel disprezzo affettato che in un principe è già tirannia. Un giorno che i Vescovo d’Orange si presentò in persona a lui per supplicarlo di rispettare i luoghi santi e di astenersi, almeno la domenica e le altre feste, da quelle vessazioni con cui opprimeva la provincia d’Arles, Raimondo presa la mano destra del prelato, soggiunse: “ Io giuro per questa mano di non fare nessun conto né di domeniche, né di feste, e di non far grazia né a persone, né a cose ecclesiastiche”. La Francia in quel tempo era infestata da tristi avventurieri, i quali divisi in numerose bande, rendevano le strade piene di ladroneggi e di sangue. Inseguiti da Filippo Augusto, avevano trovato impunità e sicurezza nelle terre del suo vassallo, il conte di Tolosa, in premio dell’ardore con cui cooperavano ai di lui disegni con le loro aggressioni e sacrileghe crudeltà. Portavano via dai tabernacoli i vasi sacri, profanavano il Corpo di Gesù Cristo, strappavano alle immagini i loro ornamenti per abbellirne femmine prostitute; atterravano da cima a fondo le chiese, ne uccidevano a colpi di verghe e di mazze i sacerdoti, e molti ne scorticavano vivi; ed il conte con esecrabile tradimento lasciava indifesi i suoi sudditi contro questo pugno di assassini. Quando poi, dopo tanti delitti di cui era stato l’autore od il complice, giunse ad accogliere fra i suoi amici e ricolmare di favori l’uccisore stesso di Pietro di Castelnau, la misura fu colma. Il momento era giunto in cui la tirannia per i suoi eccessi è rovina a se stessa.

Sarebbe per altro un grave errore credere che la cristianità di allora avesse potuto facilmente domandare giustizia al conte di Tolosa; perché potente egli era e da temersi, come i fatti chiaramente dimostrarono. In verità dopo quattordici anni di guerra Raimondo VI morì vincitore dei suoi nemici, e poté trasmettere al figlio, che ne godette fino alla morte, il patrimonio dei suoi maggiori: né questo gran feudo fu riunito alla corona di Francia, se non in seguito al matrimonio di un fratello di S. Luigi con la figlia unica del conte Raimondo VII. Le cause per cui la dinastia dalla quale discendeva Raimondo era potente, assommavano a parecchie. In primo luogo essa era antichissima in quel paese, ed una gloria ben meritata la raccomandava moltissimo all’amore dei popoli. Nuovo legame tra il principe ed i sudditi era l’eresia, ivi ormai generalmente diffusa, e che importando come una separazione dal resto della cristianità, dava alle mutue loro relazioni la forza di un legame religioso. 1 vassalli d’ogni specie condividevano gli errori con il proprio signore, e la cupidigia dei beni del clero aggiungeva alla comunanza delle idee anche quella degli interessi. Né i cattolici, rimasti pochi di numero e non troppo ferventi, potevano far molto per indebolire un partito così compatto, e di cui era l’anima io stesso conto di Tolosa. Aggiungasi che questi aveva per alleati nella sua causa i conti di Foix e di Comminges, il visconte di Béarn, il re di Aragona Pietro II, di cui aveva sposata la sorella; e che niente aveva da temere dalla Guyenne, posseduta dagli Inglesi. Filippo Augusto, signore di Raimondo, preoccupato in casa sua per causa di litigi tra l’Inghilterra e l’impero, non era al caso di capitanare la crociata; e senza Filippo a capo, il solo a temersi, l’esercito dei crociati, composto di gente accozzata alla meglio, non poteva dare speranza che di effimere vittorie; appariva anzi destinato a naturale dissoluzione, prima ancora di essere sconfitto.

Padrone dunque di tutta la striscia dei Pirenei, con dietro l’Aragona a difesa e con due mari inoffensivi a destra e a sinistra, circondato da una moltitudine di forti città custodite da fedeli vassalli, Raimondo aveva tutte le probabilità di esser più forte dei suoi nemici. Ond’è che la guerra Albigese fu una guerra assai seria, in cui le difficoltà morali furono più gravi ancora di quelle strategiche. Ora vedremo quali fossero i nobili e generosi sentimenti d’Innocenzo III, sempre d’avviso che là ci si trovava un abisso; e vedremo anche un gran capitano, dapprima vittorioso, soccombere poi sotto il peso delle afflizioni, avanti che la morte del soldato lo raggiunga. Innocenzo III appena saputo dell’uccisione del Castelnau, scrisse una lettera ai conti, ai baroni, ai cavalieri delle provincie di Narbona, d’Arles, d’Embruni, d’Aix e di Vienna, nella quale dopo aver dipinto a vivi colori l’uccisione del suo legato, dichiarava scomunicato il conte di Tolosa con i suoi vassalli, dichiarava sciolti dal giuramento di obbedienza i di lui sudditi, e la sua persona e le sue terre messe al bando della cristianità: cose, queste ultime due, che costituivano un abuso per il diritto del tempo e che, naturalmente, finirono per ritorcersi contro la causa cattolica. Nel caso però che il conte si fosse pentito dei suoi delitti, lasciavagli aperta la porta per riconciliarsi con la Chiesa. Questa lettera è in data del 10 marzo 1208. Il Sommo Pontefice scrisse inoltre sullo stesso tenore agli arcivescovi ed ai vescovi di quelle provincie, all’Arcivescovo di Lione a quello di Tours, e al re di Francia. All’abate di Citeaux, il solo superstite dei suoi legati, aggiunse Navarre, vescovo di Conserans, ed Ugo, vescovo di Riez, incaricando l’abate di predicare in modo speciale e di far predicare ai suoi religiosi la crociata. I preparativi furono fatti nel rimanente di quest’anno e nella primavera dell’anno seguente.

Frattanto il conte di Tolosa impauritosi, e saputo che i vescovi della provincia di Narbona avevano inviato al Papa i loro colleghi di Tolosa e di Conserans perché l’informassero minutamente di tutti i mali cagionati alle loro chiese, credette bene di mandare anche lui a Roma l’arcivescovo d’Auch, e Rabenstens, già arcivescovo di Tolosa, affinché si lagnassero amaramente dell’abate di Citeaux, e dicessero al Pontefice che il loro signore era pronto a sottomettersi e a dare giusta soddisfazione alla Santa Sede, purché gli venisse concesso di trattare con legati più ragionevoli. Innocenzo III accondiscese a tali richieste, e fece partire per la Francia Milone, notaro apostolico ed uomo di consumata prudenza, con lo speciale incarico di esaminare e giudicare la causa del conte. Milone convocò a Valenza un’assemblea di vescovi, e Raimondo, presentatosi, accettò le condizioni di pace che gli furono proposte. Erano le seguenti: ch’egli cacciasse gli eretici dalle sue terre; rimuovesse dai pubblici uffici gli ebrei; riparasse i danni da lui cagionati ai monasteri ed alle chiese; ristabilisse nelle loro sedi i vescovi di Carpentras e di Vaison; provvedesse alla sicurezza delle strade; non esigesse balzelli che non fossero secondo le antiche consuetudini del Paese; purgasse i suoi domini da quelle masnade armate che l’infestavano; ed in pegno della sua sincerità consegnasse nelle mani del legato la contea di Melgueil e sette città della Provenza che a lui appartenevano a condizione che le avrebbe perdute qualora non fosse stato di parola. La solenne riconciliazione con la Chiesa fu stabilito di farla a Saint-Gilles, secondo le forme allora in uso.

Se il conte di Tolosa avesse agito in buona fede, la pubblica penitenza accettata, lungi dall’umiliarlo agli occhi dei suoi contemporanei e dei posteri, lo avrebbe anzi reso oggetto di somma ammirazione davanti a tutta la cristianità. Teodosio non offuscò la sua gloria per essersi arreso a S. Ambrogio sulla soglia della cattedrale di Milano: solo il delitto fa disonore; mentre l’espiazione volontaria, specialmente in un sovrano, è tale omaggio reso a Dio ed all’umanità, che rinobilita colui che lo rende, e lo fa partecipe della gloria insuperabile che si ritrova in Gesù Cristo crocifisso. L’orgoglio non comprenderà forse ciò che dico; ma che importa? Si era in un’epoca in cui la croce era padrona del mondo, senza che l’orgoglio ne avesse indovinata la ragione. Non ci curiamo di questo cieco nato, e ripetiamo a chi è capace d’intendere le parole di Colui che conquistò la terra e il cielo con un supplizio volontariamente sofferto: Chi si esalta sarà umiliato, chi si umilia sarà esaltato (Mt 23,12).

Quando dunque il conte di Tolosa avesse agito sinceramente, la penitenza accettata gli avrebbe fruttato assai bene sotto ogni aspetto. Ma l’uomo nella sventura non saprà mai apprezzare abbastanza la potenza dell’arma che ha fra mano. Il conte di Tolosa mentiva; solamente per politica aveva promesso cose che non aveva in animo di mantenere; e quando sulla soglia dell’abbazia di Saint-Gilles, dopo avere giurato sulle reliquie dei Santi e sul corpo stesso del Signore che sarebbe stato alle promesse, presentò le spalle nude alla verga del legato, non diede che un turpe spettacolo di spergiuro e d’ignominia. Una circostanza notevole si aggiunse ad aggravare il castigo e a dargli un carattere speciale. Perché all’uscire di chiesa, tanta era la folla, da non permettere a Raimondo di muovere neppure un passo; onde apertagli una porta segreta che metteva nei sepolcreti, si trovò a passare nudo e fustigato davanti alla tomba di Pietro di Castelnau.

Pochi giorni dopo questo fatto, avvenuto il 18 giugno 1209, il legato Milone se ne partì per Lione per raggiungere l’armata dei crociati, capitanata dal duca di Borgogna, dai conti di Nevers, di S. Paolo, di Bar e di Montfort, e da altri distinti personaggi, nonché da alcuni prelati. Innocenzo III aveva ordinato che se il conte di Tolosa fosse stato assolto, i domini che direttamente gli appartenevano, fossero rispettati; si facesse però marciare l’esercito contro i di lui vassalli ed alleati, onde ridurli a sommissione.

Le truppe dunque si avanzarono verso la Linguadoca, e non erano ancora a Valenza che il conte Raimondo già le precedeva, vestito anch’egli da crociato, fu assediato Beziers, che preso d’assalto all’improvviso, rimase preda del furore soldatesco, senza che si avesse riguardo alcuno né all’età, né al sesso, e neppure alla religione medesima. I legati nelle lettere mandate al Pontefice fanno ascendere il numero dei morti quasi a ventimila; e questo massacro da nessuno voluto e nemmeno previsto, è purtroppo uno di quegli avvenimenti che hanno gettato sulla guerra Albigese quel marchio di terrore, che nessuno storico varrà mai a cancellare. Alla presa di Beziers tenne dietro quella di Carcassona. Gli abitanti si arresero, e così ebbero salva la vita; la città però fu abbandonata al saccheggio. Non poteva cominciare peggio una guerra in sé giustissima.

Fino ad ora anima e capo della crociata era stato l’abate di Citeaux; ma dopo i disastri combinati nella presa di Beziers e di Carcassona, i crociati, di cui molti pensavano di ritirarsi, credettero meglio di eleggersi a capo un militare. La scelta fu rimessa ad un consiglio composto dell’abate di Citeaux, di due vescovi, e di quattro cavalieri, i quali giudicarono il più degno del comando Simone conte di Montfort.

Discendente dalla casa di Hainaut, questo guerriero era nato da Simone III, conte di Montfort e d’Evreux, e da una figlia di Roberto, conte di Leicester, ed aveva in sposa Alice di Montmoreney, donna eroica come il suo nome. Non c’era capitano più ardito, né cavaliere più religioso del conte di Montfort; e se alle eminenti qualità che ornavano la sua persona, avesse congiunto maggior dolcezza e disinteresse maggiore, nessuno dei crociati d’Oriente lo avrebbe sorpassato nella gloria. Appena però egli fu eletto al comando si vide quasi da tutti abbandonato. Il conte di Nevers, quello di Tolosa, il duca di Borgogna, l’un dopo l’altro si ritirarono e con lui non restarono che una trentina di cavalieri ed un esiguo nucleo di soldati: conseguenza inevitabile di siffatte spedizioni, alle quali come ciascuno liberamente interveniva, così liberamente poteva ritirarsene indietro.

La mia intenzione, già l’ho detto, è solo di tracciare il disegno generale della guerra e dei negoziati che ne seguirono; pur ciò non è facile, disputandosi la direzione delle cose il piano dell’abate di Citeaux e quello del Pontefice.

L’abate di Citeaux d’accordo con i principali vescovi della Linguadoca e dei paesi circonvicini, proponeva senz’altro la distruzione totale della casa di Tolosa: ingiusta idea e contraria ad ogni politica. Ingiusta, perché anche se Raimondo VI si era ciò meritato, e non era più possibile fidarsi di lui in avvenire, la sua autorità veniva da Dio e non dal clero, ed il clero immischiandosene oltraggiava il diritto. Ancor peggio, non poteva dirsi eretico di suo figlio, giovinetto ancora di dodici anni, non complice quindi dei delitti del padre, né incapace di una cristiana educazione sotto una tutela disinteressata; contraria ad ogni politica, in quanto che confondendo una questione religiosa che interessava tutta la cristianità, con una questione di famiglia, avrebbe potuto dividere gli animi e dare un colore di ambizione ad una guerra intrapresa per ben più alti fini. Tale è la cecità di giudizio dei prelati quando pretendono di abusare delle cose temporali.

E’ vero che l’abate di Cíteaux aveva avuto la rara sorte di imbattersi nel conte di Montfort, uomo fatto per quel suo divisamento; e forse solo dopo averlo visto valorosamente combattere gli era venuto in mente la distruzione della casa di Tolosa. Ma le doti guerresche del conte di Montfort non erano, per i sudditi e per i vassalli di quella casa, che le prerogative di un nemico; e l’abate di Citeaux, che aveva di mira di raggiungere quanto prima il suo intento per il timore che poi gli venissero a mancare le forze della crociata, avrebbe dovuto sapere che quel tempo stesso che temeva di non potere avere al suo scopo, sarebbe stato necessario anche per sostituire nel governo di un paese una famiglia nuova ad un’antica; ed avrebbe anche dovuto temere di cambiare una guerra cattolica in una guerra personale tra i Raimondi ed i Montfort. E fu appunto dall’abuso che egli fece della sua autorità per far prevalere un falso divisamento, che procedettero quegli errori e quelle violenze, che sminuirono l’impronta di santità della guerra Albigese, che comunque le è dovuta.

Innocenzo III sedeva su quella cattedra privilegiata, la quale non solo ha l’eterno Spirito che sempre l’assiste, ma per la medesima altezza a cui si trova, è meno influenzabile dalle passioni che tanto facilmente s’insinuano anche nelle cause più belle. E se uno zelo eccessivo tentò distruggere insieme uomini ed errori, il papato cercò di salvare gli uomini pur annientando l’errore. Innocenzo III non desiderava affatto che la casa di Tolosa fosse distrutta, anzi sperava di poter ridurre il vecchio Raimondo a sentimenti degni degli avi suoi. Nelle stesse lettere in cui fulminava contro di lui la scomunica, decidendo purtroppo anche su cose di competenza esclusivamente divina, provvedeva formalmente anche al caso che egli si fosse pentito. Conosciuti i trattati di Saint-Gilles, subito si era affrettato di dare il contro ordine che fossero rispettate le di lui terre. Sventuratamente anche il Pontefice pagò il fio del voler decidere di chi fosse il potere temporale, onde dovette cedere anch’egli alle conseguenze delle cose, ed i suoi sforzi, riusciti inutili, non valsero che ad offuscarne la memoria. Il conte Raimondo poi, rimuovendosi da quel sistema di pacificazione che dapprima aveva adottato, contribuì da se stesso a far trionfare i nemici della sua famiglia; e non ci volle che l’intervento di una mano suprema, perché le cose improvvisamente cambiassero aspetto.

Il Montfort, sebbene rimasto con pochi soldati, non aveva per questo lasciato di andare innanzi, conquistando, e poi riperdendo, e riconquistando di nuovo alcune città; mentre il conte di Tolosa, sicuro della sua riconciliazione con la Chiesa, pareva non curarsi della caduta dei suoi alleati, né dei suoi vassalli.

Ma un concilio celebratosi in Avignone dai metropolitani di Vienna, d’Arles, d’Embrun e d’Aix, sotto la presidenza dei due legati Ugo e Milone, venne a disturbarlo dalla sua quiete. Tal concilio infatti, che fu aperto il 16 settembre 1209, concesse al conte una dilazione di solo sei settimane per soddisfare alle promesse fatte a Saint-Gilles; non soddisfacendole, sarebbe di nuovo incorso nella scomunica. Raimondo dopo questa intimazione partì subito per Roma. Ammesso all’udienza del S. Padre, che lo accolse con dimostrazioni di sincero affetto, si lamentò del rigore dei legati verso di lui; presentò autentici documenti di molte chiese da lui già risarcite nei danni; si dichiarò pronto a mantenere tutte le altre convenzioni giurate; e chiese ancora di potersi discolpare dell’imputazione a lui fatta dell’uccisione di Pietro di Castelnau e delle accuse di tenere pratiche segrete con gli eretici. Il Pontefice esortò Raimondo a star fermo in questi suoi propositi, ed ordinò che si radunasse in Francia un nuovo concilio di vescovi per ascoltare le giustificazioni del conte, coll’esplicita ingiunzione, che quand’anche fosse trovato colpevole, la sentenza si riservasse alla S. Sede.

Raimondo, lasciata Roma, visitò la corte dell’imperatore e quella del re di Francia, sperandone qualche protezione; ma restò deluso. Non poté dunque fare a meno di presentarsi al concilio al quale era stata rimessa la sua causa, e che fu celebrato a Saint-Gilles verso la metà di ottobre dell’anno 1210. Vi andò coll’intenzione di discolparsi dei due capi d’accusa che gli erano mossi: di essere cioè d’intesa con gli eretici, e di esser complice nell’uccisione di Pietro di Castelnau. Ma il concilio si ricusò di ascoltarlo su ciò, e solo lo richiese di stare alla parola data di purgare le sue terre dagli eretici e dalla gente di mala vita che le infestavano.

Sia che Raimondo non valesse a soddisfare a queste richieste, sia che gliene mancasse la volontà, tornò a Tolosa persuaso in cuor suo che ogni artificio più non giovava, e che ormai l’unica speranza era riposta nelle armi. Ciò nondimeno il concilio si astenne dallo scomunicarlo, avendo il Papa riservata a sé la sentenza; ed Innocenzo III si contentò di scrivergli una lettera forte sì, ma insieme affettuosa in cui l’esortava, senza più nessuna minaccia, ad eseguire ciò che aveva promesso.

Anche il re di Aragona intervenne dal canto suo onde impedire una rottura definitiva; ed a tale scopo nell’inverno del 1211 furono tenute due riunioni, una a Narbona, l’altra a Montpellier. Nella prima il conte di Tolosa rigettò apertamente

le condizioni che gli erano state imposte a Saint-Gilles; nella seconda parve dapprima che le accettasse, ma poi senza neppure accomiatarsi, all’improvviso se ne partì. Per la qual cosa il re di Aragona sdegnato, fidanzò suo figlio, bambino ancora di tre anni, ad una figlia del conte di Montfort, anch’essa della stessa età; e di più affidò al conte il proprio figliolo, affinché lui stesso ne curasse l’educazione. Non molto dopo però il re si pentì di ciò che aveva fatto, e diede la sua sorella in moglie al figlio unico di Raimondo, onde riallacciare con tali nozze i legami, già forti, che lo univano alla causa degli eretici.

L’abate di Citeaux fulminò finalmente la scomunica, e spedì espressamente un messaggio al Pontefice per ottenerne la conferma. Innocenzo accondiscese; e Raimondo si accinse allora alla guerra, incominciando dall’assicurarsi la fedeltà dei suoi sudditi e l’aiuto di diversi principi, specialmente dei conti di Foix e di Comminges.

Il Montfort avanzatosi fin sotto le mura di Tolosa, venne respinto, e l’esercito Albigese s’accampò in faccia a Castelnaudary, finché una battaglia campale lo costrinse a levare l’assedio. I crociati trionfarono, varie città caddero nelle loro mani; anche le terre di Foix e di Comminges furono invase dall’armata. Raimondo corse allora nella Spagna per implorare aiuto dal re di Aragona.

Ciò che in seguito avvenne dimostra chiaramente, come il Papa fosse tuttora confuso ed incerto. Infatti il re di Aragona prima di ricorrere alle armi in difesa del suo cognato, credette bene tentare ancora una volta la riconciliazione, e spedì legati al Pontefice con incarico di lamentarsi con lui così sul conto del Montfort, impadronitosi di feudi dipendenti dalla corona, come ancora dei legati apostolici assolutamente irremovibili dalla determinazione presa di rigettare ormai qualunque ravvedimento di Raimondo.

Innocenzo III mosso da queste lagnanze scrisse risentito ai legati, e loro ingiunse di adunare a nuovo concilio i vescovi ed i signori di quelle contrade, per trattare dei mezzi onde ristabilire la pace. Ordinò poi al conte di Montfort di restituire al re di Aragona ed ai suoi vassalli i feudi tolti “per non dar motivo, diceva il Pontefice, di credere aver lui combattuto per proprio interesse e non per la causa della fede”. Finalmente prese anche la deliberazione di sospendere la crociata; e manifestò questa sua volontà in una lettera indirizzata all’abate di Citeaux, già da qualche tempo creato arcivescovo di Narbona. Tali sono i disastri conchiusi dal clero quando vuol decidere di quistioni politiche!

Mentre però queste lettere, in data del principio dell’anno 1213, erano per via, si era già radunato un Concilio a Lavaur per richiesta del re di Aragona, il quale in un memoriale aveva supplicato i legati ed i vescovi di restituire ai conti di Tolosa, di Comminges e di Foix, ed al visconte di Béarn le terre di cui erano stati spogliati, e di riammetterli nella comunione della Chiesa a prezzo di qualunque soddisfazione. Che se non fosse piaciuto loro esaudirlo in favore del vecchio Raimondo, il re li esortava ad aver riguardo almeno del figlio. Ma il concilio rispose che quanto al conte di Tolosa, ormai non c’era più luogo a giustificazione, avendo egli mancato più volte e pertinacemente alla sua parola; i conti invece di Foix e di Comminges, ed il visconte di Béarn, fossero pure ricevuti a penitenza, quando essi lo bramassero. Questa risposta più e più insinuò nel re il sospetto che si fosse già stabilito di distruggere la casa di Tolosa. Dichiarò allora altamente ch’egli avrebbe appellato alla clemenza della S. Sede per l’inesorabile rigore dei legati e dei vescovi, e che intanto avrebbe preso sotto la sua regale protezione il conte Raimondo ed il suo figliolo. Il re non poteva esser sospetto di eresia, avendo già sottomesso il suo regno come feudo alla Chiesa romana, ed avendo valorosamente difesa la cristianità contro i Mori della Spagna. Il suo nome quindi e la sua spada avevano un gran peso per mettere a rischio tutta l’impresa. Fu per questo che il concilio ebbe subito premura di spedire quattro messaggieri al Pontefice con una lettera in cui si cercava di persuaderlo che la causa cattolica sarebbe perduta, qualora il conte di Tolosa ed i suoi eredi non venissero privati per sempre dei loro domini. Gli arcivescovi d’Arles, d’Aix e di Bordeaux, i vescovi di Maguelone, di Carpentras, d’Orange, di Saint-Paul Trois-Cháteaux e di Perigueux scrissero al S. Padre sullo stesso tenore.

Innocenzo III si dolse allora di essere stato ingannato dal re di Aragona; al quale comandò subito di desistere dalla determinazione presa, e di far tregua con il conte di Montfort, finché fosse arrivato da Roma un cardinale per esaminare le cose sul luogo. Ma il dado ormai era gettato; ed il re, composta un’armata nella Catalogna e nell’Aragonia, varcava i Pirenei per congiungere le sue truppe con quelle dei conti di Tolosa, di Foix e di Comminges.

Montfort ricevé a Fanjeaux l’avviso che l’esercito dei confederati, forte di quarantamila fanti e di duemila cavalli, s’era avanzato verso Muret, piazza importantissima, situata sulla Garonna, tre leghe al disopra di Tolosa. Fu questo per lui il momento critico della vita. Non aveva al suo comando che ottocento cavalli incirca, ed uno scarso numero di fanti. Tuttavia appena cominciò al albeggiare partì subito per Muret, accompagnato dall’armata, dai vescovi di Tolosa, di Nimes, di Uzès, di Lodève, di Beziers, d’Agde, di Comminges, e da tre abati di Citeaux. Giunto in quello stesso giorno al monastero dei Cistercensi di Bolbonne, entrò in chiesa, vi pregò lungamente, e nel riprendere la spada che aveva posata sopra l’altare, rivolse a Dio queste parole:

O Signore che, per quanto ne fossi indegno, mi sceglieste a combattere nel vostro nome, io prendo ora la spada sul vostro altare, onde ricevere da Voi medesimo le armi, essendo per Voi che io vado a combattere”.

Montfort era un vero principe, non ebbe bisogno di permessi ecclesiastici per fare la volontà di Dio. Si diresse quindi a Saverdun, dove pernottò. Il giorno appresso si accostò al Sacramento della Penitenza, scrisse il suo testamento, che inviò all’abate di Bolbonne, con preghiera, nel caso che egli fosse morto, di trasmetterlo al Pontefice; e la sera, passata attraverso un ponte la Garonna senza essere disturbato dai nemici, si trovò tosto dietro le torri di Muret, guardate da una trentina di cavalieri.

Era il mercoledì del 12 settembre 1213. Non ancora era entrato in città, quando lo raggiunsero i vescovi, che per un momento si erano allontanati da lui per recarsi a domandar pace al campo nemico. Ma il re d’Aragona aveva risposto non valer la pena, che un re e dei vescovi venissero a parlamentare per un pugno di soldati.

Malgrado questo tentativo riuscito vano, appena cominciò ad albeggiare, i vescovi per mezzo di un religioso fecero noto al re, che loro stessi e tutti gli ordini ecclesiastici sarebbero andati a piedi scalzi a scongiurarlo, affinché si venisse a migliori risoluzioni. Quanto il conte di Tolosa avrebbe dovuto allora rammaricarsi dei suoi spergiuri e delle sue vane umiliazioni! Come avrebbe dovuto imputare a se stesso la colpa di aver ricusato fin da principio una guerra leale e da forti, anziché lasciare opprimere i suoi amici e disonorare la sua causa! Ma egli non ci vedeva più; la guerra però come l’artifizio dovevano riuscirgli funesti. Dio vedeva il cuore di questo principe, e non s’impietosì della triste sua sorte.

I vescovi si preparavano già ad uscire da Muret nell’umile atteggiamento di supplicanti, quando un gruppo di cavalieri nemici si precipitò verso le porte. Montfort ordinò allora ai suoi di schierarsi in battaglia sulla parte bassa della città; ed egli medesimo, dopo aver pregato in una chiesa mentre il Vescovo di Uzès offriva il santo sacrificio, indossò la corazza, e così armato, tornò ancora a pregare. Però nel piegare il ginocchio gli si ruppero i lacci dalla parte inferiore dell’armatura; e nel mettere il piede sulla staffa, fu osservato che il cavallo, alzando la testa, lo toccò. Quantunque allora si facesse gran caso a questi incidenti, siccome a tristi presagi, punto si turbò il cuore del prode cavaliere. Insieme a Folco che portava in mano un Crocifisso, si diresse verso le sue truppe. I cavalieri scesero allora a terra per adorare il Salvatore e baciarne l’immagine; ma il vescovo di Comminges, vedendo che il tempo stringeva, prese il Crocifisso dalle mani di Folco, da un luogo alquanto elevato arringò con brevi parole l’armata e la benedisse. Dopo ciò tutti gli ecclesiastici che erano presenti, si ritirarono in chiesa a pregare; e Montfort uscì fuori della città alla testa di ottocento soldati a cavallo, più la fanteria.

L’esercito dei confederati era schierato in una pianura ad occidente della città. Il Montfort, uscito dalla porta opposta, come se avesse voluto fuggire, divise il suo drappello in tre squadre e si diresse verso il centro nemico. Dopo la fiducia che aveva riposta in Dio, il suo piano era di rompere le linee dei nemici, seminarvi disordine e spavento, e profittare allora di tutti quegli incidenti che l’occhio dei grandi capitani sa scoprire nell’orrore della mischia. La prima squadra difatti si scagliò contro l’avanguardia dei nemici; la seconda penetrò fin nelle ultime file dove si trovava il re d’Aragona circondato dal fiore dei suoi soldati; Montfort che veniva dietro con la terza, investì di fianco gli Aragonesi già messi in scompiglio. La fortuna delle armi rimase sospesa per qualche tempo; tempo fatale perché i battaglioni così d’improvviso sbandati, erano piuttosto sbalorditi che disfatti, e caricando alle spalle, avrebbero ancora potuto opprimere il Montfort.

Ma un colpo ben diretto stese a terra il re d’Aragona, e decise della battaglia. Gli Aragonesi con le loro grida e con la fuga trassero seco anche gli altri confederati. Ed i vescovi che pregavano angosciosamente nella chiesa di Muret, chi prostrato a terra, chi con le mani levate a Dio, accorsi all’annunzio della vittoria, videro tutta la pianura disseminata di fuggenti, incalzati alle spalle dalla spada formidabile dei crociati. Così un esercito che si era proposto di prender d’assalto la città, gettate a terra le armi, fu distrutto, mentre si era dato ad una fuga precipitosa.

Montfort, dopo inseguiti i nemici, ripassando sul campo di battaglia, s’imbatté nel cadavere del re d’Aragona steso a terra e già spogliato delle sue vesti. Scese allora da cavallo, e piangendo baciò il gelido corpo di quel principe sfortunato. Pietro II, re di Aragona, era un valoroso cavaliere, amato dai sudditi, sincero cattolico, e degno di una morte migliore. Ma gli abusi di Innocenzo III e dei legati, i legami che univano le sue sorelle ai due Raimondi l’avevano coinvolto nella difesa di una causa ch’egli non riteneva più come causa contro gli eretici, ma come causa di giustizia e di parentela. E forse appunto perché disprezzò le preghiere dei vescovi ed abusò in cuor suo di una vittoria che riteneva sicura, per segreto giudizio di Dio ne rimase vittima.

Montfort, dopo aver pensato alla di lui sepoltura, a piedi scalzi rientrò in Muret, andò subito in chiesa, a rendere grazie al Signore dell’aiuto ricevuto e donò ai poveri il cavallo e l’armatura usati nella pugna. Questa memoranda battaglia, frutto di una coscienza che si sentiva sicura di combattere per Iddio, sarà sempre annoverata tra i più belli attestati di fede che gli uomini abbiano mai dato sulla terra.

Anche Domenico si trovava a Muret unito ai sette vescovi che abbiamo nominati e ai tre abati di Citeaux; anzi da alcuni storici è stato recentemente scritto ch’egli medesimo, con la croce in mano, stesse alla testa dei soldati. Ed a Tolosa, nel palazzo dell’Inquisizione si mostrava nei tempi passati un crocifisso tutto crivellato da frecce, che si diceva essere quello portato da Domenico alla battaglia di Muret. Gli storici contemporanei però non dicono nulla di tutto questo; affermano al contrario che Domenico era rimasto dentro la città a pregare insieme con i vescovi e con i religiosi; e Bernardo Guidonis, uno degli scrittori della di lui vita, che abitò nel palazzo dell’Inquisizione di Tolosa dall’anno 1308 all’anno 1322, di tal crocifisso non fa affatto menzione.

La battaglia di Muret fu un colpo mortale per il conte di Tolosa. I suoi alleati e gli abitanti della capitale del suo regno si sottomisero al Sommo Pontefice, il quale incaricò il cardinale Pietro di Benevento di riconciliarli con la Chiesa, e di obbligare il conte di Montfort a rimandare in Spagna il nuovo re d’Aragona, giovanetto ch’ei riteneva in ostaggio fin da quando era stato fidanzato con la sua figlia. Il cardinale soddisfece a questo duplice mandato nell’inverno del 1214; e, cosa notevole, diede anche l’assoluzione al conte di Tolosa, per quanto quest’atto di clemenza non giovasse punto al vinto riguardo ai suoi interessi temporali. Infatti, nel seguente mese di dicembre fu purtroppo convocato un concilio a Montpellier per decidere a chi dovesse appartenere la sovranità delle terre conquistate, mentre la questione era già decisa dal diritto divino. Fortunatamente il Concilio non perpetuò altri abusi e fu unanime nel riconoscere possesso del Montfort, alla cui spada forte e valorosa spettavano quindi per il diritto divino, non certo per opinione d’ecclesiastici.

Ciò nondimeno il Sommo Pontefice con una lettera in data del 17 aprile 1215 dichiarò che il Montfort avrebbe ritenuto tali domini solo temporaneamente, fino a che il concilio Lateranense, al quale era riservata la sentenza definitiva, si fosse pronunziato. Fu questo, uno degli ultimi abusi di Innocenzo III, che per malintesa pietà rischiava di far tornare in auge la casa di Tolosa. Ma Raimondo, per disegno divino abbandonato da tutti, si era ritirato con il figlio alla corte del re d’Inghilterra.

Montfort rivestito da Filippo Augusto dei titoli di duca di Narbona e di conte di Tolosa, non godette lungamente del potere tanto faticosamente acquistato. Doveva terminare ancora l’anno 1216, ed il giovane Raimondo era nuovamente divenuto padrone di una parte della Provenza; Tolosa, già stanca di portare il giogo del nuovo conte, aveva riaperto le porte al vecchio Raimondo richiamato dall’Inghilterra, dove si era ritirato; un gran numero di signori al primo annunzio di questa mutazione di cose, era corso subito a prestare giuramento di fedeltà all’antico sovrano; ed il vincitore di Muret dovette allora comprendere che non basta vincere battaglie ed espugnare città per acquistare il prestigio nel governo dei popoli. Per sua sventura egli ebbe contro di sé quella preziosa forza che è nelle viscere dell’umanità, e che rende impossibile regnare sui popoli quando non si regni sui loro cuori. Cacciato da Tolosa, invano da lui disarmata e spaventata con i supplizi, il Montfort con infelice pensiero la strinse d’assedio, senza però mai più rientrarvi. La lunghezza dell’assedio, l’incertezza dell’avvenire, le lagnanze che per la sua inazione gli venivano fatte dal cardinale Bertrando legato apostolico ed anche l’abbattimento che cagionano le sventure da lungo tempo previste, gettarono il prode cavaliere in una melanconia tale da fargli desiderare la morte.

Il 25 giugno del 1218 gli fu annunciato di buon mattino che i nemici stavano già in agguato nei fossati del castello. Egli chiese allora la sua armatura, e indossatala, andò ad ascoltare la Messa. La Messa era appena cominciata, quando un altro venne ad avvisarlo che era stato dato l’assalto alle macchine da guerra e che stavano in procinto di essere distrutte. “Lasciate, disse il Montfort, ch`io vegga il Sacramento della nostra Redenzione!” Ma ecco arrivare ancora un terzo per dire che i soldati non valevano più a far fronte. “Eppure io non verrò, egli rispose, se prima non abbia veduto il mio Salvatore”. Finalmente, dopo che il sacerdote ebbe elevata l’ostia, Montfort inginocchiato a terra ed alzate al cielo le mani, proferì queste parole: “Nunc dimittis”, e sortì. La sua presenza sul campo di battaglia fece indietreggiare il nemico fino ai fossati della piazza; ma fu l’ultima vittoria. Una pietra lo colpì nella testa; ed egli battendosi il petto e raccomandandosi a Dio e alla Santissima Vergine Maria, cadde morto.

La fortuna continuò a favorire i Raimondi. Di due figli infatti che Montfort aveva lasciati, il più giovane fu ucciso sotto le mura di Castelnaudary; ed il primogenito, ormai convinto da quattro anni d’infortuni di non esser abile a sostenere il peso dell’eredità paterna, cedette al re di Francia tutti i suoi diritti. Il vecchio Raimondo, tranquillo dentro la città di Tolosa, all’ombra delle vittorie del suo figlio, ebbe tempo di rivolgere gli occhi a quel Dio che l’aveva umiliato e rialzato insieme; finché un giorno, era il 12 luglio 1222, nel tornare dalla Chiesa, alla cui entrata, essendo ancora scomunicato, era stato a pregare, si sentì male. Mandò a chiamare in tutta fretta l’abate di Saint-Sernin, affinché lo riconciliasse con la Chiesa. L’abate lo trovò che più non parlava; il vecchio conte però quando lo vide, alzò gli occhi al cielo, e prese le di lui mani, le tenne strette fra le sue fino all’ultimo respiro. Il suo corpo fu trasportato alla chiesa dei cavalieri di S. Giovanni di Gerusalemme, dove egli aveva scelto la sepoltura; ma a causa della scomunica, nessuno osò seppellirlo. Lasciatolo scoperto in una bara, dopo tre secoli era ancor là, senza che una mano pietosa avesse ardito d’inchiodare una tavola su quella cassa consacrata ormai dalla morte e dal tempo. A richiesta del figlio, sotto i pontificati di Gregorio XI e d’Innocenzo IV, era stata trattata la questione della di lui sepoltura, e molti testimoni avevano provato che prima di morire aveva dato segni di verace pentimento; ciò nonostante si temette sempre di agitare quelle ceneri, e di rendergli onori, per quanto tardivi.

Raimondo VII sopravvisse al padre ventisei anni; più volte seppe difendersi contro le armi stesse di Francia; ma troppo debole per i sostenerne continui assalti, nel 1228 conchiuse con S. Luigi un trattato che pose fine a questa guerra interminabile. Le principali condizioni della pace furono le seguenti: che Raimondo desse in sposa l’unica sua figlia al conte di Poitiers, uno dei fratelli del re, assegnandole per dote la contea di Tolosa; cedesse alcune terre da lui possedute, e promettesse di esser fedele alla Chiesa, usando della sua autorità contro gli eretici. La Chiesa ratificò questa pace, e riammise alla sua comunione il giovane conte, il quale, in penitenza si obbligò a servire per cinque anni la cristianità in Palestina. Solo però venti anni dopo pensò a soddisfare al suo dovere ed a partire per Terra Santa; ma la morte lo prevenne. Ammalatosi a Pris, non lontano da Rhodez, e fattosi trasportare a Milhaod, ivi mori il 27 settembre 1248, circondato dai vescovi di Tolosa, di Agen, di Cahors e di Rhodez, dai consoli di Tolosa e da un gran numero di signori, tutti colà accorsi a ricevere l’ultimo respiro di un principe da loro amato, ed unico rampollo, in linea maschile, del ramo diretto di un’illustre famiglia. Quando gli fu portato il Santissimo Viatico, il conte levatosi dal letto, si gettò ginocchioni per terra davanti al corpo del Signore: si avverò così anche in morte, come era stato in vita, il voto che Innocenzo III, benedicendo il conte ancor giovanetto, aveva emesso: “Che tu possa, o figlio, cominciar bene tutte le tue azioni e finirle meglio!”.

CAPITOLO V

Apostolato di S. Domenico dal principio della guerra Albigese fino al quarto Concilio Lateranense

Istituzione del SS. Rosario

  1. Domenico ed i suoi primi discepoli a Tolosa

Lo scoppio della guerra albigese segnò il momento supremo in cui tutta la virtù e tutto il genio di Domenico si rivelarono. L’alternativa di abbandonare la sua missione in un paese pieno di sangue e di rivolgimenti, o di prendere parte alla guerra, come avevano fatto i religiosi di Citeaux, era ugualmente fatale per la sua vocazione. Fuggendo avrebbe dovuto rinnegare l’apostolato; intromettendosi nella guerra avrebbe tolto alla sua vita ed alla sua parola tutto il carattere apostolico. Onde egli fece una guerra a modo suo; e sull’esempio dei primi apostoli, i quali, nonché fuggire il male, andavano ad affrontarlo nel centro stesso della sua possanza, rivolse particolarmente lo sguardo verso Tolosa, la capitale dell’eresia in Europa. San Pietro innalzò in Antiochia, città regina d’Oriente, la sua prima cattedra, e di là inviò il suo discepolo San Matteo in Alessandria, la più commerciale allora e la più ricca città del mondo; S. Paolo si trattenne lungo tempo a Corinto, la più celebre fra le città greche per gli splendori stessi della sua corruzione; l’uno e l’altro, senza nessuna precedente intesa, vennero a morire a Roma. Non sta bene, aveva detto Gesù Cristo, che un profeta muoia fuori di Gerusalemme (Lc 13,23). Era dunque conveniente che anche Domenico, qualunque piega le cose prendessero, innalzasse la sua tenda a Tolosa, focolare e faro di tutte le eresie. Gli uomini di poca fede aspettano, dicono essi, la pace per operare; l’apostolo semina nei giorni procellosi, per raccogliere quando torna il sereno. Egli ha presenti alla memoria quelle parole del suo maestro: guerre e rumori di guerre feriranno le vostre orecchie; guardate di non paventare (Mt 5,4). Domenico quindi rimase fermo al suo posto, nonostante i terrori della guerra; e più che mai allora comprese la necessità di non alterare affatto il suo atteggiamento pacifico e rassegnato. Perché per quanto sia giusto impugnare la spada contro chi tenti opprimere la verità con la violenza, pure è ben difficile che la verità non risenta di tale protezione, e non diventi complice di quegli eccessi, che in ogni sanguinoso conflitto possono accadere. La spada non sempre si arresta precisamente là, dove termina la giustizia; e quando fra le mani dell’uomo s’è riscaldata, con difficoltà rientra di sua natura nel fodero. Solo i virtuosi sanno combattere esclusivamente per la giustizia; lo spirito umano va soggetto a tali vicende da ripromettere qualche volta agli stessi oppressori vinti un qualche rifugio nella compassione, non sempre giusta, dei vincitori. Era dunque di assoluta necessità che Domenico restasse fedele al magnanimo disegno di Azevedo, e che accanto alla cavalleria armata a difesa della libertà della Chiesa, apparisse l’uomo evangelico, fidente anche nella forza della grazia e del convincimento. Una volta in Polonia quando il sacerdote leggeva dall’altare il Vangelo, il cavaliere sfoderava la spada per metà, ed in tale atteggiamento marziale ascoltava le soavi parole del Cristo. Era per significare i veri rapporti fra la città del mondo e la città di Dio. La città di Dio, personificata nel sacerdote, parla, prega, benedice, offre se stessa in sacrificio; la città del mondo, rappresentata dal cavaliere, ascolta silenziosa, unita intimamente a tutti gli atti del sacerdote, tenendo pronta la spada non per imporre la fede, ma per assicurarne la libertà. Il prete ed il cavaliere compiono due uffici nel mistero del cristianesimo che non devono mai esser confusi, ed il primo deve essere protetto dal secondo. Mentre il sacerdote canta ad alta voce il Vangelo alla presenza del popolo ed in mezzo allo scintillio dei ceri, il cavaliere tiene a mezzo la spada nel fodero, quasi che la giustizia e la misericordia gli parlino ad un tempo, e l’Evangelo stesso, alla cui difesa sta già apparecchiato, gli sussurri all’orecchio: Beati gli uomini mansueti, perché possederanno la terra (Mt 24,6). Domenico e il Montfort furono i due eroi della guerra albigese: sacerdote l’uno, l’altro cavaliere. Vedemmo come il Montfort soddisfece al proprio ufficio; ora vediamo come Domenico adempì il suo.

Il lettore avrà certo notato come in tutti gli avvenimenti della guerra sopra descritta mai figuri il nome di Domenico. Concili, conferenze, riconciliazioni, assedi, trionfi, tutto si fa senza di lui, né di lui si parla in alcuna lettera che vada a Roma o ne venga. Una volta sola l’abbiamo trovato a Muret, là, in una chiesa a pregare, nell’ora stessa della battaglia. E questo unanime silenzio degli storici è tanto più notevole, in quanto che sono essi di diverse scuole, alcuni ecclesiastici altri laici, chi favorevoli ai crociati e chi amici di Raimondo. Onde non è possibile che Domenico prendesse parte ai trattati ed alle operazioni militari della crociata, e che tutti gli storici, quasi a gara, l’abbiano taciuto. Fatti di altro genere ci sono stati fedelmente raccontati: perché nascondere questi ultimi? Or ecco i pochi frammenti rimasti di lui vita in quel tempo.

Dopo che il vescovo fu ritornato nella sua diocesi, dice il B. Umberto, S. Domenico rimasto quasi solo, animato unicamente da pochi compagni non legati a lui da nessun voto, sostenne per il corso di dieci anni la fede cattolica in diversi luoghi della provincia di Narbona, particolarmente a Carcassona e a Fangeaux, consacratosi senza riserva alla salvezza delle anime con il ministero della predicazione, e soffrendo di buon animo affronti, ignominie e angosce assai per il nome del Signor nostro Gesù Cristo”.

Domenico aveva prescelto a sua abituale residenza Fangeaux, città situata sopra un’altura, perché di là si scorgeva al piano il monastero di Prouille. Quanto a Carcassona, che non era a maggior distanza da quella dolce solitudine, manifestò egli medesimo il motivo della sua preferenza, quando interrogato perché non stava volentieri nella città e diocesi di Tolosa: “Perché, rispose, nella diocesi di Tolosa m’imbatto spessissimo in gente che mi onora, mentre a Carcassona, tutti mi sono contrari”. E veramente i nemici della fede rivolgevano ogni sorta di insulti contro il servo di Dio: gli sputavano in faccia, gli gettavano addosso il fango, gli appuntavano per derisione delle paglie al mantello; e lui, superiore a tutto si teneva felice, come l’Apostolo, d’essere giudicato degno di patire tali obbrobri per il nome

di Gesù. Gli eretici macchinarono anche di togliergli la vita; ed una volta che di ciò lo minacciarono, rispose loro: “La gloria del martirio non è per me, che siffatta morte non mi sono ancor meritato”. E dovendo passare per un luogo dove sapeva benissimo essergli state tese insidie, non solamente si avanzò intrepido, ma giubilando e cantando. Talché gli eretici meravigliati di tanta fermezza, un’altra volta, per tentarlo, gli domandarono che cosa avrebbe fatto se fosse capitato nelle loro mani: “V’avrei pregato, rispose, di non uccidermi con un sol colpo, ma di tagliarmi a pezzi le membra, e dopo avermele poste dinanzi, cavarmi ancora gli occhi, lasciandomi mezzo morto a nuotare nel mio sangue, o facendo quello che più vi fosse piaciuto degli ultimi avanzi della mia vita”.

Teodoro d’Apolda fa il seguente racconto:

Accadde che dovendosi tenere una solenne conferenza con gli eretici, un vescovo si era preparato per recarvisi con gran pompa. Allora l’umile banditore di Cristo: – Padre mio e Signore, gli disse, ma non è così che bisogna agire contro i figli dell’orgoglio. I nemici della verità si hanno da vincere con esempi di umiltà, di pazienza, di religione e di tutte le virtù, non già con il fasto e con le grandezze, né con il far mostra della gloria del secolo. Armiamoci della preghiera, e facciamo risplendere nelle nostre persone le stimmate dell’umiltà; andiamo a piedi scalzi incontro a questi Golia. – Il Vescovo accondiscese al pio consiglio, e tutti si scalzarono. Avvenne che, non pratici del cammino, presero per guida un uomo incontrato per via, creduto cattolico, ma che al contrario era eretico, il quale promise loro di condurli direttamente sul posto; invece li fece maliziosamente passare attraverso un bosco pieno di rovi e di spine, sicché i loro piedi ne furono lacerati, fino a scorrere di sangue. L’atleta di Dio giulivo e paziente esortò allora i compagni a rendere grazie al Signore per quel che soffrivano, e: – Confidate, o carissimi, nel Signore, disse loro; la vittoria è sicuramente per noi, dacché i nostri peccati sono espiati con il sangue. – L’eretico mosso dall’esempio di così ammirabile pazienza e dalle parole del Santo, confessò il mal fatto, e abiurò l’eresia”.

Nei dintorni di Tolosa si trovavano alcune nobili signore, le quali sedotte dall’apparente austerità degli eretici, avevano abbandonata la fede. Domenico al principio di una quaresima chiese loro ospitalità, allo scopo di ricondurle nel seno della Chiesa. Non entrò mai con loro in dispute, ma durante tutta la quaresima tanto lui che il suo compagno si cibarono di solo pane e non bevvero che acqua; quando poi la prima sera esse si affaccendavano a preparare loro dei letti, gli ospiti chiesero per coricarsi due sole tavole, e la durarono così fino a Pasqua, interrompendo ciascuna notte i corti sonni con fervide orazioni. Questa muta eloquenza fu onnipotente sul cuore di quelle signore, le quali riconobbero nel sacrificio l’amore, e nell’amore la verità.

Non avrà dimenticato il lettore che Domenico a Palenza voleva vendersi per riscattare il fratello di una povera donna. Anche in Linguadoca, alla vista di un eretico trattenuto nell’eresia solo dalla miseria, ebbe lo stesso eroismo; era pronto a vendersi per potergli dare da vivere; e l’avrebbe fatto se la divina Provvidenza non avesse provveduto altrimenti al sostentamento di quell’infelice.

Un altro fatto anche più singolare ci fa conoscere le finezze della di lui carità.

Essendo stati catturati alcuni eretici nel territorio di Tolosa, scrive Teodoro d’Apolda, ed essendo stati convinti di eresia, perché ostinati nei loro errori, furono consegnati al braccio secolare e condannati ad esser bruciati. Domenico, dal cuore iniziato ai segreti di Dio, fissò uno di loro, e rivolto agli ufficiali della corte: – Lasciate costui in disparte, disse, e badate bene di non bruciarlo.

– Appressatosi poi all’eretico gli sussurrò dolcemente: – So che vi ci vorrà del tempo, o figlio, ma finirete con il farvi buono e santo. – Scena commovente e meravigliosa! Ancora venti anni costui rimase nell’accecamento dell’eresia; finché sopravvenuta la grazia, chiese di vestire l’abito dei Frati Predicatori; e sotto tale divisa visse e morì nella fede”.

Costantino d’Orvieto ed il B. Umberto, narrando questo stesso fatto vi aggiungono una circostanza degna di nota. Essi fanno osservare che gli eretici prima di essere stati consegnati al braccio secolare, da Domenico erano stati convinti: unica parola del secolo decimoterzo da cui alcuni pretesero inferire che il Santo prendesse parte a processi criminali. Ma gli storici della guerra Albigese c’insegnano chiaramente in che consistesse questo convincere gli eretici. E’ da sapere infatti che in Linguadoca gli eretici non vivevano in segreto, ma in piena luce combattevano armati a difesa dei loro errori. Quando nella guerra qualcuno di loro cadeva in mano dei crociati, si aveva cura che alcuni ecclesiastici gli esponessero i dogmi cattolici, e gli facessero rilevare la stranezza delle loro dottrine: questo si chiamava convincerli, non già di essere eretici, perché ciò non si curavano affatto di nascondere, ma di essere in una via falsa, contraria alle Scritture, alla tradizione, alla ragione medesima. Con promessa di perdono si scongiuravano insistentemente ad abiurare l’eresia; e quelli che avessero ceduto a tali istanze, venivano assolti; quelli poi che ostinatamente perseveravano nell’errore, venivano consegnati al braccio secolare. Il convincere dunque gli eretici non era che un ufficio di abnegazione in cui l’energia dello spirito e l’eloquenza della carità traevano vita dalla speranza di sottrarre alla morte degli sventurati. Che S. Domenico almeno una volta abbia esercitato tale ufficio non c’è da dubitarne, quando due storici contemporanei l’attestano; ma trarre argomento da ciò per accusarlo di rigore contro gli eretici, è confondere il sacerdote che assiste il delinquente, con il giudice che lo condanna, o con il carnefice che gli toglie la vita.

Forse qualcuno domanderà con meraviglia come Domenico avesse tanta autorità da sottrarre dal supplizio un eretico con una semplice predizione; ma lasciando stare l’autorità che la fama di santo aveva meritato alla sua parola, è da notarsi che egli era stato investito dai legati della S. Sede dell’ufficio di riconciliare alla Chiesa gli eretici. Della qual cosa ne abbiamo prova autentica in due documenti, ambedue senza data, ma che non possono appartenere che a quest’epoca della sua vita. Uno è cosi formulato:

Frate Domenico, canonico di Osma, umile ministro della predicazione, a tutti i fedeli in Cristo a cui perverranno le seguenti lettere, salute e sincera carità nel Signore. Rendiamo noto per vostra norma aver noi permesso a Raimondo Guglielmo d’Hautérive Pelagianire di ricevere ad abitare nella sua casa di Tolosa Guglielmo Uguccione, che ci ha confessato d’avere indossato altra volta l’abito degli eretici. E questo glielo permettiamo, fino a che dal Signor Cardinale non sia ordinato altrimenti a me od a lui; né tale coabitazione dovrà tornare nessun modo a suo pregiudizio o disonore”.

Nell’altro documento si legge quanto appresso:

Fra Domenico, canonico di Osma, a tutti i fedeli di Cristo ai quali perverranno le presenti lettere, saluto in Cristo. – Noi, per autorità del Signor Abate di Citeaux, che ci ha imposto tale ufficio, abbiamo riconciliato con la Chiesa il latore della presente, Ponzio Roger, per la grazia di Dio convertito dall’eresia alla fede; ed ordiniamo che in virtù del giuramento da lui emesso nelle nostre mani, per tre Domeniche, o giorni festivi, dall’entrata del paese debba portarsi alla chiesa nudo fino alla cintura e percosso con verghe dal sacerdote. Ordiniamo ancora che in ogni tempo egli si astenga dal mangiar carne, uova, formaggio, e quanto trae origine dalla carne, eccettuati i giorni di Pasqua, di Pentecoste, e di Natale, nei quali ne mangerà in protesta degli antichi suoi errori. Farà tre quaresime all’anno, digiunando ed astenendosi anche dal pesce, salvo che l’infermità del corpo o i calori dell’estate non richiedano una dispensa. Vestirà abiti religiosi così nella forma che nel colore, ed alle estremità ci attaccherà due crocette. Ogni giorno, ove possa, ascolterà la Messa, e nei giorni festivi andrà anche a vespro. Sette volte il giorno reciterà dieci Pater noster, e venti ne dirà a mezzanotte. Non violerà la legge della castità, e una volta al mese, alla mattina, mostrerà il presente documento al cappellano del villaggio di Cerè, al qual cappellano ordiniamo di aver cura che il suo penitente conduca una buona vita, ed osservi tutto ciò che gli è stato prescritto, fino a tanto che il Signor Legato non disponga altrimenti. Che se il penitente trascurerà, e ciò con disprezzo, di ubbidire, vogliamo che si abbia per scomunicato, e separato dalla società dei fedeli, siccome uno spergiuro ed eretico”.

Forse alcuni troveranno strane ed eccessive queste prescrizioni; ma dovrebbero ricordare le penitenze canoniche della Chiesa primitiva, gli usi penitenziari dei chiostri, e le pratiche a cui volontariamente si assoggettavano molti cristiani del medio evo ad espiazione delle proprie colpe. Tutti sanno, per non citare che un esempio, che Enrico II, re d’Inghilterra, si fece battere con verghe da alcuni monaci sulla tomba di Tommaso Becket, arcivescovo di Canterbury, perché aveva dato occasione al di lui assassinio. Ed anche oggi nelle grandi basiliche di Roma il sacerdote dopo avere assoluto il penitente, lo percuote leggermente nelle spalle con una lunga bacchetta. S. Domenico quindi non fece che conformarsi agli usi del suo tempo; e chiunque conosca tali usi, non riscontrerà nel suo modo di agire che un vero spirito di bontà.

Né minore della carità e della dolcezza era nel santo il disinteresse. Gli furono offerti i vescovadi di Beziers, di Conserans e di Comminges, ma costantemente li ricusò; ed una volta giunse a dire che piuttosto se ne sarebbe fuggito nottetempo con il suo bordone, anziché accettare vescovadi o qualsiasi dignità.

Ecco il ritratto che ce ne fa Guglielmo di Pietro, abate del Monastero di S. Paolo in Francia, uno di quelli che più lo conobbero nei dodici anni del suo apostolato in Linguadoca, e che fu chiamato per testimone a Tolosa nel processo di canonizzazione del Santo.

Il Beato Domenico aveva una sete ardente della salute delle anime, e con zelo illimitato si adoprava a loro vantaggio. Predicatore ferventissimo, di giorno, di notte, nelle chiese, nelle case, sui campi, per le vie, mai si stancava di annunciare la divina parola, raccomandando ai suoi frati di fare lo stesso e di non parlare altro che di Dio. Avversario degli eretici, o con la predicazione, o con le dispute, o in qualunque altro modo possibile sempre loro si opponeva. Amò poi tanto la povertà, da rinunziare persino ai possedimenti, le terre, i castelli e tutte le entrate di cui in più luoghi il suo Ordine era stato arricchito; ed era talmente frugale, che un pane e una zuppa bastavano al suo nutrimento, salvo rare eccezioni in cui rallentava alquanto da tale austerità per riguardo ai suoi frati ed agli altri commensali. Perché quanto agli altri, voleva che possibilmente avessero tutto in abbondanza. Ho inteso dire da molti che egli si mantenne sempre vergine. Ricusò il vescovado di Conserans, e non volle mai governare quella chiesa, per quanto ne fosse stato legittimamente eletto pastore e prelato. Io non conobbi uomo più umile di lui, né di lui più avverso alla gloria del mondo e a tutto che ad essa appartenga. Le ingiurie, le maledizioni, gli obbrobri li sopportava con pazienza e con gioia, quasi fossero doni di gran valore. Non lo spaventavano punto le persecuzioni, ed intrepidamente affrontava i pericoli; mai per paura abbandonò la via intrapresa. Che anzi, se cammino facendo era vinto dal sonno, sostava lungo la strada medesima o a pochi passi di distanza, e prendeva riposo. In santità poi superò quanti mai io abbia conosciuti. Noncurante di sé fino al disprezzo, si riteneva per un uomo da nulla. Con tenera bontà consolava i suoi frati ammalati, compassionando in modo ammirabile la loro infermità. Veniva a sapere che alcuno di loro gemeva sotto il peso delle tribolazioni? E lui pronto ad esortarlo alla pazienza, e secondo il suo meglio ad infondergli coraggio. Amante della regola, ne riprendeva paternamente i trasgressori; nelle parole, nei modi, nel vitto, nel vestito, nella purezza dei costumi, in tutto era di esempio ai suoi fratelli. Non conobbi uomo più abituato alla preghiera, o che versasse tante lacrime. Quando pregava mandava tali gemiti, che si udivano anche in lontananza; e gemendo diceva al Signore: – Pietà, o Signore, del popolo; e che sarà dei peccatori? – E passava le notti insonni piangendo e sospirando per i peccati degli uomini. Generoso ed ospitale, dava liberalmente ai poveri tutto che avesse; amava ed onorava tutti i religiosi e tutti gli altri che alla religione fossero amici; né mai udii, né seppi, che avesse altro letto che la chiesa, se pure gli era dato di trovare una chiesa; altrimenti si coricava sopra una tavola o per terra; e se gli preparavano un letto, tolti via materassi e lenzuola, si distendeva sulle dure corde. Lo vidi sempre con una sola tonaca e rappezzata, usando abiti più vili degli altri frati. Della fede e della pace fu amatore grandissimo, e per quanto poté, dell’una e dell’altra fedelissimo promotore”.

A virtù così sublimi, si aggiunse in Domenico anche il dono di far miracoli. Un giorno traversato un fiume su di una barca e giunto all’altra riva, fu richiesto dal barcaiolo della dovuta mercede. “Io, rispose Domenico, sono un discepolo e un servitore di Cristo, né ho con me oro od argento; penserà Dio a compensarvi per il prezzo della mia traversata”. Ma il barcaiolo inquieto, presolo per la cappa, tirandogliela diceva: “O io avrò la mia mercede, o voi lascerete la cappa”. Domenico, allora alzati gli occhi al cielo si raccolse un momento, e di poi guardando in terra e mostrando al barcaiolo una moneta d’argento che la Provvidenza gli aveva mandato: “Fratello mio, gli disse, ecco ciò che voi domandate; prendete, e lasciate che lo me ne vada in pace”.

Nell’anno 1211, tempo in cui i crociati erano accampati nei dintorni di Tolosa, alcuni inglesi che andavano pellegrinando a S. Giacomo di Compostella, non volendo passare dentro quella città, perché interdetta, pensarono di traversare in barca la Garonna. Avvenne che la barca troppo carica – erano circa cinquanta – si capovolse. Alle grida dei pellegrini e dei soldati, Domenico uscì fuori da una chiesa vicina, e gettatosi per terra con le mani in croce, si mise ad implorare da Dio la salvezza di quegli infelici omai annegati. Terminata la preghiera, si alzò, e voltosi verso il fiume, disse ad alta voce: “Nel nome di Gesù Cristo, io vi comando di venire tutti a riva”. Gli annegati ricomparvero subito sopra le acque, e per mezzo di lunghe pertiche apprestate loro dai soldati, guadagnarono la sponda.

Il primo priore del convento di S. Giacomo di Parigi, conosciuto sotto il nome di Matteo di Francia, divenne discepolo di Domenico in seguito ad un altro miracolo di cui fu testimone. Egli era priore di una collegiata nella città di Castres. Domenico andava spesso a visitare quella chiesa perché vi si conservavano le reliquie del martire S. Vincenzo; ed ordinariamente vi rimaneva a pregare fino all’ora di mezzogiorno. Una volta però fece passare anche quest’ora, ed il priore mandò uno dei suoi chierici ad avvertirlo. Il chierico, arrivato in chiesa, trovò Domenico elevato un mezzo braccio da terra, rapito in estasi dinanzi all’altare. Corse ad avvisarne il priore, il quale rimase talmente impressionato dal vedere il Santo in estasi, che poco dopo si fece compagno del servo di Dio; e Domenico, come era solito praticare con quelli che metteva a parte del suo apostolato, gli promise il pane della vita e l’acqua del cielo.

Gli storici raccontano ancora brevemente come il Santo cacciasse il demonio da un ossesso; come volendo pregare in una chiesa le cui porte erano chiuse, d’un tratto si trovasse trasportato dentro; come viaggiando con un religioso, senza che l’uno sapesse la lingua dell’altro, conversassero per tre giorni insieme quasi usassero tutti e due lo stesso idioma. Raccontano ancora come essendo caduti nell’Ariège i libri che Domenico portava con sé, ritrovati da un pescatore dopo vari giorni, sembravano neppur toccati dalle acque. Questi fatti, sparsi qua e là nelle storie, li abbiamo voluti raccogliere qui siccome sante reliquie.

Iddio infuse nel suo servo anche lo spirito di profezia. Nella quaresima dell’anno 1212, che Domenico passò a Carcassona predicando e disimpegnando l’ufficio di vicario generale a lui affidato dal vescovo assente, fu interrogato da un religioso di Citeaux sull’esito della guerra. “Maestro Domenico, gli domandò, ma non finiranno mai questi mali?”. E Domenico tacque. Ma il religioso, sapendo bene che Dio gli rivelava molte cose, insisté ancora, finché Domenico: “Sì, rispose, questi mali avranno fine, ma non così presto; molto sangue ancora, oltre il già sparso, si verserà, ed anche un re morirà nella battaglia”. Quelli che intesero tal predizione, temettero subito per il primogenito di Filippo Augusto, che aveva fatto voto di arruolarsi ai crociati contro gli Albigesi; ma Domenico rassicurandoli: “Non temete per il re di Francia, soggiunse; un altro re dovrà soccombere, e presto, in mezzo alle vicende di questa guerra”. Poco dopo fu spento a Muret il re di Aragona.

La durata ed i fortunosi avvenimenti della guerra parevano un ostacolo insormontabile all’attuazione dell’idea sempre fissa in Domenico di fondare un Ordine religioso tutto consacrato al ministero della predicazione. Per questo non si stancava mai di chiedere a Dio la pace; e per ottenerla, ed affrettare così il trionfo della fede istituì, non senza segreta ispirazione, quel metodo di preghiera, divulgatosi poscia in tutta la Chiesa, sotto il nome di Rosario.

Quando l’Arcangelo Gabriele fu inviato da Dio alla Vergine per annunciarle il mistero dell’Incarnazione del Verbo nel di Lei purissimo seno, la salutò, dicendole: Salve, o piena di grazia, il Signore è teco; tu fra le donne sei la benedetta (Lc 1,28). Queste parole, le più soavi che altra creatura abbia mai ascoltato, passarono di età in età sulle labbra dei cristiani, che dal fondo di questa valle di lacrime anche oggi non cessano di ripetere alla Madre del loro Redentore: Salve, o Maria. Le gerarchie del cielo delegarono uno dei loro principi per indirizzare all’umile figlia di David il glorioso saluto; ed ora che Ella se ne sta sopra gli angeli e tutti i cori celesti, il genere umano che la ebbe figlia e sorella, le innalza di quaggiù l’angelico saluto: Salve, o Maria. E come la Vergine, tosto che intese per la prima volta l’Ave misterioso dalle labbra di Gabriele, concepì nel suo purissimo seno il Verbo di Dio, cosi sempre che bocca umana le ripete il saluto, che fu il segno della sua maternità, le sue viscere verginali tutte si commuovono alla rimembranza di un momento il cui simile non fu mai né in cielo, né su la terra; e l’eternità stessa risente della felicità di cui fu allora piena la Vergine. Però, quantunque sia antico l’uso dei cristiani di rivolgere con tale invocazione il loro cuore a Maria, nondimeno ciò si faceva prima senza regola né forma solenne. Ciascuno si abbandonava all’impulso del proprio cuore, senza che i fedeli indirizzassero mai in comune tale saluto all’amatissima loro protettrice.

Domenico, che ben comprendeva la forza dell’associazione nella preghiera, credette ottima cosa far così che la salutazione angelica fosse detta in comune, affinché la solenne acclamazione di tutto un popolo salisse al cielo con maggiore possanza. Si aggiunga che la brevità stessa delle parole dell’Angelo, quasi esigeva che fossero ripetute più volte, precisamente come le acclamazioni dei popoli al passaggio dei loro sovrani. E poiché la ripetizione poteva generare distrazione allo spirito, Domenico provvide anche a questo, distribuendo le salutazioni vocali in più serie, a ciascuna delle quali unì il ricordo di uno dei Misteri della nostra redenzione, che furono a loro volta per la Vergine benedetta argomento di gioia, di dolore, di trionfo. Così l’orazione mentale sarebbe stata necessariamente congiunta con la pubblica preghiera; ed il popolo, salutando la sua Madre e Regina, l’avrebbe accompagnata dal fondo del cuore in ciascuno dei principali avvenimenti della di Lei vita.

A meglio provvedere poi alla durata ed alla solennità di cosiffatto modo di pregare, Domenico pensò ancora alla fondazione di una Confraternita. Pietoso divisamento che fu benedetto dal più grande successo, il gradimento universale dei popoli. I cristiani si tramandarono di secolo in secolo tal pratica con incredibile fedeltà; le Confraternite del Rosario si moltiplicarono senza numero; né v’ha cristiano al mondo, che sotto il nome di Corona non abbia con sé il suo Rosario. E chi sul far della sera non ha udito nelle chiese di campagna la voce grave dei contadini recitare a due cori l’angelico saluto? chi non ha incontrato processioni di pellegrini con in mano, la corona, che scorrono lentamente fra le dita, rendendo meno penosa la lunghezza del viaggio con il ripetere alternativamente il nome di Maria?

Ora, una pratica che arriva a guadagnarsi l’approvazione universale e per sempre, è segno manifesto che ha necessaria e misteriosa corrispondenza con i costumi e con i destini dell’uomo. Pure il razionalista sogghigna al veder passare lunghe file di uomini che vanno ripetendo sempre le medesime parole; ma chi è rischiarato da luce più bella, sa bene come l’amore ha solo una parola, che ridetta sempre non si ripete mai.

La devozione del Rosario, interrotta nel decimoquarto secolo per la terribile peste che desolò l’Europa, nel secolo seguente fu ripristinata dal B. Alano de La Roche, domenicano di Bretagna. Nel 1573 poi, il sommo pontefice Gregorio XIII, a memoria della celebre battaglia di Lepanto vinta contro i Turchi sotto il pontificato di un Papa domenicano, e nel giorno stesso in cui le confraternite del Rosario a Roma e nel mondo cristiano facevano pubbliche processioni, istituì la Festa del Rosario, che ogni anno si celebra da tutta la Chiesa la prima Domenica di ottobre.

Queste dunque le armi adoperate da Domenico contro l’eresia e contro i mali della guerra: predicazione, dispute, pazienza nel sopportare le ingiurie, povertà volontaria, vita austera per sé, carità illimitata verso gli altri, il dono dei miracoli, e finalmente il culto della SS. Vergine, da lui promosso con l’istituzione del S. Rosario.

I dieci anni che passarono dall’abboccamento di Montpellier fino al Concilio Lateranense, furono spesi in questo genere di vita in lui così metodico, che gli storici contemporanei, per timore di riuscire monotoni, si risparmiarono di descrivercelo; e dell’umile ed eroica perseveranza di Domenico nell’esercizio continuo delle virtù non ci tramandarono che uno scarso numero di fatti. Narrare un giorno della sua storia in quegli anni, è narrarne la vita. Questa stessa mancanza di avvenimenti però in un secolo agitatissimo fa risaltare maggiormente la figura di Domenico accanto a quella del conte di Montfort. Uniti da vincoli di sincera amicizia e da un ideale comune, nel genere di vita essi si trovano così diversi, quanto l’armatura di un cavaliere è differente dal sacco di un povero frate. Il sole della storia converge infiniti raggi sulla corazza del Montfort e la fa risplendere di generose azioni, per quanto frammiste ad ombre; sulla cappa di Domenico appena ve ne getta un solo; però è così puro, così santo che lo stesso tenue splendore è la più smagliante testimonianza di gloria. Poco è il lume, perché l’uomo di Dio si tiene sempre lontano dai rumori del sangue; perché perseverante nel suo ministero non schiude la bocca che a benedire, non apre il cuore che per pregare, non stende il braccio se non per atti di carità; perché infine la virtù quando è pura, non altro la illumina che Iddio.

A quarant’anni Domenico cominciò a raccogliere il frutto dei suoi lunghi meriti. I crociati nel 1215 gli aprirono con il loro trionfo le porte di Tolosa: e la Provvidenza che sa far cospirare nello stesso tempo ad un medesimo centro i più opposti elementi, mandò a lui i due uomini di cui abbisognava per gettare i primi fondamenti dell’Ordine dei Frati Predicatori. Entrambi cittadini di Tolosa e ragguardevoli per nascita e per merito personale, furono questi Pietro Cellani, che della sua grande virtù faceva ornamento alle sue molte ricchezze, e un altro conosciuto sotto il nome di Tommaso, uomo di rara eloquenza e di amabilità singolare. Mossi da un medesimo impulso dello Spirito Santo, insieme si offrirono a Domenico per compagni, e Pietro Cellani offrì ancora la propria casa, assai grande, situata presso il castello dei conti Tolosani, detto il castello di Narbona. Domenico riunì in tale abitazione i suoi discepoli, sei in tutto: Pietro Cellani, Tommaso e altri quattro; piccolo gregge, ma che pure era costato dieci anni di apostolato e quarantacinque anni di vita tutta consacrata al Signore. Come conoscono poco la natura delle cose durature quelli che hanno troppa fretta nel loro cammino! E come poco la conoscono anche quelli che rigettano da se un secolo perché sconvolto e tempestoso! Dopo che Domenico passando la prima volta per Tolosa, in una veglia spesa a convertire un eretico ebbe intraveduta l’idea del suo Ordine, il tempo era stato con lui inesorabile. La morte prematura del suo amico e maestro Azevedo lo aveva abbandonato orfano in terra straniera: una guerra sanguinosa lo aveva coinvolto in mille impacci: l’odio degli eretici, dapprima meno furioso per la sicurezza medesima della loro superiorità, s’era in seguito esaltato più che mai; finalmente l’indirizzo stesso dei cattolici volto a tutt’altra piega che quella dell’apostolato, lasciavano Domenico in una solitudine da sgomentare. Ma ecco che il soffio di Dio dirada le nubi; il conte di Tolosa, che un giorno se ne morirà tranquillo e vittorioso, ora è sopraffatto in una decisiva battaglia; Dio concede al suo servo alcuni mesi di pace, e l’Ordine dei Frati Predicatori nell’intermezzo di due tempeste viene stabilendosi nella capitale stessa dell’eresia.

L’abito dei primi compagni di Domenico fu quello stesso che lui indossava; una tonaca di lana bianca, una cotta di lino, una cappa e un cappuccio di lana nera. Era l’abito dei canonici regolari da lui sempre portato dopo il suo ingresso nel capitolo di Osma, e che continuò a portare insieme con i suoi, finché per un memorabile avvenimento di cui parleremo a suo luogo, l’abito fu alquanto mutato. Tutti menavano vita comune sotto certe regole; e giovò assai a tal fondazione la cooperazione di Folco, vescovo di Tolosa, quel generoso Vescovo cistercense, che vedemmo favorire fin da principio gli ideali di Azevedo e di Domenico. Né Folco si limitò a concorrere solo spiritualmente a tal fondazione; che anzi della sua liberalità a tale scopo abbiamo un insigne monumento, che la riconoscenza dei Frati Predicatori deve, per quanto può, rendere imperituro.

Nel Nome del nostro Signor Gesù Cristo. Rendiamo noto a tutti i presenti e futuri che noi, Folco, per la grazia di Dio umile ministro della sede di Tolosa, volendo estirpare l’eresia, bandire i vizi, insegnare agli uomini le regole della fede ed informarli a buoni costumi, istituiamo a predicatori della nostra diocesi Fra Domenico e i suoi compagni, i quali si sono prefissi di viaggiare a piedi e da religiosi, secondo l’evangelica povertà, e di annunciare la verace parola. E perché l’operaio è degno del necessario sostentamento, né si ha da imbavagliare la bocca al bove che trebbia il grano; che anzi chi predica il Vangelo deve vivere del Vangelo; noi vogliamo che Fra Domenico ed i suoi compagni, spargendo il seme della verità nella nostra diocesi, vi debbano anche raccogliere di che sostentare la vita. Onde, di comune accordo con il capitolo di S. Stefano e di tutto il clero della nostra diocesi, a loro, ed a tutti quelli che per lo zelo del Signore e per la salute delle anime si daranno nello stesso modo alla predicazione, assegniamo in perpetuo la sesta parte delle decime che usufruiscono le fabbricerie delle nostre Chiese parrocchiali, acciocché essi possano provvedere ai loro bisogni, e di tanto in tanto possano aver modo di riposarsi dalle fatiche. Se alla fine dell’anno ci sarà un sopravanzo, vogliamo e ordiniamo che s’impieghi nell’ornare le nostre chiese parrocchiali, o in soccorso dei poveri, secondo che al Vescovo sembrerà opportuno. Perché essendo ordinato dal diritto che una corta porzione delle decime sia elargita ai poveri, senza dubbio noi siamo tenuti di farne parte a coloro che abbracciano per Gesù Cristo la povertà, con animo di arricchire il mondo dei loro buoni esempi e del dono della celeste dottrina; affinché quelli da cui noi riceviamo le cose temporali, ricevano da noi, direttamente o indirettamente, le cose spirituali. Dato l’anno 1215 dell’Incarnazione del Verbo, regnando in Francia re Filippo, ed essendo Principe di Tolosa il conte di Montfort”.

Quest’atto di munificenza non fu il solo in favore del nascente Ordine dei Frati Predicatori.

In quel tempo, così gli storici, il Signor Simone, conte di Monfort, illustre principe che combatté con la spada materiale gli eretici, ed il Beato Domenico, che li combatté con la spada della divina parola, strinsero fra loro grande familiarità ed amicizia”.

Montfort donò all’amico il castello di Cassanel, nella diocesi d’Agen, con i suoi possedimenti; e prima aveva già confermate numerose donazioni a favore del monastero di Prouille, le cui possessioni da lui medesimo erano state accresciute. Né la stima e l’affezione sua per Domenico si limitarono ai doni; ma pregò ancora il Santo di battezzargli la figlia, fidanzata per alcun tempo all’erede del regno d’Aragona, e di benedire il matrimonio del conte Amanry, suo figlio primogenito con Beatrice, figlia del delfino di Vienna.

Un giorno vedremo Domenico, ormai vecchio, pentirsi di avere accettato temporali, possedimenti; e prima di scendere nel sepolcro, lo vedremo sollecitamente liberarsene come d’un peso che l’opprimeva, lasciando per patrimonio a suoi figli quella sola quotidiana Provvidenza, che è sollecita di ogni laboriosa creatura, e di cui sta scritto: Lascia al Signore la cura della tua vita, ed egli stesso ti nutrirà (Sal 54, 23).

CAPITOLO VI

Secondo viaggio di S. Domenico a Roma Approvazione provvisoria dell’Ordine dei Prati Predicatori fatta da Innocenzo III Incontro di S. Domenico con S. Francesco d’Assisi

Il punto raggiunto da Domenico nell’attuazione del suo ideale gli dava a sperare bene per l’approvazione dell’opera da parte della Sede Apostolica; onde, approfittando dell’occasione del prossimo Concilio Lateranense, nell’autunno del 1215, insieme al Vescovo di Tolosa partì per Roma.

Prima però di licenziarsi dai suoi, fece cosa molto importante, e che tracciò per sempre una delle grandi vie per le quali il suo Ordine avrebbe dovuto avanzare. Era allora in Tolosa un celebre dottore per nome Alessandro, il quale copriva con molta lode una cattedra di Teologia. Un giorno, mentre costui di buon mattino se ne stava nello studio, tutto inteso nelle sue occupazioni, fu preso dal sonno e profondamente si addormentò. Gli parve allora, sognando che sette stelle si appressassero a lui, piccole dapprima, ma poi via via crescenti in grandezza e splendore, da restarne al fine illuminata tutta la Francia ed il mondo intero. Riavutosi da questo sopore quando già era giorno, chiamò i servi che erano soliti portargli i libri, e si avviò alla scuola. Vi era appena arrivato, che Domenico ed i suoi discepoli, vestiti della bianca tunica e della cappa nera dei canonici regolari, a lui si presentarono, qualificandosi per frati banditori del Vangelo ai fedeli ed agli infedeli nel paese di Tolosa, ardentemente desiderosi di ascoltare le sue lezioni. Alessandro si ricordò subito delle sette stelle vedute in sogno; e più tardi, trovandosi alla corte del re d’Inghilterra, quando già l’Ordine dei Frati Predicatori era in grandissima rinomanza, raccontò egli stesso come i primi figli di questa nuova religione erano stati suoi scolari.

Domenico dunque, lasciati a guardia dei suoi discepoli la preghiera e lo studio, partì per Roma. Erano già passati undici anni dacché insieme con Diego vi era stato per la prima volta, pellegrino come lui e come lui inconsapevole del perché Iddio li avesse chiamati così da lontano ai piedi del suo Vicario. Ora invece Domenico riporta al Padre comune della cristianità il frutto della di lui benedizione; e malgrado la morte gli abbia tolto il compagno del suo primo pellegrinaggio, non vi ritorna solo. Era come un destino per lui l’incontrare sempre illustri amici; e mentre la Spagna, sua patria natale, racchiudeva nella tomba l’amico e il protettore della sua giovinezza, la Francia, sua patria adottiva, gli offriva un altro amico e protettore nella persona di Folco. Fu ancora fortuna per Domenico il ritrovare sulla cattedra di S. Pietro Innocenzo III; per quanto questo grande Pontefice non si mostrasse da principio troppo favorevole ai suoi desideri.

Volentieri infatti aveva egli preso sotto la protezione della Chiesa Romana il monastero di Prouille, e ne aveva già spedite le lettere in data dell’8 ottobre 1215; ma di approvare un nuovo ordine consacrato al servizio della Chiesa mediante il ministero della predicazione, non sapeva risolversi; e ciò, a testimonianza degli storici, per due ragioni. In primo luogo perché essendo la predicazione ufficio proprio dei vescovi, successori degli Apostoli, pareva cosa contraria all’antichità affidarne l’incarico ad altro Ordine che non fosse l’episcopale. E’ vero che già da lungo tempo i vescovi cedevano molto volentieri ad altri l’onore di annunciare la parola di Dio; ed il quarto Concilio Lateranense, di recente celebrato, aveva loro ingiunto di affidare, nel caso, il pulpito a sacerdoti degni di rappresentarli. Ma altro era che si provvedesse da ciascun vescovo alla predicazione nella propria diocesi con vicari revocabili a beneplacito, altro affidare il ministero d’annunciare il Vangelo dovunque e per sempre ad un Ordine vivente di vita sua propria. Non era questo fondare un nuovo Ordine apostolico nella Chiesa? E vi può mai essere nella Chiesa altro Ordine apostolico che l’episcopale?

Questa questione suscitata dallo zelo di Domenico, teneva sospeso Innocenzo III. Perché oltre tali ragioni, già forti, considerate dal punto di vista delle usanze, altre ve ne erano avvalorate dall’esperienza stessa e dalla necessità. Certo che l’apostolato era venuto meno nella Chiesa e l’errore aveva fatto progressi appunto per mancanza d’insegnamento sodo e disinteressato; onde i Concili celebratisi nella Linguadoca, durante la guerra albigese, avevano richiamati i vescovi all’adempimento di questo loro dovere. Ma è la grazia di Dio che forma gli apostoli, e non le prescrizioni conciliari; ed i vescovi, tornati dopo quelle assemblee al loro palazzi, ritrovavano facile scusa alla loro inerzia evangelica, nel peso dell’amministrazione della diocesi, negli affari di Stato ai quali dovevano prendere parte, insomma in tutta la resistenza delle consuetudini introdotte, che agli uomini stessi della più forte tempra riesce difficile sopportare. Né era cosa più agevole trovare chi li sostituisse nel ministero della predicazione; poiché non si può dire così all’improvviso ad un prete: sii apostolo!

Lo spirito apostolico è il frutto di un genere di vita tutto particolare. Nella Chiesa nascente era più comune, perché c’era il mondo da conquistare, e tutti gli spiriti si sentivano come invitati ad un genere di azione che conduceva a tal meta; quando invece la Chiesa fu Signora delle nazioni, il ministero pastorale prevalse sull’apostolico, e si ebbe di mira piuttosto di conservare che di estendere il regno di Gesù Cristo. Ma per una legge costante in tutte le cose create, là ove cessa il progresso, subentra la morte.

Il sistema di conservazione, che può bastare alla maggior parte delle intelligenze, è incapace di frenare certe anime ardenti, le quali sdegnano una fedeltà che non le spinga innanzi, come i soldati che si annoiano di trovarsi trincerati in un campo senza mai scontrarsi con il nemico. Tali anime, isolate dapprima, e poi raccolte segretamente insieme, acquistano, senza avvedersene, quell’energia che ancora loro mancava, fino al giorno che credendosi abbastanza forti contro la Chiesa, le ricordano con improvvisa comparsa, che la verità non signoreggia quaggiù gli spiriti se non a condizione di non cessare mai dal conquistarli. E le condizioni dell’Europa facevano sentire anche troppo vivamente ad Innocenzo III questa legge dell’umanità. Doveva egli rifiutare il soccorso che gli veniva offerto così a proposito? Doveva resistere al soffio di Dio, che pur suscitando degni vescovi nella sua Chiesa, aggiungeva a loro cooperatori una corporazione di religiosi?

Ma più che altro, quello che inceppava in tale questione ogni libertà di pensare era un decreto del Concilio di Laterano, in cui per evitare la confusione e tutti i mali che derivavano dal moltiplicarsi degli Ordini monastici, il Concilio aveva stabilito che non si permettessero altre fondazioni di nuovi istituti. Era conveniente andar così presto contro una decisione tanto solenne?

Iddio però che presta alla Chiesa Romana tale assistenza, di cui la comunità medesima è una delle meraviglie visibili della di Lui sapienza, dopo aver provato con un’ultima tribolazione il suo servo Domenico, pose termine alle incertezze d’Innocenzo III.

Una notte il Pontefice mentre dormiva nel palazzo di S. Giovanni in Laterano, vide in sogno la basilica che stava per rovinare, e Domenico lì con le sue spalle a puntellarne le mura cadenti. Bastò quest’ispirazione per rivelare ad Innocenzo il volere di Dio; e mandato subito a chiamare l’uomo apostolico, gli ordinò di tornarsene senz’altro in Linguadoca, e di scegliere d’accordo con i suoi quella regola, fra le antiche, che più sembrasse confacente alla nuova milizia di cui egli desiderava arricchire la Chiesa. Felice trovata d’Innocenzo per salvare il decreto del Concilio di Laterano e dare insieme ad un’idea tutta nuova l’impronta e la protezione dell’antichità.

Domenico provò a Roma un’altra gioia vivissima. Egli non era il solo eletto dalla Provvidenza ad arrestare in quei tempi critici il decadimento della Chiesa; e mentre egli ravvivava il fiume della parola apostolica alle sante e profonde sorgenti del suo cuore, un altro uomo aveva ricevuto la missione di risuscitare in mezzo ad un’opulenza corruttrice la stima e la pratica della povertà. Questo sublime innamorato di Gesù Cristo spuntò alle pendici delle montagne dell’Umbria, nella città di Assisi, figlio d’un ricco ed avaro mercante. Perché aveva imparato bene la lingua francese onde sbrigare meglio gl’interessi del padre, fu chiamato Francesco, nome che non è quello di nascita, né quello di battesimo. Nell’età di ventiquattro anni, dopo un viaggio fatto a Roma, lo Spirito del Signore che più volte l’aveva stimolato, pienamente a sé lo attrasse. Condotto da suo padre dinanzi al vescovo d’Assisi acciocchè rinunciasse a tutti i diritti di famiglia, l’eroico giovane spogliatosi delle stesse vesti che aveva indosso, le depose al piedi del Vescovo con queste parole: “Ora sì, ch’io potrò dire con tutta verità: O Padre nostro che sei nel cielo!”. E dopo questo fatto, assistendo un giorno al santo Sacrificio della Messa, provò tanta gioia alla lettura di quel tratto di Vangelo dove Gesù Cristo raccomanda agli apostoli di non possedere né oro, né argento, né bisaccia per viaggio, e neppure due tonache, né scarpe, né bastone, che levatosi tosto le scarpe dai piedi, e lasciato il bastone, gettò via con orrore quel poco di denaro che gli era rimasto e per tutto il rimanente della sua vita uniche vestimenta furono un paio di mutande, un sacco ed una corda. E temé di possedere ancora troppo; talché prima di morire alla presenza dei suoi frati si fece porre nudo sul pavimento, come al principio della sua totale conversione a Dio s’era spogliato di tutto davanti al Vescovo d’Assisi.

Queste cose avvenivano mentre Domenico a rischio della propria vita evangelizzava la Linguadoca, e schiacciava l’eresia con i successi del suo apostolato. Una, meravigliosa corrispondenza correva già fra questi due grandi, senza che essi neppur lo sospettassero; e la comunanza dei loro destini si ripercosse anche negli avvenimenti che dopo la morte li seguirono. Domenico, maggiore in età di dodici anni e preparato in forma più solenne alla sua missione, fu raggiunto a tempo dal suo fratello più giovane, il quale non aveva avuto bisogno di frequentare Università per apprendere la scienza della povertà e dell’amore.

Quasi nel medesimo tempo in cui Domenico gettava a Notre-Dame di Prouille, alle falde dei Pirenei, le fondamenta del suo Ordine, Francesco faceva altrettanto a S. Maria degli Angeli, ai piedi degli Appennini, ed un antico santuario della beata Vergine Madre di Dio addiveniva, così per l’uno come per l’altro, l’umile e preziosa pietra angolare del loro edificio. Notre-Dame di Prouille! ecco il luogo prediletto da Domenico. Santa Maria degli Angeli! ecco il lembo di terra per cui Francesco ha riservato un grado particolare d’affezione nell’immensità del suo cuore distaccato da ogni cosa quaggiù. Ambedue avevano cominciata la loro vita pubblica con un pellegrinaggio a Roma; ambedue ora ci sono tornati per far premure al Pontefice affinché approvi gli Ordini da loro stabiliti. Innocenzo dapprima si rifiutò per entrambi; ma da una stessa visione fu poi indotto a concedere a voce a tutti e due una provvisoria approvazione.

Domenico e Francesco sotto l’austera flessibilità delle loro regole raccolsero allora uomini, donne e gente ancora del secolo, formando di tre ordini una sola potenza che pugnasse per Nostro Signor Gesù Cristo con tutte le armi della natura e della grazia; ed in questo solo si distinsero, che Domenico cominciò dalle donne e Francesco dagli uomini. Lo stesso Pontefice, Onorio III, confermò con bolle apostoliche i loro istituti; lo stesso Pontefice, Gregorio IX, li dichiarò Santi entrambi; e sulle loro tombe fiorirono i due più grandi dottori di tutti i secoli: S. Tommaso su quella di Domenico, e S. Bonaventura su quella di Francesco.

Eppure questi due uomini i cui destini nel cielo come sulla terra furono congiunti con tanta meravigliosa corrispondenza, al punto in cui siamo della nostra storia ancora non si conoscevano. Presenti ambedue in Roma durante il quarto Concilio Lateranense, non pare che il nome dell’uno fosse mai pervenuto alle orecchie dell’altro. Una notte però, stando Domenico secondo il consueto in orazione, gli apparve Gesù Cristo sdegnato con il mondo, e la divina sua Madre, che, per placarlo, gli presentava due uomini. In uno di questi Domenico riconobbe se stesso; chi fosse l’altro non riuscì a determinarlo; ma lo fissò così bene che gliene rimase vivamente impressa nella memoria la fisionomia. Il giorno seguente trovandosi, non si sa bene in quale chiesa, riconobbe sotto il sacco di un mendicante, quella figura stessa che nella notte, gli era stata mostrata. Fu allora che correndo incontro a quel povero, se lo strinse con santa effusione fra le braccia, esclamando: “Tu sei il mio compagno e camminerai insieme con me. Stiamo uniti, e nessuno contro di noi prevarrà!”. E raccontatagli la visione, i loro cuori si fusero insieme tra i più affettuosi abbracci e soavi discorsi.

Come rami rigogliosi di due piante eguali di tempo e di forza, si dilatarono insieme nel mondo; come due gemelli riposano sul seno dell’unica loro madre, così essi si acquistarono e si divisero l’affezione dei popoli, elevandosi insieme verso Dio, come due preziosi profumi leggermente salgono ad uno stesso punto del cielo. Ogni anno, a Roma, il giorno della festa di S. Domenico alcune vetture partono dal convento di Santa Maria sopra Minerva, dove il P. Generale dei Domenicani ha la sua residenza, e vanno al convento d’Ara-coeli a prendere il P. Generale dei Francescani. Questi, accompagnato da un bel numero dei suoi frati, giunge alla Minerva; e Domenicani e Francescani schierati in due file parallele si recano all’altare maggiore, dove ricambiatosi il saluto, i primi si ritirano in coro, gli altri rimangono all’altare per celebrarvi l’Ufficio dell’amico del Padre loro. Siedono poi alla stessa mensa, prendono insieme quel pane che per ben sei secoli non è mai loro mancato; e terminata la refezione, il cantore dei Frati Minori e quello dei Frati Predicatori cantano insieme nel mezzo del refettorio quest’antifona: “Il serafico Francesco e l’apostolico Domenico, ci hanno insegnata la tua legge, o Signore”. Tali cerimonie si rinnovano al convento d’Ara-coeli il giorno della festa di S. Francesco; come pure qualche cosa di simile avviene dovunque un convento di Domenicani sia così vicino a quello di Francescani, da permettere ai cenobiti di attestarsi con un segno visibile il pio ed ereditario amore che insieme li lega.

CAPITOLO VII

Riunione di S. Domenico e dei suoi compagni a Notre-Dame di Prouille Regola e Costituzioni dei Frati Predicatori Fondazione del convento di S. Romano a Tolosa

Durante l’assenza di Domenico, Iddio ne aveva benedetto e moltiplicato il gregge. I sei discepoli lasciati in Tolosa alla sua partenza nella casa di Pietro Cellani, avevano raggiunto al ritorno il numero di quindici o sedici. Dopo le prime espansioni del cuore, diede loro appuntamento per Notre-Dame di Prouille, onde deliberare sulla scelta della regola, conforme agli ordini del Pontefice. Fino allora, vale a dire fino alla primavera del 1216, la piccola comunità non aveva avuto che un assetto provvisorio e indeterminato, essendosi occupato Domenico ad operare piuttosto che a scrivere; sull’esempio di Gesù Cristo, il quale con la parola e con l’esempio, non con regole scritte, preparò gli apostoli alla loro missione.

Ma l’ora era giunta di stabilire la legislazione della famiglia domenicana; perché senza leggi, le quali assecondino le osservanze, è impossibile perpetuarne la tradizione. Domenico, già padre, doveva ora farsi legislatore; e dopo aver tratto fuori dal suo seno una generazione di uomini simili a sé, era d’uopo provvedere alla loro fecondità, e armarli contro il tempo avvenire di quella forza misteriosa, che dona alle istituzioni l’immortalità.

Se la conservazione di una stirpe per mezzo dei legami della carne e del sangue è pur saggio di abilità e di virtù, se la fondazione degli imperi segna l’apogeo del genio umano, che cosa non si richiederà per stabilire una società semplicemente spirituale, che astrae nella sua vitalità dalle affezioni della natura, né si affida alla difesa della spada e dello scudo? Gli antichi legislatori fedeli al loro incarico, che si risolveva poi in realtà, cercarono di edificare le nazioni sopra qualche cosa di divino. Domenico, nato sotto il regno di Cristo, quando la pienezza del medioevo stava subentrando alle rovine, non ebbe bisogno di nuovi legislatori per esser veritiero. Egli prima di farsi ardito di tracciare con mano mortale una regola, era andato a prostrarsi ai piedi dei santi ed implorare dalla più sublime paternità visibile quella benedizione che è germe d’immortalità; ritiratosi poi nella solitudine, sotto la protezione di Colei che fu madre senza cessare di esser vergine, stava supplicando ardentemente Iddio perché gli infondesse parte di quello spirito, che stabilì la Chiesa Cattolica sopra incrollabili fondamenta.

Due uomini, nati alla distanza di un secolo l’uno dall’altro, S. Agostino e S. Benedetto, erano stati in Occidente i patriarchi della vita religiosa; nessuno dei due però si era proposto lo scopo cui mirava Domenico. Sant’Agostino, poco dopo convertito, si rinchiuse in una casa di Tagaste, sua città natale, per dedicarsi tutto con alcuni amici allo studio e alle contemplazioni delle cose divine. Elevato più tardi al sacerdozio fondò in Ippona un altro monastero; reminiscenza anche questo, pari al primo, di quei famosi istituti cenobitici di cui S. Antonio, e S. Basilio erano stati gli architetti. Successo poi al vecchio Valerio nella cattedra episcopale d’Ippona, pensò altrimenti; senza però che in lui mutasse l’ardente amore che lo traeva ad incatenare la sua vita con i vincoli della fraternità. Aprì la sua casa al clero d’Ippona, e sull’esempio di S. Atanasio e di S. Eusebio di Vercelli, imitatori essi stessi degli Apostoli, fece una sola comunità dei suoi cooperatori. Fu da questo monastero episcopale che trassero origine e forma i Canonici Regolari; come da quello di Tagaste i religiosi conosciuti sotto il nome di Eremitani di Sant’Agostino. Quanto a S. Benedetto, non avendo egli avuto di mira che di risuscitare la vita claustrale, condivisa fra il canto del coro ed il lavoro manuale, l’opera da lui stabilita ancor più manifestamente era aliena dallo scopo di Domenico.

Pertanto, obbligato a scegliersi il patriarca fra i due grandi uomini, Domenico preferì S. Agostino. E la ragione è evidente. Per quanto l’illustre Vescovo non avesse avuto in mente d’istituire un Ordine apostolico, pure era stato egli stesso un dottore ed un apostolo, che aveva speso la sua vita nell’annunciare la divina parola e nel difenderne l’integrità contro tutti gli eretici dei suoi tempi. Qual patrono migliore dunque per il nascente Ordine dei Frati Predicatori?

Si aggiunga che per Domenico, vissuto molti anni nel capitolo regolare di Osma, tal patronato non riusciva del tutto nuovo; sicché a tale scelta, oltre le convenienze con la nuova vocazione, concorrevano ancora le reminiscenze della vita trascorsa. La regola poi di S. Agostino, e ciò bisogna notarlo, possiede, a preferenza delle altre, il singolare privilegio di non essere che una semplice esposizione dei doveri fondamentali della vita religiosa. Nessuna forma di governo ivi è tracciata, non prescritta alcuna osservanza, tranne la comunanza dei beni, la frugalità, la preghiera, la custodia dei sensi, la correzione fraterna dei difetti, l’obbedienza al superiore del monastero, e soprattutto la carità, di cui il nome e l’unzione riempiono quelle ammirabili, ma troppo poche pagine.

Domenico dunque conformandosi a tali prescrizioni, non faceva propriamente che accettare il giogo stesso dei consigli evangelici; ed il suo ideale rimaneva sempre perfettamente libero, benché circoscritto da alcune linee tracciate da mano, la quale più che un chiostro, sembrava aver voluto creare una città. Non restava dunque che innalzare l’edificio particolare dei Frati Predicatori dentro la cinta di questa città comune, all’ombra delle vetuste sue mura.

Senonché fin da principio si presentava un grave quesito: dovrà un Ordine tutto consacrato all’apostolato adottare le costumanze monastiche; oppure, tralasciando nella maggior parte gli usi claustrali, informarsi alla vita più libera del sacerdozio secolare? Non si trattava. come è evidente, dei tre voti di povertà, di castità, e d’obbedienza, senza i quali una società spirituale non può sussistere, come un popolo senza l’imposizione delle imposte, senza la castità matrimoniale e l’obbedienza alle stesse leggi sotto un medesimo capo. Ma la recita pubblica del divino ufficio, l’astinenza continua dalle carni, i lunghi digiuni, il silenzio, il capitolo delle colpe, le penitenze per le trasgressioni della regola, il lavoro manuale erano queste pratiche da doversi conservare, come confacenti allo scopo dell’apostolato? Tale disciplina austera, buona a formare il cuore solitario del monaco e a santificare gli ozi della sua vita, era conciliabile con l’eroica libertà dell’apostolo, che va spargendo innanzi a sé, a destra e a sinistra, il buon seme della verità? Domenico lo credette.

Sostituito quindi lo studio della scienza divina al lavoro manuale, mitigata la severità di alcune osservanze, dispensandone anche, quando occorresse, i religiosi addetti in modo particolare all’insegnamento ed alla predicazione, quanto al resto fu d’avviso che sarebbe stato possibile conciliare le osservanze monastiche con la vita apostolica; e forse l’idea di tale separazione non gli si affacciò neppure alla mente. Perché l’apostolo non è solo un uomo che sa ed insegna per mezzo della parola soltanto; ma è un uomo che predica il cristianesimo con tutto se stesso, la cui sola presenza deve essere già un’apparizione di Gesù Cristo. Qual cosa dunque più efficace ad imprimere in lui le sacre stimmate di questa rassomiglianza con il Cristo, delle austerità del chiostro? Domenico stesso non era un assieme di monaco e apostolo? Studiare, pregare, predicare, digiunare, dormire per terra, camminare a piedi, passare dall’atteggiamento di penitente a quello di propagandista era stata la sua vita di tutti i giorni. Chi dunque poteva conoscere meglio di lui tutte le affinità del deserto e dell’apostolato?

Fu così che a Prouille si stette per le tradizioni monastiche, fatte solo alcune modificazioni, di cui la più importante fu, “che ciascun superiore nel proprio convento avesse facoltà di dispensare i suoi frati, qualora lo giudicasse opportuno, dalle osservanze comuni e principalmente da quelle che fossero d’impedimento allo studio, alla predicazione, al bene delle anime; essendo l’Ordine istituito fin dalla sua origine per la predicazione e per la salvezza delle anime, e dovendo tutti i loro sforzi essere ordinati al profitto del prossimo”. Ecco perché venne determinato che l’ufficio divino si recitasse in chiesa brevemente e succintamente, affine di non scemare la devozione nei frati e non impedire lo studio; che in viaggio i frati fossero dispensati dai digiuni della regola, eccettuato il tempo d’Avvento, alcune vigilie e il venerdì di ogni settimana; che fuori di convento potessero mangiar carne; che non fossero tenuti ad un assoluto silenzio; che potessero comunicare con gli estranei anche nell’interno del monastero, se ne eccettui le donne; che un certo numero di studenti fosse mandato alle più celebri Università; che si potessero ricevere gradi accademici ed aprire scuole: cose tutte che senza distruggere nel Frate Predicatore l’uomo monastico, lo elevano al grado di uomo apostolico.

Riguardo al regime fu stabilito che ogni convento fosse governato da un Priore, ciascuna provincia, composta di un dato numero di conventi, da un Provinciale; e tutto l’Ordine da un solo capo, che prese poi il nome di Maestro Generale. L’autorità scesa dall’alto e rannodata al trono stesso del Sommo Pontefice avrebbe consolidati tutti i gradi di questa gerarchia, mentre l’elezione dal basso risalendo all’alto avrebbe mantenuto fra chi comanda e chi obbedisce lo spirito di fraterna concordia, rifulgendo così sulla fronte di ogni depositario del potere un doppio carattere: la scelta dei suoi confratelli, e la conferma della suprema autorità. Ciascun convento quindi eleggerebbe il suo Priore; la provincia, rappresentata dai Priori e da un deputato di ogni convento, il Provinciale; tutto l’Ordine, rappresentato dai Provinciali e da due deputati per ciascuna provincia, il Maestro Generale. Viceversa al Maestro Generale sarebbe riservato il diritto di confermare i superiori provinciali, ed a questi i conventuali. Tutti gli uffici poi, ad eccezione del supremo, sarebbero temporanei, affinché la provvidenza della stabilità fosse congiunta all’emulazione che si trova nel cambiamento. Capitoli generali, tenuti a non lungo intervallo, controbilancerebbero la potestà del Maestro Generale; capitoli provinciali, quella del superiore Provinciale; il Priore conventuale poi negli affari più importanti del suo ufficio sarebbe assistito da un consiglio di Padri. L’esperienza ha confermato la saggezza di questa forma di governo con cui l’Ordine dei Frati Predicatori ha liberamente raggiunto i suoi destini, lontano così dalla licenza come dall’oppressione, e professando per l’autorità quel sincero rispetto collegato a un che di franco e di naturale, che rivela a prima vista il cristiano libero dal timore per l’amore. La maggior parte degli Ordini religiosi furono soggetti a riforme che li divisero in diversi rami: quello dei Frati Predicatori, sempre il medesimo, ha traversato le vicissitudini di sei secoli di esistenza, per tutto il mondo ha steso i vigorosi suoi rami, senza che neppure uno si sia mai staccato dal tronco che lo aveva nutrito.

Restava a risolversi la questione del come l’Ordine avrebbe provveduto al suo sostentamento. Domenico, fin dal primo giorno del suo apostolato si era affidato alla divina Provvidenza, vivendo giorno per giorno di elemosine, e riversando a vantaggio del monastero di Prouille quanto gli fosse stato offerto in più dei bisogni del momento. Non era stato se non dopo l’aumento della sua famiglia spirituale che aveva accettato da Folco la sesta parte delle decime della diocesi di Tolosa, e dal conte di Montfort la terra di Cassanel. Tutte le sue reminiscenze però, tutto il suo cuore erano per la povertà. Troppo gli stavano dinanzi le piaghe che l’opulenza aveva generate nella Chiesa, per poter desiderare al suo Ordine altra ricchezza all’infuori della virtù. Nondimeno, quanto al punto di dichiararsi mendicanti, l’assemblea di Prouille sospese la decisione. Domenico ebbe forse timore che Roma opponesse ostacoli ad un pensiero così ardito; onde amò meglio rimettere la cosa a tempo più opportuno.

Furono queste le leggi fondamentali, consacrate dai patriarchi dell’istituto domenicano. Paragonate con quelle dei Canonici Premostratensi appaiono ad esse così rassomiglianti, quantunque, il fine sia diverso, da attestarci chiaramente come Domenico avesse intimamente studiata l’opera di S. Norberto; e l’occasione l’ebbe forse, nel capitolo di Osma, alla cui riforma molto probabilmente servì di prototipo quello di Prémontré.

Folco frattanto, sempre pronto a favorire i disegni di Domenico, gli donò tutte insieme tre chiese: una a Tolosa, sotto il titolo di S. Romano martire; un’altra a Pamiers, ed una terza situata fra Sorèse e Puy-Laurens, conosciuta sotto il nome di Notre-Dame di Lescure, affinché accanto a ciascuna sorgesse un convento di Frati Predicatori; ma l’ultima non lo ebbe mai, e quella di Pamiers molto tardi, cioè l’anno 1269.

Era conveniente, l’abbiamo già notato, che Tolosa, la grande città dell’eresia, avesse visto per prima fra le sue mura un convento di domenicani. Però sebbene i discepoli di Domenico fossero già da un anno ivi riuniti in una medesima abitazione, pure la loro casa non aveva altro di monastico, se non la vita che vi si menava; la necessità quindi di mettere l’abitazione in corrispondenza alla vita vieppiù s’imponeva. A lato dunque della chiesa di S. Romano si fabbricò con sollecitudine un modesto chiostro. – Il chiostro è un cortile intorniato da un portico. In mezzo a questo cortile, doveva sorgere sempre, giusta le antiche tradizioni, un pozzo, simbolo di quell’acqua viva della Scrittura che zampilla a vita eterna; sotto il pavimento del portico si scavavano sepolcri; lungo le mura si incidevano iscrizioni funerarie; nell’arco formato dal piegare delle volte si dipingevano le gesta dei santi dell’Ordine o del monastero. Questo luogo era sacro e i religiosi stessi non vi passeggiavano se non in silenzio e con la mente occupata dal pensiero della morte e della memoria dei loro predecessori. Attorno a questa seria galleria che metteva alla chiesa per due porte, l’una rispondente al coro, l’altra alla navata, erano la sacrestia, il refettorio e le grandi sale comuni. Una scala conduceva ai piani superiori costruiti al disopra del portico e sulla medesima pianta. Dal fondo dei quattro corridoi, per quattro grandi finestre, vi entrava largamente la luce, e quattro lampade vi spandevano i loro raggi la notte. Lungo questi corridoi alti e larghi, decenti, ma non di lusso, l’occhio meravigliato scopriva a dritta e a manca una lunga fila simmetrica di porte perfettamente eguali, e nello spazio tra l’una e l’altra vecchi quadri, carte geografiche, piante di città e di antichi castelli, la tavola dei monasteri dell’Ordine, e mille semplici rimembranze della terra e del cielo.

Al suono di una campana tutte quelle porte si aprivano dolcemente e con rispetto. Canuti e sereni vegliardi, uomini di precoce maturità e giovanetti ai quali la penitenza e il fiore degli anni davano un’aria di bellezza incognita al mondo, tutte insomma le stagioni della vita ne uscivano e si mostravano insieme sotto una medesima divisa. Povera la celletta di quei cenobiti e tanto larga da bastare appena a contenere un letto di paglia o di crine, un tavolino e due seggiole: un crocifisso e qualche immagine sacra n’erano il solo ornamento. Da questo sepolcro ove il religioso abitava nel corso dei suoi anni mortali, egli passava a quello che precede l’immortalità, senza essere neppure allora separato dai suoi fratelli, fossero vivi o morti. Si seppelliva vestito dei suoi abiti sotto il pavimento del coro, e la sua polvere si mescolava con quella dei suoi predecessori, mentre le laudi del Signore, cantate dai contemporanei e dai discendenti parevano destare quelle fredde reliquie e richiamarvi la vita. O care e sante magioni! Furono edificati superbi palazzi, magnifici sepolcri, e templi degni della divinità si elevarono sulla faccia della terra: ma un monastero è la bella creazione dell’arte e del sentimento. Quello di S. Romano non fu abitabile che alla fine del mese di agosto del 1216. Nella sua struttura fu assai modesto: le celle misuravano sei piedi di larghezza, e poco meno di lunghezza; i tramezzi non oltrepassavano l’altezza di un uomo affinché i frati mentre attendevano liberamente alle loro occupazioni, fossero in qualche modo sempre fra loro uniti; il mobilio poi era il più ordinario. L’Ordine conservò questo convento fino all’anno 1232; epoca in cui i Domenicani di Tolosa si trasferirono in un convento e in una chiesa più vasti, dove rimasero fino a che ne furono scacciati dalla rivoluzione francese.

Ora quei magnifici avanzi servono di caserma e, di magazzino!

CAPITOLO VIII

Terzo viaggio di S. Domenico a Roma. Conferma dell’Ordine dei Frati Predicatori. Predicazione di S. Domenico nel palazzo del Papa.

Mentre sotto gli occhi stessi di S. Domenico si stava fabbricando con tutta sollecitudine il convento di San Romano, giunse ad attristare il cuore del Santo Patriarca la notizia inaspettata che Innocenzo III era morto a Perugia il 16 luglio, e due giorni appresso, eletto in fretta e furia, era asceso al soglio pontificio il cardinale Conti, dell’antica stirpe dei Sabelli con il nome di Onorio III. Così, oltre a venire a mancare un valido sostenitore dell’opera domenicana, si paravano ancora dinanzi tutti gl’intoppi di una nuova corte. Innocenzo III era uno di quei pochi che la Provvidenza aveva mandati quali apprezzatori e sostenitori di Domenico; della tempra anch’egli degli Azevedo, dei Folchi, dei Montfort, generosa costellazione, astri che l’un dopo l’altro si andavano eclissando, Azevedo era scomparso per primo, e con lui l’ordine dei suoi eroici disegni. Ed ora che Domenico ne aveva con grande stento riallacciate le fila sotto gli auspici di Innocenzo III, anche questo gran Papa moriva, senza aver consumata l’impresa a cui si era ripromesso mettere l’ultimo suggello. Questa prova però fu di poca durata. Domenico, rivalicato le Alpi per la terza volta, malgrado le difficoltà di un nuovo governo, ottenne prontamente dal Pontefice il premio dovuto alle sue lunghe fatiche. Il 22 dicembre del 1216 il suo Ordine fu solennemente confermato con due bolle di questo tenore:

Onorio vescovo, servo dei servi di Dio, ai suoi cari figli Domenico, priore di S. Romano di Tolosa, ed ai fratelli presenti e futuri che professeranno vita regolare, salute ed apostolica benedizione. Essendo ottima cosa porre sotto l’apostolica protezione coloro che si danno alla vita religiosa, affinché temerari assalti non li distolgano dai loro disegni, e non infrangano, che Dio ne liberi, i santi legami della religione; per questo, o cari figli nel Signore, noi volentieri acconsentendo alle vostre giuste richieste, con la presente riceviamo sotto la protezione del Beato Apostolo Pietro e nostra la chiesa di S. Romano di Tolosa, nella quale voi vi siete consacrati al servizio divino. Noi vogliamo in, primo luogo che l’Ordine fondato canonicamente in detta chiesa secondo l’ispirazione di Dio e la regola di S. Agostino, sempre ed inviolabilmente sia rispettato; inoltre, che i beni giustamente acquistati dalla chiesa, o che in seguito possano acquistarsi per concessioni di pontefici, per generosità di re e di principi, per elargizioni di fedeli, o in qualunque altro legittimo modo, siano inviolabili nelle vostre mani, ed in quelle dei vostri successori. Abbiamo ancora creduto opportuno nominare distintamente i seguenti possedimenti cioè: il luogo ove è fabbricata la chiesa di S. Romano con tutte le sue pertinenze; la chiesa di Prouille e sue pertinenze, la tenuta di Cassanel, la chiesa di Notre-Dame de Lescure e sue pertinenze, l’Ospedale di Tolosa, chiamato Arnaldo Berard, parimenti con le sue pertinenze, la chiesa della SS. Trinità di Lobens e sue pertinenze, e le decime che il venerabile nostro fratello Folco, vescovo di Tolosa, nella sua caritatevole e previdente liberalità, di consenso con il suo Capitolo, vi ha concesso, come dagli Atti risulta. Nessuno poi presuma di esigere decime da voi, sia sui campi che coltivate voi stessi o a vostre spese, come pure sui prodotti del bestiame. Vi permettiamo di ricevere e ritenere presso di voi, senza timore di esserne poi rimproverati, chierici e laici desiderosi di lasciare il secolo, purché non siano stretti da altri giuramenti. Proibiamo ai vostri fratelli che hanno fatta la professione, di obbligarsi ad altri voti senza il permesso del loro Priore, salvo il caso che si tratti di entrare in una religione più austera, e proibiamo a chicchessia di riceverli senza il vostro consenso. Voi provvederete al servizio delle chiese parrocchiali che vi appartengono, scegliendo e presentando al vescovo diocesano preti degni di ricevere da lui la cura delle anime; i quali dipenderanno dal Vescovo quanto alle cose spirituali, da voi quanto alle temporali. Proibiamo che alla vostra chiesa siano imposti oneri nuovi ed insoliti; né contro di essa, né contro di voi sarà lecito fulminare sentenze d’interdetto o di scomunica, tranne il caso di motivi patenti e ragionevoli. Se verrà fulminato qualche interdetto generale, voi potrete tuttavia celebrare i divini uffici, ma a voce bassa, senza suono di campane, a porte chiuse e dopo averne fatti uscire gli scomunicati e gl’interdetti. Per la Cresima, per l’Olio Santo, per la consacrazione degli altari, per l’ordinazione dei vostri chierici vi rivolgerete al vescovo diocesano, se cattolico, nella grazia e comunione della S. Sede, ed accondiscenda a prestare tutto senza condizioni ingiuste; altrimenti potrete rivolgervi a qualunque altro vescovo cattolico vi piacerà, purché nella grazia e comunione della S. Sede; ed egli in virtù della nostra autorità potrà soddisfare alle vostre richieste. Vi concediamo la libertà di seppellire nelle vostre chiese, ordinando che nessuno si opponga alla devozione ed all’ultima volontà di coloro che vorranno esservi sepolti, a meno che fossero scomunicati o interdetti, e salvi i diritti delle chiese a cui appartiene il trasporto dei defunti. Alla morte vostra o a quella dei vostri successori nessuno pretenda di ascendere al comando nella carica di Priore di codesto luogo con intrighi o violenze, ma solo colui che, secondo il volere di Dio e la regola di S. Agostino, sarà stato eletto con il consenso di tutti o almeno della maggiore e più rispettabile parte dei suoi fratelli. Noi ratifichiamo ancora le libertà, le immunità e le consuetudini ragionevoli introdotte nella vostra chiesa o conservate fino ad oggi, volendo che siano per sempre inviolabili. Che nessuno dunque osi molestare codesta chiesa, appropriarsi e ritenere i suoi beni, diminuirli o farne oggetto di vessazione; ma rimangano intatti, ad uso e sostentamento di coloro in favore dei quali sono stati ceduti, salvo l’autorità apostolica e ciò che, secondo i canoni, spetta al Vescovo diocesano.

Se alcuno, ecclesiastico o secolare, pur conoscendo questa nostra costituzione, non temesse d’infrangerla, ed avvertito una seconda ed una terza volta ricusasse di dare soddisfazione, sia privato di ogni potere e di ogni onore, sappia che si è reso colpevole d’iniquità al tribunale di Dio, che sarà quindi separato dalla comunione del Corpo e del Sangue del nostro Dio Signore e Redentore Gesù Cristo, e che l’aspetterà tremenda pena il giorno del giudizio finale. Al contrario la pace del Signor Nostro Gesù Cristo discenda su coloro che rispetteranno i diritti di cotesto luogo; ricevano quaggiù il frutto di una buona azione, dal Giudice poi supremo una ricompensa eterna. Così sia”.

L’altra bolla, documento breve, ma profetico, è così concepita:

Onorio, Vescovo, servo dei servi di Dio, al caro figlio Domenico, Priore di S. Romano di Tolosa, ed a quanti suoi fratelli hanno fatto o faranno professione di vita regolare, salute ed apostolica benedizione. Considerando che i frati del vostro Ordine saranno i campioni della fede e la vera luce del mondo, noi confermiamo il vostro Ordine con tutte le terre e possessioni presenti e future, e prendiamo l’Ordine stesso, con tutti i suoi diritti e tutti i suoi beni, sotto il Nostro governo e la nostra protezione”.

Queste due bolle furono rogate a S. Sabina nel medesimo giorno; e la prima, oltre la firma di Onorio, è sottoscritta da diciotto Cardinali. Peraltro, per quanto si largheggiasse in favori, i voti di Domenico non erano del tutto soddisfatti. Egli desiderava che il nome stesso del suo Ordine fosse testimonio perenne del fine da lui propostosi nel fondarlo. Fin dal principio del suo apostolato egli si era compiaciuto del nome di Predicatore; inoltre da un atto di omaggio al quale egli era intervenuto il 21 giugno 1211, appare come fin d’allora si servisse di un sigillo in cui erano scolpite queste parole: Sigillo di Fra Domenico Predicatore; e nella sua andata a Roma al tempo del Concilio di Laterano, Domenico si era appunto proposto d’ottenere dal Papa, dice il B. Giordano di Sassonia, la conferma di un Ordine i cui membri avessero l’ufficio e il nome di Predicatori. Rimonta pure a tale epoca un fatto notevole. Innocenzo III, che già aveva incoraggiato Domenico all’opera coll’approvarne i suoi disegni, ebbe bisogno di scrivergli; e chiamato un segretario, gli disse:

Scrivete la tal cosa a Fra Domenico ed ai suoi compagni”. Poi riflettuto un poco, soggiunse: “Non scrivete così, ma in quest’altro modo: A fra Domenico e a coloro che predicano con lui nelle contrade di Tolosa”. E fermatosi ancora: “Scrivete così: Al Maestro Domenico et ai Frati Predicatori”.

Ciò nonostante Onorio nelle sue bolle si era astenuto dal dare al nuovo Ordine alcuna denominazione. Fu certo, per riparare a tal silenzio che un mese dopo, il 26 gennaio 1217, dettò la lettera seguente:

Onorio, vescovo, servo dei servi di Dio, ai suoi cari figli, il Priore ed i frati di S. Romano, Predicatori nel Paese di Tolosa, salute ed apostolica benedizione. Noi infinitamente ringraziamo il dispensatore di ogni bene per tutto quello che vi ha concesso, e confidiamo di vedervi perseverare in lui fino alla fine. Divorati internamente dal fuoco della carità, diffondete intorno a voi uno squisito profumo, che rallegra i cuori sani e ristabilisce gli infermi. Da abili medici voi offrite loro delle mandragole spirituali che li preservino dalla sterilità, vale a dire il seme della divina parola, fecondato da una salutare eloquenza. Servitori fedeli, sapete far fruttare il talento che è stato riposto nelle vostre mani, e lo restituite al Padrone con sovrabbondanza. Atleti invincibili di Cristo portate alto lo scudo della fede e l’elmo della salute senza timore di coloro che possono uccidere il corpo, opponendo, da magnanimi, contro i nemici della fede la parola di Dio, che penetra più addentro della spada la più acuta, odiando le vostre anime in questo mondo, per ritrovarle nella vita eterna. E perché non il combattimento, ma il suo fine, è quel che ci onora, e la perseveranza sola raccoglie il frutto di tutte le virtù, noi con queste lettere apostoliche preghiamo e seriamente esortiamo la vostra carità, che per la remissione dei vostri peccati vi fortifichiate sempre più nel Signore, seminiate il Vangelo sempre e dovunque, adempiate insomma pienamente al dovere di Evangelisti. Se per questo vi toccherà a soffrire qualche tribolazione, sopportatela non solo con tranquillità d’animo, ma così allegramente, e gloriatevi coll’Apostolo di essere giudicati degni di soffrire obbrobri per il nome di Gesù. Sono leggere e transitorie afflizioni, pegno d’immensa gloria, a cui i mali del tempo non sono paragonabili. Vi chiediamo inoltre, figli diletti, che stringiamo particolarmente al nostro cuore, d’intercedere per noi presso il Signore con le vostre preghiere, acciocché si degni concedere per vostra intercessione, ciò che per i nostri propri meriti non varremmo ad ottenere”.

Fu così che il nome e l’ufficio di Frati Predicatori furono pontificialmente attribuiti ai religiosi Domenicani; ed è notevole la progressiva gradazione dei tre documenti da noi riferiti. Nella lunga bolla approvata in Concistoro e sottoscritta dai Cardinali, non si parla affatto del fine dell’Ordine. Se ne parla semplicemente come di un Ordine canonicamente stabilito, sotto la regola di S. Agostino. La seconda bolla, nella sua stessa brevità, è più chiara, dando ai figli di Domenico l’appellativo di campioni della fede nel mondo. Il terzo diploma infine dà loro apertamente la qualifica di Predicatori, lodandoli per le loro apostoliche fatiche ed incoraggiandoli per l’avvenire. L’insieme di questi documenti ha dato un po’ da fare agli storici, riuscendo difficile spiegare come il Sommo Pontefice abbia potuto emanare nello stesso giorno due bolle al medesimo scopo; ed hanno congetturato che la prima fosse destinata a conservarsi negli archivi dell’Ordine, la seconda dovesse invece servire ai religiosi come di passaporto giornaliero. Ma un Ordine solennemente approvato dalla Santa Sede, ha egli bisogno di presentarsi sempre dovunque con una bolla alla mano? non è da se stesso la miglior prova della sua autenticità? ed in caso di contestazione non è evidente che il documento necessario sarebbe stato quello contenente le libertà ed i privilegi dell’Ordine, piuttosto che un atto di poche righe, che punto ne determinava la canonica esistenza?

D’altra parte nella progressiva ricognizione dei Frati Predicatori c’è una singolarità tale che fa intravedere un’altra spiegazione. Ci sembra probabile che nella corte pontificia trovasse opposizione l’istituzione d’un Ordine apostolico, e che per questa ragione la bolla principale tacesse affatto intorno allo scopo della nuova religione che veniva autorizzata; ma che poi il Pontefice, sollecitato da Domenico ed ispirato da Dio, sottoscrivesse nello stesso giorno una dichiarazione sul motivo speciale che l’aveva a ciò indotto; ed un mese più tardi credesse opportuno di manifestare liberamente tutto il suo pensiero e la sua volontà. Onorio inoltre, il 7 del seguente febbraio, confermò con apposito breve una disposizione data nella prima lettera, quella cioè che proibiva ai Frati Predicatori di lasciare la propria religione per entrare in un’altra, a meno che non fosse più austera.

Avendo così Domenico ottenuto da Roma tutto che aveva sperato, doveva certo aver fretta di tornate fra i suoi; ma l’imminente quaresima lo trattenne; ed egli ne prese occasione per esercitare nella capitale del mondo cristiano il ministero apostolico che gli era stato affidato. Straordinario ne fu il successo. Nel palazzo stesso del Papa, alla presenza di rispettabili uditori, commentò le lettere di S. Paolo; e ciò dà a conoscere come Domenico, ad eccezione delle controversie con gli eretici, seguisse nella predicazione il metodo stesso dei Padri della Chiesa, spiegando al popolo la Sacra Scrittura, non a frasi spezzate prese qua e là, ma per ordine, in modo che la storia, la morale e il dogma si illustrassero l’un l’altro, e l’ammaestramento fosse il fondo dell’eloquenza. Il pulpito infatti non è che una cattedra di teologia popolare. Di là, per mezzo delle labbra del sacerdote iniziato a tutti i misteri della scienza divina, devono sgorgare sulla terra i fiumi della dottrina eterna con le tradizioni del passato e le speranze dell’avvenire. Secondo il crescere e l’abbassarsi di questi fiumi, crescerà o illanguidirà la fede nel mondo.

Domenico eletto da Dio a ravvivare l’apostolato nella Chiesa, aveva senza dubbio riflettuto alle condizioni proprie della parola evangelica; e a giudicarne dal primo saggio che ne dette a Roma nella piena maturità della Vita, dobbiamo credere che egli desse gran peso all’esposizione ordinata delle sacre lettere. Una memorabile istituzione sta ad attestare il frutto di questa sua predicazione. Perché desiderando il Papa che tutto il bene allora ottenuto non fosse passeggero nel popolo romano e specialmente nella sua corte, a cui quella predicazione era stata particolarmente ordinata, volle farne un ufficio perpetuo con il nome di Maestro del Sacro Palazzo. E Domenico fu il primo ad essere investito di tale carica, ritenuta anche oggi con onore dai suoi discendenti. Anzi con il tempo ne sono cresciuti i privilegi e i doveri; e da semplice predicatore e maestro di spirito in Vaticano, il Maestro del Sacro Palazzo è divenuto il teologo del Papa, il censore generale dei libri che si stampano e s’introducono in Roma, il solo che abbia facoltà nell’Accademia teologica romana di elevare al grado di dottore, quegli che designa chi deve predicare nelle solennità alla presenza del S. Padre: tutte cose importanti, e che portano con sé buon numero di onorifici privilegi; onde tale ufficio giustamente ed invidiabilmente si è trasmesso dall’uno all’altro nei figli di Domenico.

Il santo Patriarca, dietro la fama acquistatasi in Roma con la sua predicazione, ebbe occasione di visitare la casa del Cardinale Ugolino, vescovo di Ostia, venerando vegliardo di settantatre anni, discendente dalla nobile famiglia dei Conti, già da venti anni decorato della porpora, ed amico altresì di S. Francesco d’Assisi, il quale gli presagì la tiara, e più volte gli scrisse in questi termini: Al Reverendissimo padre e signore Ugolino, futuro vescovo di tutto il mondo e padre delle nazioni. Per quanto di età avanzata, Ugolino si sentì attratto verso Domenico come lo era stato verso Francesco; ed il suo cuore, sempre giovane, fu capace di nutrire per ambedue eguale amicizia. E’ privilegio di alcune anime l’esser feconde di caldi affetti fino all’ultima ora; quello di Domenico fu di non perdere un’amicizia che per acquistarne delle altre. Ed il vecchio cardinale Ugolino, destinato a morire quasi centenario sul trono pontificale, fu dato da Dio a Domenico, affinché lo riponesse nella tomba, ne celebrasse i funerali con la pietà di un amico, ne tramandasse ai posteri la memoria, scrivendone il nome, con infallibilità di pontefice, nell’albo dei Santi. Né questi soli furono i frutti di cosi nobile amicizia.

Nella casa del Cardinale vi era un giovane italiano, Guglielmo di Monferrato, venuto a Roma a passarvi le feste di Pasqua. La figura e i modi di Domenico molto l’impressionarono e finirono per condurlo a delle risoluzioni, ch’egli stesso così racconta:

Ecco, sono quasi sedici anni ch’io venni a Roma per passarvi la quaresima, e fui ospite dell’attuale Pontefice, allora Vescovo di Ostia. Fra Domenico, fondatore e Maestro dell’Ordine dei Predicatori, che si trovava allora presso la corte romana, veniva spesso a trovare il Vescovo d’Ostia; così ebbi modo di conoscerlo, e tanto mi piacque la sua conversazione, che presi ad amarlo. Più e più volte parlammo delle cose riguardanti la nostra salvezza e quella degli altri, e mi parve di non essermi mai imbattuto in uomo più religioso di lui, quantunque di santi uomini fin d’allora ne, avessi conosciuti parecchi; ma nessuno mi era apparso ripieno di tanto zelo per la salvezza del genere umano. Nello stesso anno andai a Parigi per studiarvi teologia, dopo aver convenuto fra noi che fra due anni, terminati io gli studi e lui ultimata la fondazione del suo Ordine, saremmo andati insieme ad evangelizzare i pagani, che si trovano nella Persia e nelle regioni del Settentrione”.

Così Domenico si guadagnava ad un tempo il cuore di un vecchio ed il cuore di un giovane, e non aveva appena ottenuto la conferma del suo Ordine, che già pensava ad aprirgli lui stesso le porte del Settentrione e dell’Oriente. La sua anima, quasi a disagio nell’Europa incivilita, si lanciava verso i popoli non ancora illuminati dal cristianesimo; là desiderava di terminare la sua corsa e di suggellare con il martirio il suo apostolato.

Una visione contribuì ad infervorarlo nei suoi propositi. Mentre un giorno pregava in S. Pietro per la conservazione e la propagazione del suo Ordine, fu rapito in estasi, e gli apparvero i due Apostoli Pietro e Paolo: Pietro nell’atto di offrirgli un bastone, Paolo un libro; ed una voce ripeté queste parole: “Vai e predica, poiché a questo sei eletto”; e nel tempo stesso vide i suoi discepoli diffondersi a due a due per tutto il mondo ad evangelizzarlo. Da quel giorno Domenico ebbe il costume di portare sempre con sé le lettere di S. Paolo ed il Vangelo di S. Matteo; e sia nei suoi viaggi, sia ancora per le città camminò sempre con il bastone in mano.

CAPITOLO IX

Nuova riunione dei Frati Predicatori a Notre-Dame di Prouille, e loro diffusione in Europa.

Domenico, partito da Roma dopo le feste di Pasqua dell’anno 1217, con sollecitudine si riunì ai suoi fratelli, giunti al numero di sedici: otto francesi, sette spagnoli ed uno inglese. Guglielmo Claret, Matteo di Francia, Bertrando di Garriga, Tommaso, Pietro Cellani, Stefano di Metz, Natale di Prouille ed Oderico di Normandia erano francesi; ed insieme ai loro nomi, la storia ci ha conservati anche alcuni episodi che ritraggono in qualche modo il carattere della maggior parte di essi.

Guglielmo Claret, nativo di Pamiers, fu uno dei primi compagni di Domenico. Il Vescovo di Osma al suo partire dalla Francia, gli affidò il governo temporale della missione in Linguadoca. Si dice che dopo aver consacrato all’Ordine più di vent’anni di vita, facesse nuovi voti nell’abbazia di Bolbonne fra i Cistercensi, e s’impegnasse ancora perché il monastero di Prouille fosse a loro ceduto.

Matteo di Francia aveva passata la sua giovinezza nelle scuole di Parigi. Il conte di Montfort lo creò Priore della collegiata di S. Vincenzo di Castres; fu là che fece conoscenza con Domenico, anzi si diede interamente a lui, quando lo vide un giorno in estasi sollevarsi da terra. Matteo fu il fondatore del famoso convento di S. Giacomo di Parigi, ed il suo corpo riposa ora nel coro di quella Chiesa, a piè dello stallo da lui occupato come Priore del monastero.

Bertrando di Garriga, chiamato così dal luogo di nascita, un piccolo borgo della Linguadoca vicino ad Alais, fu uomo di straordinaria austerità. Domenico gli consigliò un giorno di piangere poco i suoi peccati, e molto quelli degli altri: nell’ultimo suo viaggio in Italia gli confidò ancora il governo di S. Romano. Bertrando morì nel 1230, e fu sepolto ad Orange in un monastero di monache. Le sue reliquie operarono miracoli; e nel 1427 per ordine del papa Martino V, furono trasferite al convento dei frati Predicatori della stessa città.

Tommaso era un distinto cittadino di Tolosa, designato dal B. Giordano di Sassonia per uomo pieno di grazia e di eloquenza. Si fece discepolo di Domenico l’anno 1215, contemporaneamente a Pietro Cellani, suo concittadino. Quest’ultimo, giovane, ricco, onorato, nobile di cuore più ancora che di natali, offrì, a Domenico in uno stesso giorno e la sua persona e la sua casa. Fu il fondatore del convento di Limoges. La più grande venerazione l’accompagnò fino alla tomba, dove discese l’anno 1257, dopo avere esercitato in tempi difficilissimi l’ufficio d’inquisitore a lui affidato da Gregorio IX.

Stefano di Metz fin dall’anno 1213 si trovava insieme con Domenico a Carcassona; fondò il convento di Metz, da cui prese la denominazione, che lo distingue nella storia.

Nulla di notevole è rimasto riguardo a Natale di Prouille.

Oderico di Normandia fu il primo fratello converso dell’Ordine.

Questi gli elementi francesi della famiglia Domenicana d’allora. Pochi di numero; ma di un’azione così operosa ed estesa, da potersi ben dire che la Francia sia stata la miniera donde pescò il primario Ordine dei Predicatori. Donne francesi formarono sotto la direzione di Domenico il monastero di Notre-Dame di Prouille, culla dell’Ordine; due francesi che senza alcuna riserva si affidano a lui, danno ora principio a S. Romano di Tolosa; Matteo di Francia fonderà, come vedremo, S. Giacomo di Parigi; ed un altro francese, ancora a noi sconosciuto, fonderà S. Nicola di Bologna. Studiando la predestinazione della Francia tal quale ce la rivelano la sua posizione topografica, il suo genio, la sua storia, non è difficile comprendere perché volle Iddio che avesse così gran parte nella formazione di un Ordine apostolico. Del popolo francese è stato detto ch’egli è un soldato; meglio si direbbe ch’egli è un missionario; perché anche la sua spada è propagandista. Nessuno più della Francia ha contribuito ad estendere in Occidente il regno di Gesù Cristo, e dal tempo delle crociate il suo nome nella lingua degli orientali è rimasto sinonimo di cristiano. Insieme al dono di credere, riceveva nel battesimo anche quello di amare con eguale potenza; e la sua posizione geografica in perfetta corrispondenza con il suo carattere, apriva tutti i continenti del mondo alle sue conquiste.

Tuttavia la Spagna fu ben più importante per il più illustre suo figlio; tutta occupata in quella lunga e gloriosa lotta contro gli antichi dominatori delle sue terre, inviò per giunta più d’un soldato a rafforzare l’esercito Spirituale del suo Gusman, cioè: Domenico di Segovia, Suero Gomez, il Beato Mannes, Michele di Fabra, Michele di Uzero, Pietro di Madrid, Giovanni di Navarra.

Domenico di Segovia fu uno dei primi compagni dell’Apostolo in Linguadoca; Giordano di Sassonia lo chiama uomo di perfetta umiltà, povero di scienza, ma sublime nella virtù. Narrasi di lui che visitato in camera da una donna impudica la quale voleva mettere a prova la sua virtù, coricatosi fra tizzoni ardenti, rivolgesse alla tentatrice, queste parole: “se mi ami davvero, questo n’è il luogo e il momento”.

Suero Gomez apparteneva ai più nobili della corte di Sancio I, re di Portogallo. La notizia della crociata contro gli Albigesi lo fece partire per la Linguadoca, dove si arruolò tra i cavalieri della causa cattolica. Ma chiamato da Dio, conobbe che vi era una milizia anche migliore; abbandonò allora tutto, per predicare Gesù Cristo con la parola e con la povertà. Fu il fondatore del convento di Santaren sul Tago, poche leghe sopra Lisbona: dal re Alfonso II ricevette grandi attestati di stima; morì nel 1233, onorato da molti storici del titolo di Santo.

Il Beato Mannes fu fratello di S. Domenico. Quando e come prendesse l’abito dell’Ordine, non si sa. Morì verso il 1230, e fu sepolto a Gumiel d’Izàn, nella tomba dei suoi antenati.

Michele di Fabra, che fu nell’Ordine il primo lettore o professore di Teologia, insegnò nel convento di Parigi, fu predicatore e confessore di Giacomo, re di Aragona; fondò i conventi spagnoli di Maiorca e di Valenza. Antichi scrittori lodano molto in lui lo zelo apostolico, i servigi resi nella guerra contro i Mori, l’assiduità alla preghiera e alla contemplazione, ed anche i suoi miracoli. Le sue spoglie furono prima riposte nella sepoltura comune di Valenza; ma poi il Priore prodigiosamente avvertito di dar loro più onorevole sepoltura, le fece trasportare con gran pompa in una cappella del convento dedicata a San Pietro martire.

Nulla di notevole ci ha trasmesso la tradizione intorno a Michele di Uzero, e Pietro di Madrid.

Giovanni di Navarra, nato a Saint-Jean-Pied-de Port, prese l’abito dell’Ordine il giorno della festa di S. Agostino, 28 agosto 1216. Di tutti i primi compagni di Domenico questi fu il solo che fece da testimone nel processo della canonizzazione del S. Padre; dalla sua deposizione rilevasi come di frequente egli avesse abitato e viaggiato con lui.

L’Inghilterra mischiò anch’essa una goccia del suo sangue al sangue francese e spagnolo di questa prima generazione della dinastia domenicana; come se tutti i popoli marittimi d’Europa avessero dovuto portarle il loro tributo. Il nome dell’inglese, seguace di Domenico, fu Lorenzo.

Se grande fu la gioia in tutti al ritorno del padre di famiglia, non fu minore la sorpresa quando intesero ch’egli tornava con la risoluzione di sbandare immediatamente il suo gregge, mentre si credevano sicuri di potere stare ancora per molto tempo insieme raccolti nella santa e studiosa oscurità del chiostro. E perché rompere l’unità in un corpo assai debole? e che aspettarsi da pochi uomini sparsi per l’Europa, prima ancora che rinomanza alcuna del nuovo Ordine li abbia preceduti? L’Arcivescovo di Narbona, il Vescovo di Tolosa, il conte di Montfort, tutti insomma cui stava a cuore la nascente istituzione, scongiuravano Domenico che per un desiderio prematuro di far del bene, non volesse compromettere tutto l’avvenire. Ma egli tranquillo ed irremovibile nel suo disegno: “Miei signori e padri, rispondeva, non vi opponete a ciò, perché so bene quello che faccio”. Stava a lui dinanzi la visione avuta nella basilica di San Piero, e sentiva come risuonargli all’orecchio quelle parole dei due apostoli: “Va e predica”; ed un altro indizio l’aveva anche ritratto dalla rovina imminente del conte di Montfort. Aveva visto in sogno un albero che con i grandi suoi rami copriva la terra e prestava rifugio agli uccelli del cielo; quando ad un colpo inaspettato ecco l’albero a terra, e dispersi coloro che alla sua ombra avevano cercato asilo. Allorché tali misteriosi presagi vengono da Dio, da lui ne viene pure la luce, che ne scopre il significato. Domenico comprese che Montfort era l’albero la cui caduta avrebbe dileguate le speranze dei cattolici, e che sarebbe stato imprudenza fabbricare sopra un sepolcro. Oltre a queste un’altra altissima considerazione si aggiungeva a questa rivelazione, per distoglierlo dal consiglio dei suoi amici. L’apostolo, egli pensava, si forma più nell’azione che nella contemplazione; ed il mezzo più sicuro per dare incremento al nuovo Ordine è di piantarlo arditamente proprio là, dove lo spirito umano è più agitato. E ne dava lui stesso ragione ai suoi discepoli con una figura bella, non meno che ingegnosa: “Il grano, diceva loro, dà frutto se viene seminato; ammucchiato si guasta”.

Tre città governavano allora l’Europa. Roma, Parigi, Bologna: Roma con il Pontefice, Parigi e Bologna con le loro Università, convegno della gioventù di tutte le nazioni. Queste elesse Domenico a capitali del suo Ordine, per averne ben presto chiere di apostoli. Non poteva però dimenticare la sua patria, per quanto estranea in quel tempo al movimento generale d’Europa; né abbandonare la Linguadoca, a cui aveva consacrate le primizie delle sue fatiche. Sedici uomini dunque gli parvero sufficienti per conservare Prouille e Tolosa; per occupare Roma, Parigi, Bologna e la Spagna. Né i suoi progetti erano con questo esauriti, ma aspirava ancora, come abbiamo detto, ad evangelizzare gl’infedeli d’oltremare: e già si lasciava crescere la barba all’uso orientale, per esser pronto alla prima occasione; anzi, in vista di ciò, aveva espresso il desiderio che i suoi fratelli eleggessero canonicamente chi fra loro lo surrogasse alla partenza. Questo il suo piano; e dopo gustato per un momento il piacere di vivere in mezzo ai suoi, li convocò tutti nel monastero di Prouille per la prossima festa dell’Assunzione.

Gran gente era accorsa a Prouille in quel giorno; alcuni attirati dall’antica devozione per quel santuario, altri dalla curiosità; l’affezione poi e un devoto sentimento vi aveva condotti vari vescovi e cavalieri, e lo stesso conte di Montfort. Domenico offrì il Santo Sacrificio su quell’altare tante volte testimone delle sue lacrime segrete; lì ricevette i voti solenni dei suoi fratelli, fino allora a lui legati solo dalla costanza del loro volere o da voti semplici unicamente; e avanti di terminare il discorso indirizzato loro, rivoltosi al popolo, uscì in queste parole:

Sono già molti anni che io vi esorto dolcemente, predicando, piangendo, pregando, ma invano; vi è però nel mio paese un proverbio che dice: dove non può più nulla la benedizione, il bastone può ancora qualche cosa. Ecco che noi susciteremo contro di voi prelati e principi; essi armeranno contro questo paese nazioni e regni; e molti periranno di spada, e le terre si faranno deserte, e le mura abbattute, e voi tutti, oh dolore! ridotti in schiavitù. Per tal modo il bastone otterrà qualche cosa, dove la benedizione e la dolcezza nulla valsero ad ottenere”.

Questo addio di Domenico alla terra ingrata che per dodici anni aveva irrigato con i suoi sudori, sembra un testamento diretto contro coloro che avrebbero un giorno profanata la sua memoria, e determina per sempre il carattere del suo apostolato, di cui tutta la forza era riposta nella dolcezza, nella predicazione, nella preghiera e nelle lacrime. La profetica minaccia che vi è contenuta, ricorda nel suo stile il celebre lamento di Gesù Cristo sopra Gerusalemme: Oh se conoscessi anche tu, e proprio in questo giorno, quel che giova alla tua pace! Ora invece sono cose celate ai tuoi occhi. perché verranno per te giorni, quando i tuoi nemici ti circonderanno di trincee, e t’attornieranno, e ti stringeranno per ogni parte, e distruggeranno te e i tuoi figlioli con te, e non lasceranno in te pietra su pietra; perché non conoscesti il tempo della tua visita (Lc 19, 42-44). Né Domenico disse che lui stesso in persona avrebbe sollevato principi e prelati; ma non disgiungendo se stesso dal rimanente della cristianità, in generale e a nome di tutti uscì in quelle parole: “Ecco che noi vi susciteremo contro principi e popoli!”.

Domenico, estraneo a tutto ciò che si commise in guerra o in difesa della giustizia, e gemente sulle sventure avvenire, si avanza incontaminato dal sangue; lascia la Francia, e con essa il teatro delle sommosse e delle guerre; si fa fondatore di conventi in Italia, in Francia ed in Spagna; e con il bastone da viaggiatore in mano, con il sacco da pellegrino sulle spalle, spende in queste pacifiche creazioni quel che gli resta di una vita omai logora dal sacrificio.

Compiuta la pubblica cerimonia, Domenico manifestò al fratelli le sue intenzioni riguardo a ciascuno di loro; cioè, che Guglielmo di Claret e Natale di Prouille sarebbero rimasti nel monastero di Notre-Dame di Prouille; Tommaso e Pietro Cellani in quello di S. Romano di Tolosa; Domenico di Regovia, Suero Gomez, Michele d’Uzero e Pietro di Madrid partirebbero per la Spagna; per Parigi poi sarebbero destinati i tre Francesi, Matteo di Francia, Bertrando di Garriga e Oderico di Normandia, i tre spagnoli, Michele di Fabra, Giovanni di Navarra ed il Beato Mannes, più l’inglese Lorenzo. Domenico per la fondazione dei conventi di Roma e di Bologna non si riservava che il solo Stefano di Metz.

Prima di separarsi, essi elessero Matteo di Francia Abate, vale a dire superiore generale dell’Ordine, sotto la suprema autorità di Domenico. Questo titolo che ritraeva qualche cosa di grande, per il sommo onore in cui erano tenuti i capi di Ordini nelle antiche religioni, non fu ammesso che questa sola volta, e sparì per sempre con la persona di Matteo di Francia. Fu stabilito che si chiamasse con il nome più umile di Maestro chi fosse elevato al governo generale dei Frati Predicatori.

Questo dividersi il mondo fra pochissimi uomini ha già dello straordinario; ma lo è ancor più per le circostanze. I nuovi, apostoli partono a piedi, senza denaro, privi di ogni umana risorsa, e con la missione non solo di predicare, ma di fondare conventi. Uno solo fra tutti, Giovanni di Navarra, rifiuta di mettersi in viaggio a tali condizioni, e chiede denaro. Domenico a vedere un frate Predicatore che per il suo sostentamento non sa affidarsi alla Provvidenza, piangente si getta ai piedi di quel figlio di poca fede; pur non riuscendo a persuaderlo di confidare tutto nel Signore, gli fa consegnare dodici danari.

Quando tutte queste cose furono compiute, il 13 settembre 1217, quattro anni precisi dalla battaglia di Muret, il vecchio conte Raimondo rientrava in Tolosa. L’opera dell’abate di Citaux era stata distrutta, ultimata quella di Dio.

CAPITOLO X Quarto viaggio di S. Domenico a Roma Fondazione dei conventi di S. Sisto e di S. Sabina Miracoli che accompagnarono queste due fondazioni

Inviati qua e là i suoi frati, Domenico rimase ancora per qualche tempo nella Linguadoca. Ne abbiamo la prova in un trattato da lui conchiuso il giorno 11 del seguente settembre, a proposito delle decime già accordategli da Folco. Si trattava di sapere fino a qual punto si estendesse tal diritto; e fu convenuto che ne fossero escluse quelle parrocchie che contassero meno di dieci famiglie; di più furono eletti alcuni arbitri per comporre tutte le difficoltà che in avvenire fossero potute nascere. Ciò fatto, Domenico con un solo compagno, Stefano di Metz, riprese a piedi, com’era suo uso, la via delle Alpi. La storia lo perde di vista fino a Milano, dove lo ritrova alle porte della collegiata di S. Nazario a chiedere ospitalità a quei canonici; i quali, in grazia dell’abito che indossava, lo ricevettero come uno dei loro.

Giunto a Roma, sua prima cura fu di cercare un luogo adatto per la fondazione di un convento. Ai piedi del monte Celio dalla parte di mezzogiorno, lungo la via Appia e di fronte alle rovine gigantesche delle terme di Caracalla, sorgeva, un’antica chiesa dedicata a S. Sisto II, Papa e martire, dove altri cinque papi e martiri come lui gli stavano accanto nella stessa tomba. A un lato della chiesa rifatta da poco, vi era un convento quasi interamente costruito; però il silenzio profondo che regnava intorno alla chiesa ed al convento, faceva contrasto con i recenti lavori, di cui per tutto apparivano segni manifesti: chiaro indizio che inaspettato avvenimento aveva interrotto l’esecuzione di un qualche bel progetto. Ed in verità per la morte d’Innocenzo III era stata sospesa la restaurazione di quel celebre ed antico luogo, destinato dal Papa a raccogliere sotto una medesima regola varie religiose, che vivevano in Roma con troppa libertà. Domenico, che ignorava tutto questo, si affrettò a chiedere al Pontefice chiesa e monastero; ed Onorio III a viva voce glieli cedette.

In tre o quattro mesi Domenico poté riunire in San Sisto non meno di cento religiosi; ed una rapida e prodigiosa fecondità successe a quella lentezza, che parve fino allora regolare i di lui destini. Quest’uomo, che non aveva cominciato la sua vera carriera che a trentacinque anni, dopo averne spesi altri dodici a formare soli sedici discepoli, ne vede al fine prostrarsi ai suoi piedi con quell’abbondanza con cui le spighe mature cadono sotto la falce, del mietitore. Né c’è da stupirsene. E’ legge di natura come di grazia che una forza lungamente compressa, rotti i legami e le resistenze, dia fuori con impeto. Così in tutti gli avvenimenti c’è un punto di maturità che ne rende il successo prontissimo, non meno che inevitabile. San Sisto posto sulla strada che percorrevano in altri tempi i trionfatori romani per salire al Campidoglio, per il corso di un anno fu spettatore di scene assai più meravigliose degli spettacoli a cui i generali di Roma avevano accostumata la via Appia. In nessun altro luogo o tempo Domenico diede meglio a conoscere l’autorità da Dio conferitagli sulle anime; e mai la natura l’obbedì con più rispettosa sudditanza. Siamo al momento più solenne della sua vita.

Bisognò da principio condurre a termine il monastero. In questo frattempo Domenico riprese il corso delle sue predicazioni nelle chiese, e delle solite istruzioni nel palazzo del Papa: ed ogni giorno con la sua eloquenza riusciva a guadagnare qualche nuovo discepolo per popolare quanto prima la parte abitabile del convento. Uscito la mattina con il suo solito bastone, la sera ritornava con la preda, e l’edificio spirituale di S. Sisto progrediva così di pari passo con quello materiale.

Il demonio, geloso di così felici risultati, si provò a turbarne la gioia. Un giorno, mentre i frati accompagnavano l’architetto sotto una volta per sentire se era da restaurarsi o da abbattersi, la volta cadde e seppellì l’architetto tra le macerie. Fu immensa la desolazione dei frati radunati intorno alle macerie che ricoprivano il corpo di quell’infelice, tutti timorosi per l’anima di lui, forse colto in cattivo punto, e per le male voci che si sarebbero levate nel volgo; né, così costernati, sapevano più che fare. Ma ecco che arriva Domenico, e fatto trar fuori dai sassi quel corpo frantumato, lo fa portare dinanzi a sé, rivolge una preghiera a Colui che ha promesso di nulla negare alla fede; e la vita obbediente alla di lui preghiera, rianima quelle membra sanguinanti, che stavano lì dinanzi.

Un’altra volta Giacomo di Melle era malato tanto gravemente che gli erano stati amministrati tutti i Sacramenti. I frati raccolti intorno al suo letto cercavano con le preghiere di aiutare quell’anima al gran passo, dolenti al sommo di perdere un uomo, per il momento quasi necessario, non trovandosi fra loro altri, che in Roma fosse come lui conosciuto. Domenico, a tanta ambascia dei suoi figlioli, ordinò che lo lasciassero solo nella camera, e chiusa la porta, si mise a pregare così fervorosamente che valse a trattenere la vita sulle labbra di quel morente.

L’ufficio di procuratore di cui era rivestito Giacomo di Melle, era ordinato a provvedere coll’aiuto della Provvidenza ai bisogni temporali di S. Sisto, privo affatto di rendite, e che si manteneva con le elemosine giornaliere raccolte dai frati di porta in porta. Una mattina Giacomo di Melle fece sapere a Domenico che non vi era per il desinare che due o tre pani. Parve che Domenico godesse di tal notizia; ed ordinò al procuratore che di quel poco di pane ne facesse quaranta pezzetti, quanti erano i religiosi, suonando alla solita ora la mensa. Entrati i frati in refettorio, ciascuno non si trovò davanti che un piccolissimo boccone di pane; pure recitate le preghiere quasi con maggior fervore del solito, si posero a mensa. Domenico, seduto alla tavola priorale, stava con il cuore rapito in Dio. Quand’ecco che due giovani vestiti di bianco entrano nel refettorio, ed avanzandosi fino alla tavola dov’era Domenico, depositano i pani che avevano dentro i loro mantelli.

Lo stesso miracolo accadde ancora un’altra volta; e fu accompagnato da tali circostanze, che merita sentirlo raccontare dalla bocca stessa dell’antichità.

Quando i frati abitavano ancora a S. Sisto, ed erano quasi in numero di cento, un giorno il B. Domenico comandò a fra Giovanni di Calabria ed a fra Alberto Romano di andare per la città a raccogliere elemosine.

Girarono, ma sempre indarno, dalla mattina fino all’ora di terza. Ripresa perciò la via del convento, erano già presso la Chiesa di S. Anastasia, quando una donna molto affezionata all’Ordine, visto che non riportavano a casa niente, diede loro un pane, dicendo: – Non voglio che ve ne torniate al convento del tutto a mani vuote. – Poco però si erano da lei allontanati, che si avvicinò loro un uomo, chiedendo istantemente un po’ di carità. Si scusarono sulle prime di non potergli dar nulla, non avendo niente neppur per loro; ma quegli insisteva sempre più, ed essi rivoltisi l’un l’altro: – A che ci serve, dissero, un pane? diamolo a lui per amor di Dio. E glielo dettero; e subito lo persero di vista. Al rientrare in convento, il pietoso Padre, a cui lo Spirito Santo aveva tutto rivelato, si fece loro incontro con volto tutto lieto e sereno, dicendo: – Figlioli, non avete riportato nulla? – No, padre. – E gli raccontarono ciò che era loro accaduto, e del pane donato al mendico. – Quel povero era un angelo del Signore, riprese il Santo, e il Signore saprà ben e come provvedere ai suoi figlioli; andiamo a pregare. – Ed andò in chiesa. Uscitone poco dopo, disse ai fratelli conversi di chiamare la comunità a refettorio. Questi risposero: – Ma, padre santo, come volete che chiamiamo i religiosi, se non c’è nulla da mangiare? – Ed indugiavano a bella posta ad eseguir l’ordine ricevuto. Allora il beato padre fece chiamare fra Ruggero, il dispensiere, e gli comandò di riunire i frati per il desinare, perché il Signore avrebbe provveduto ai loro bisogni. Si stesero dunque le tovaglie, si apparecchiò, e, dato il segno, tutta la comunità entrò in refettorio. Il beato padre benedì la mensa, e tutti si sedettero. Fra Enrico Romano, cominciò la lettura. Il beato Domenico intanto, con le mani giunte poggiate sopra la tavola, pregava. Ed ecco comparire nel mezzo del refettorio, com’egli per ispirazione dello Spirito Santo aveva promesso, due bellissimi giovani, ministri della divina Provvidenza, i quali portavano pani in due candide tovaglie, che pendevano dalle loro spalle davanti e di dietro. Cominciando dalle file inferiori, uno a destra e l’altro a sinistra, posero davanti ad ogni frate un pane di ammirabile bellezza. Giunti dinanzi al beato Domenico, dopo di aver posto anche davanti a lui un pane intiero, chinarono la testa e disparvero, senza che nessuno sino a questo giorno abbia saputo donde fossero venuti e dove se ne ritornassero. Il beato Domenico disse allora ai fratelli: – Miei fratelli, mangiate il pane, che il Signore vi ha mandato. – Poi rivolto a quelli che servivano, ordinò loro di portare un po’ di vino. Ma essi risposero: – Padre santo, non ce n’è. – Allora il beato Domenico, ripieno dello spirito di profezia, replicò: – Andate alla botte e attingete per i frati il vino che il Signore ha mandato loro. – Andarono e trovarono la botte piena di vino eccellente, che si affrettarono di portare in tavola. Ed il beato Domenico disse: – Bevete, miei fratelli, il vino che il Signore vi ha mandato. – Mangiarono dunque e bevvero a loro piacimento, sia quel giorno, che il seguente ed il terzo ancora. Ma dopo la refezione del terzo giorno Domenico ordinò che il rimanente del pane e del vino fosse distribuito ai poveri, né permise che se ne ritenesse punto in casa. Durante quei tre giorni nessuno andò a cercare l’elemosina, avendo Dio mandato pane e vino in abbondanza. Quindi il beato padre fece un bel discorso ai frati, esortandoli a non diffidare mai della divina Provvidenza, neppure nelle strettezze più estreme. Fra Tancredi, priore del convento, fra Ottone e fra Enrico di Roma, fra Lorenzo d’Inghilterra, fra Gaudione, fra Giovanni Romano, e molti altri si trovarono presenti a questo miracolo, e lo riferirono a Suor Cecilia ed alle altre Suore, che ancora abitavano sempre a S. Maria in Trastevere, e portarono loro anche un po’ di quel pane e di quel vino, che esse conservarono per lungo tempo come preziose reliquie.

Fra Alberto mandato dal beato Domenico con un compagno a cercare l’elemosina, fu uno di quei due, di cui il Santo predisse a Roma la morte. L’altro fu fra Gregorio, uomo di bellissime sembianze e pieno di grazia, il quale per primo, se ne volò al Signore, dopo ricevuti devotamente i santi Sacramenti. Tre giorni dopo anche Alberto, ricevuti con egual pietà i Sacramenti, passò da questo carcere tenebroso, alla splendida magione dei cieli”.

Quest’ingenuo racconto ci fa penetrare nell’intimo della famiglia di S. Sisto, e meglio di ogni altra descrizione ci riporta ai primitivi tempi dell’Ordine. Si vede come senza oro né argento sorgessero popolosi monasteri, come la fede supplisse ai beni di fortuna, e quale squisita semplicità fosse in quegli uomini, sebbene la maggior parte di essi avesser abitato sontuosi palazzi.

Il Tancredi, ad esempio, priore di S. Sisto, era cavaliere di nascita, ed aveva occupato onorifico ufficio nella corte dell’imperatore Federico II. Si trovava egli a Bologna sul principio dell’anno 1218, quando Domenico, come vedremo a suo luogo, inviò colà alcuni suoi frati; ed un giorno, senza sapere neppure lui il perché, si mise a considerare il pericolo che correva la sua eterna salute. Turbato da questo subito pensiero, rivolse una preghiera alla Santissima Vergine; e la notte seguente apparsagli in sogno la Madonna, gli disse: “Entra nel mio Ordine”. Tancredi si svegliò in quel momento, e poi riprese sonno. In questo secondo sonno vide due uomini rivestiti dell’abito dei Frati Predicatori, uno dei quali vecchio, che così gli disse: “Tu domandi alla Santissima Vergine che ti indirizzi nella via della salute; vieni con noi e sarai salvo”. Ma egli, che non conosceva affatto l’abito di quei religiosi, credette tutto un’illusione. Al mattino alzatosi, pregò l’albergatore che lo conducesse ad una chiesa per ascoltare la Messa. L’albergatore lo condusse ad una piccola chiesa detta Santa Maria di Mascarella, da poco tempo affidata ai Frati Predicatori. Appena entrato, Tancredi s’imbatté in due frati, tra cui riconobbe subito quel vecchio apparsogli in sogno. Assestati allora i suoi affari, prese senz’altro l’abito dell’Ordine, ed andò a Roma a raggiunger Domenico.

Fra Enrico, di cui è fatta menzione nel racconto di Suor Cecilia, era un nobile giovane romano. I suoi parenti, indignati di vederlo frate, aveano deliberato di strapparlo via dal convento; ma saputolo Domenico, fece partire subito dal convento, prendendo per via Nomentana, il giovane con alcuni compagni. I parenti lo inseguirono e lo raggiunsero alle sponde dell’Aniene, quando aveva già passato il fiume. Vedendosi sul punto di cadere nelle loro mani, Enrico alzò il cuore a Dio, invocandone protezione per i meriti del suo servo Domenico; ed ecco che le acque del fiume gonfiarono a vista d’occhio, rendendo così impossibile ai cavalieri di raggiungere l’altra riva. Questi allora si ritirarono, ed Enrico poté tornare tranquillamente a S. Sisto.

Fra Lorenzo d’Inghilterra, testimonio anch’esso del miracolo dei pani, era quel medesimo inviato da Domenico a Parigi al momento della dispersione dei frati nelle varie regioni, ritornato da poco insieme a Giovanni di Navarra. Anche due altri frati, Domenico di Segovia e Michele di Uzero erano tornati dalla Spagna senza aver riportato alcun frutto.

Frattanto Onorio III aveva ripreso il progetto del suo predecessore, di riunire cioè in un solo monastero e sotto la medesima regola alcune religiose sparse in diverse case di Roma; e ne fece parola a Domenico, siccome l’uomo più adatto per una impresa così delicata. Domenico ben volentieri accettò la proposta del Pontefice, tanto più che vedeva in ciò un mezzo di riportare S. Sisto alla sua primitiva destinazione, fondandovi un monastero di Religiose Domenicane sul modello di Notre-Dame di Prouille. Solamente domandò al Papa la cooperazione di alcuni Cardinali, i quali supplissero con la loro autorità alla sua pochezza. Ed il Papa ne designò tre: Ugolino, vescovo di Ostia; Stefano di Fossanova, del titolo dei Santi Apostoli; e Nicolò, vescovo Tusculano. In cambio poi di S. Sisto, Onorio donò a Domenico la chiesa di S. Sabina sul monte Aventino, ed una parte del proprio palazzo, che si trovava a fianco della chiesa. Si incominciarono dunque le necessarie modificazioni: a S. Sisto per ricevervi le suore, a S. Sabina per trasferirvi i frati.

Per quanto Domenico fosse preoccupato da questo duplice impegno, pur tuttavia continuava le sue predicazioni. Un giorno che doveva predicare in San Marco, una donna abbandonò tutto, anche il figlioletto malato, per andare ad ascoltarlo. Tornata dopo predica a casa, trovò il bambino morto. La sua speranza non fu allora meno viva del suo dolore; e dato in braccio alla donna di casa il bambino, senza neppure prendere tempo per versare una lacrima, va a San Sisto. Chi dalla via Appia entra nel cortile di S. Sisto, trova a sinistra la chiesa ed il monastero, e dinanzi a sé la porta di una stanza bassa ed isolata, chiamata il Capitolo. Domenico era ritto sulla porta del Capitolo quando la desolata madre entrò nel cortile. Corse essa difilato verso di lui, gli pose ai piedi l’esanime corpicino e con sguardi e con preghiere scongiurò il Santo a ridonargli il figliolo. Domenico si ritirò per un momento dentro il Capitolo, poi ritornò sulla porta, e fatto il segno della croce sul fanciullo si chinò, lo prese per mano, lo alzò e lo rese sano e salvo alla madre, ordinandolo di non dire nulla a nessuno dell’accaduto. Ma che? subito se ne sparse la notizia per tutta Roma; il Papa avrebbe anzi voluto che il miracolo fosse pubblicato dai pulpiti in tutte le chiese, se Domenico non si fosse opposto, fino a minacciare di lasciar Roma per sempre e recarsi fra gl’infedeli. Ciò nonostante la cosa suscitò gran rumore, e la venerazione per Domenico giunse al sommo. Dovunque egli compariva, e nobili e popolani si affollavano intorno a lui siccome ad un angiolo di Dio; e chi poteva giungere a toccarlo si credeva al sommo della felicità. Tagliavano persino i lembi del suo mantello per farne reliquie; tanto che lo ridussero in modo, che gli copriva appena le ginocchia. Qualche volta i frati impedivano che gli tagliuzzassero così le vesti; ed egli allora: “Lasciateli fare; lo fanno per devozione”. Del miracolo or ora riferito furono testimoni fra Tancredi, fra Oddone, fra Enrico, fra Gregorio, fra Alberto e molti altri ancora.

Per quanto però la santità di Domenico fosse manifesta, neppure lui riusciva a vincere tutte le difficoltà, che insorgevano contro la riunione a S. Sisto delle religiose sparse per Roma, non volendo affatto la maggior parte di esse rinunziare alla libertà, fino allora goduta, di potere uscire dal monastero e di visitare i parenti. Ma Dio venne in aiuto al suo servo. Eravi allora in Roma un monastero di donzelle, chiamato, dal luogo dove si trovava, S. Maria in Trastevere. In esso si conservava un’immagine della Santissima Vergine, di quelle che la tradizione attribuisce al pennello di S. Luca: immagine celebre assai e venerata dal popolo, perché, portata in processione per la città dal pontefice S. Gregorio, l’aveva liberata dal flagello della peste, ed ancora perché si riteneva che, trasportata dal papa Sergio III nella basilica di San Giovanni in Laterano, da se stessa fosse tornata alla sua antica dimora. La badessa di detto monastero dunque e tutte le altre monache, una sola eccettuata, si offrirono volontariamente a Domenico, e nelle sue mani fecero professione di ubbidienza ad un’unica condizione, che avessero potuto portare con loro l’immagine della SS. Vergine; che se l’immagine da se medesima avesse poi lasciato S. Sisto per tornare alla sua chiesa primitiva, anche il loro voto di ubbidienza sarebbe stato nullo. Domenico accettò la condizione, e con l’autorità che gli era stata conferita, proibì loro di mai più oltrepassare la soglia del monastero. Queste religiose appartenevano alle prime famiglie della nobiltà romana. Onde saputosi dai parenti che esse si erano obbligate a quella riforma, furono subito a S. Maria per dissuaderle da quanto avevano promesso, tacciando Domenico, acciecati com’erano dalla passione, di uomo sconosciuto ed avventuriero. I loro discorsi intiepidirono l’ardore delle religiose, talchè molte si pentirono del voto emesso. Domenico internamente avvertito di ciò, si recò una mattina a visitarle, e dopo celebrata la Messa, alla fine di un discorso, soggiunse: “Io so, mie figliole, che voi provate rammarico della vostra risoluzione, e che volete camminare fuori della via tracciatavi dal Signore. Solo quelle allora che sono ancora fedeli, facciano di nuovo la professione nelle mie mani”. Tutte, la badessa a capo, rinnovarono insieme l’atto che le spogliava della loro libertà. Domenico prese allora le chiavi del monastero, e vi pose a guardia alcuni fratelli conversi, i quali giorno e notte vigilassero, con proibizione alle Suore di parlare a chicchessia senza testimoni.

Giunte le cose a questo punto, i cardinali Ugolino, Stefano di Fossanova. e Nicolò, si riunirono a San Sisto il giorno delle Ceneri dell’anno 1228, cioè il 28 febbraio, cadendo in quell’anno la Pasqua ai 15 di aprile. Anche la badessa di S. Maria in Trastevere vi si era recata con le sue monache per dimettersi solennemente dal suo ufficio, e cedere a Domenico ed ai frati tutti i diritti del monastero.

Mentre dunque il beato Domenico stava seduto con i cardinali, presenti la badessa e le sue figlie, ecco che entra un uomo, strappandosi i capelli e gridando disperatamente. – Che c’è, che c’è? gli fu domandato. – Il nipote di Monsignore Stefano, rispose, è caduto da cavallo, ed è morto! – Il giovane si chiamava Napoleone. A tal notizia lo zio, venuto meno, si abbandonò sul petto del beato Domenico. Ne tu tosto sollevato; ed il beato Domenico, alzatosi, lo spruzzò di acqua benedetta: lasciatolo quindi fra le braccia degli altri, egli corse sul luogo dove giaceva il corpo del giovane, tutto calpestato e orribilmente malconcio. Ordinò il Santo che fosse trasportato subito in una camera Separata; intanto fra Tancredi e gli altri frati preparassero per la Messa. Il beato Domenico, i cardinali, i frati, la badessa, le monache si portarono allora al luogo dov’era l’altare, ed il beato Domenico celebrò la Messa, commosso fino alle lacrime. Giunto all’elevazione del corpo del Signore, tenendolo, come suol farsi, in alto, egli medesimo apparve alzato da terra di un cubito, e tutti lo videro e ne rimasero dallo stupore. Terminata la Messa, i cardinali, la badessa, le monache, tutti insomma i presenti, ritornarono dov’era il corpo del morto, e Domenico, accostatosi al cadavere, con le sue santissime mani ne ricompose le membra, poi si prostrò a terra pregando fervidamente e piangendo. Per tre volte mise le sue mani su quel corpo esanime, e per tre volte si prostrò. Alzatosi la terza volta, fece il segno della croce sul defunto, e stando ritto dalla parte dove questi aveva la testa, con le mani levate al cielo e con il corpo alzato da terra più d’un cubito, gridò al alta voce: – O giovane Napoleone, io ti dico nel Nome di Nostro Signor Gesù Cristo: alzati. – E d’un tratto, alla vista di tutti gli accorsi alla notizia di così grave disgrazia, il giovane si alzò sano e salvo, dicendo al beato Domenico: Padre, datemi da mangiare. – Il beato Domenico gli diede da mangiare e da bere, e lo rese festante allo zio cardinale, senza che rimanesse traccia di alcuna ferita”.

Quattro giorni dopo, cioè la prima domenica di quaresima, le monache di S. Maria in Trastevere, quelle di S. Bibiana e di altri monasteri, con alcune altre donne secolari, in tutte quarantaquattro, entrarono in S. Sisto. Fra esse c’era anche Suor Cecilia, di anni diciassette, monaca di S. Maria in Trastevere; quella Suor Cecilia, alla quale siam debitori di averci fatto conoscere i principali tratti della vita del santo Patriarca nel tempo di cui ora parliamo. Ce li ha conservati in una memoria fatta scrivere sotto sua dettatura, vero capolavoro di narrazione per semplicità e verità.

La notte del giorno stesso in cui le monache fecero l’ingresso in S. Sisto, vi fu trasferita anche l’immagine di S. Maria in Trastevere. Si preferì la notte, perché i romani si opponevano a questa traslazione. Domenico, accompagnato dai cardinali Stefano e Nicolò, e da molta altra gente che lo precedeva e seguiva con in mano fiaccole accese, portava l’immagine sulle proprie spalle. Erano tutti scalzi. Le monache, anch’esse a piedi nudi, aspettarono in orazione l’immagine a S. Sisto, dove felicemente fu collocata.

Tutti questi fatti, compreso il viaggio dalla Francia a Roma, avvennero nello spazio di soli cinque o sei mesi, cioè dall’11 settembre 1217 al principio del marzo dell’anno seguente. E nonostante tali e tante occupazioni, Domenico trovava ancor tempo per altre particolari opere di carità.

Recavasi spesso a visitare le murate, donne che volontariamente si chiudevano fra anguste mura per non uscirne mai più. Ve n’erano in diverse parti della città, nelle deserte pendici del monte Palatino, nel fondo delle vecchie torri da guerra, fra gli archi degli acquedotti, sentinelle dell’eternità, collocate fra le rovine. Domenico sul tramontar del giorno le visitava, pensava sempre a mettere in serbo un po’ di forza per recarsi fino a loro; e dopo aver predicato in mezzo alla folla, andava a predicare nella solitudine. Una di queste murate, di nome Lucia, che abitava dietro la chiesa di S. Anastasia, sulla via di S. Sisto, aveva un braccio corroso fino all’osso da un male crudele. Domenico la sanò una sera con una semplice benedizione. Un’altra, il cui petto era pasto ai vermi, stava chiusa in una torre, vicino alla porta di S. Giovanni in Laterano. Domenico l’andava a confessare, e di tanto in tanto le portava la Santa Comunione. Una volta la richiese di fargli vedere uno di quei vermi che la tormentavano, e che lei con grande amore custodiva nel seno, quasi ospiti inviati dalla Provvidenza. Bona, così chiamavasi, accondiscese al desiderio di Domenico. Ma nella mano del Taumaturgo il verme si cangiò in una pietra preziosa, ed il petto di Bona tornò mondo, siccome quello di un fanciullo.

Domenico era allora nella pienezza della maturità. Il suo corpo, la sua anima avevano raggiunto quello stadio della vita, in cui la vecchiezza non è ancora che perfezione e grazia del vigore. Giusto di statura e magro nella persona, aveva un bel viso leggermente colorito di sangue, begli occhi, e capelli e barba di un biondo piuttosto acceso. Sulla fronte e fra le sopracciglia appariva come un chiaro splendore, che gli attirava rispetto ed ammirazione. Era sempre lieto e piacevole, quando le afflizioni del prossimo non lo muovevano a compassione. “Le mani aveva lunghe e belle; la voce maestosa e sonora; mai fu calvo, e la religiosa corona dei suoi capelli restò sempre intiera, seminata solo da qualche capello bianco”.

Così ce lo dipinge Suor Cecilia, che lo conobbe nei più bei tempi di S. Sisto e di S. Sabina.

CAPITOLO XI Soggiorno di S. Domenico a S. Sabina. S. Gia cinto ed il B. Ceslao entrano nell’Ordine Miracolosa unzione fatta dalla Vergine Santissima sul B. Reginaldo.

I frati, dopo lasciato S. Sisto, abitarono presso la Chiesa di S. Sabina, sull’Aventino. Secondo una vecchia epigrafe la fondazione di S. Sabina rimonterebbe al principio del quinto secolo, sotto il pontificato di Celestino I, per cura di un prete dell’Illiria chiamato Pietro. Le sue mura si elevano sulla parte più alta e più scoscesa del monte, al di sopra di una stretta riva, dove il Tevere, allontanandosi da Roma, mormora frangendo le onde negli avanzi del ponte difeso da Orazio Coclite contro Porsenna. Due ordini di colonne antiche sorreggenti il tetto a travatura, dividono la chiesa in tre navate, terminata ciascuna da un altare. E’ la primitiva forma basilicale in tutto lo splendore della sua semplicità. Le ossa di S. Sabina, morta per Gesù Cristo ai tempi di Adriano, con le reliquie preziose di altri martiri, riposano sotto l’altare maggiore, presso il luogo del martirio della Santa, per quanto la tradizione ha potuto farlo conoscere.

Il palazzo Sabelli, abitato da Onorio III, era contiguo alla chiesa di S. Sabina; e di lassù fu spedita la bolla di approvazione dell’Ordine dei Frati Predicatori. Dalle finestre di questo palazzo, di cui una parte fu ceduta a Domenico, l’occhio spaziava liberamente sul centro di Roma, fino a riposarsi sulle colline del Vaticano.

Due vie scoscese e tortuose conducono alla città; una che va a riuscire al Tevere, l’altra ad un angolo del monte Palatino, presso la chiesa di S. Anastasia. Per quest’ultima Domenico andava da S. Sabina a S. Sisto; e per più di sei mesi quasi, ogni giorno discese e risalì quell’orta, per portare da un convento all’altro l’ardore della sua carità; talché nessun sentiero della terra conserva meglio l’impronta dei suoi passi.

Il viaggiatore che entri in S. Sabina, anche oggi uno dei principali monumenti di Roma, e percorra con attenzione quelle religiose navate, troverà in una cappella laterale antichi affreschi, uno dei quali rappresenta Domenico, che dona l’abito di Frate Predicatore ad un giovane, il quale gli sta dinanzi inginocchiato, mentre un altro è disteso per terra. Il volto di ambedue questi giovani è nascosto allo spettatore, pure egli si sente commosso. Sono due polacchi, Giacinto e Ceslao Odrowaz, venuti a Roma in compagnia del loro zio Ivo Odrowaz, eletto vescovo di Cracovia. Condotti a S. Sisto, probabilmente dal cardinale Ugolino, antico condiscepolo di Ivo all’Università di Parigi, si trovarono presenti alla resurrezione del giovane Napoleone. Avendo il vescovo pregato Domenico di dargli alcuni Frati Predicatori per la Polonia, il Santo gli rispose di non averne neppure uno pratico della lingua e dei costumi polacchi; soggiungendo che il miglior mezzo per propagare l’Ordine nella Polonia e nelle regioni del Nord, sarebbe stato che qualcuno del suo seguito si fosse sentito di prenderne l’abito. Giacinto e Ceslao si offrirono allora spontaneamente a Domenico. Si dice che fossero fratelli; certo appartenevano alla medesima famiglia, somigliantissimi di cuore come di parentado. Consacratisi a Gesù Cristo con la vita sacerdotale, avevano fatto nella loro patria molto onore al Maestro; la giovinezza stessa pareva in essi una virtù. Giacinto era canonico della chiesa di Cracovia, Ceslao prefetto o preposto della chiesa di Sandomir. Presero insieme l’abito a S. Sabina con due altri compagni di viaggio, ricordati nella storia domenicana con i nomi di Enrico di Moravia ed Enrico di Teutonia. Così anche la Polonia e la Germania, soli paesi d’Europa che fino allora non avessero dati figlioli all’Ordine dei Frati Predicatori, offrirono in quel giorno il loro tributo, su quella misteriosa collina, che i romani non comprendevano nel loro sacro recinto, ed il cui nome significa soggiorno d’uccelli.

Come son semplici e insieme meravigliose le vie del Signore! Ugolino Conti, italiano, e Ivo Odrowaz, polacco, s’incontrano all’Università di Parigi; là passano insieme qualche giorno della loro gioventù; poi il tempo, che conferma o dilegua le amicizie come ogni altra cosa, apre fra i loro cuori un abisso di quaranta e più anni. Ivo, promosso all’episcopato, è costretto a portarsi a Roma, e ritrova fra i porporati l’amico della sua giovinezza. Un giorno il cardinale conduce il suo ospite a S. Sisto per fargli conoscere un uomo, di cui neppure il nome gli era giunto mai alle orecchie; ed in quel giorno stesso la virtù di un tale uomo splendidamente si manifesta con un atto della più grande possanza, con un comando imperioso sulla vita e sulla morte. Ed Ivo ne rimane sorpreso, e chiede subito a Domenico alcuni frati, senza neppure immaginare d’esser lui andato prima a Parigi, e ora venuto a Roma, per condurre a Domenico quattro nobili figli del Settentrione, predestinati da Dio a fondar conventi di Frati Predicatori in Germania, in Polonia, in Prussia, e perfino nel cuore della Russia.

Giacinto e i suoi compagni non rimasero a S. Sabina che pochissimo tempo. Appena ebbero sufficiente cognizione delle regole dell’Ordine, se ne ripartirono con il vescovo di Cracovia. Passando per Friesach, città degli antichi Norici, fra la Drava ed il Murli, si sentirono mossi dallo Spirito Santo ad annunciarvi la divina parola. La loro predicazione scosse talmente quel paese che, avvalorati da tale successo, deliberarono senz’altro di fondarvi un convento. Fu eretto difatti in sei mesi e popolato da gran numero di frati, sotto la direzione di Ermanno il Teutonico.

Giunti a Cracovia, il vescovo donò loro una casa di legno, appartenente al vescovado, perché ne facessero un convento. Queste le primizie dell’Ordine nelle regioni settentrionali. Ceslao fondò poi i conventi di Praga e di Breslavia; e Giacinto, prima di morire, giunse a piantare le tende domenicane fino a Kiow, sotto gli occhi dei greci scismatici e in mezzo allo strepito delle invasioni barbariche.

Sembrava che il Mezzogiorno ed il Settentrione facessero a gara nell’inviare a Domenico numerosissimi operai. C’era in Francia un celebre dottore per nome Reginaldo, che aveva insegnato per cinque anni diritto canonico a Parigi, ed ora decano del capitolo di S. Agostino d’Orleans. Nell’anno 1218 si recò a Roma per visitarvi la tomba dei Santi Apostoli, con il proposito di passar poi a Gerusalemme a venerarvi il santo sepolcro di Cristo. Questo duplice pellegrinaggio doveva essere, secondo lui, il preludio di un nuovo genere di vita, che aveva in animo di abbracciare. “Dio gli aveva ispirato di abbandonar tutto e darsi a predicare il Vangelo; ed egli si preparava a questo nobile ministero, senza però saper dire a se stesso come l’avrebbe adempiuto. Ignorava che esistesse già un Ordine di Predicatori; e parlando confidenzialmente con un cardinale, gli aprì il suo cuore, manifestandogli di voler lasciar tutto, per predicare dovunque Gesù Cristo, in uno stato di perfetta povertà. Allora il cardinale gli disse: Ecco, vi è un Ordine sorto da poco tempo che ha per scopo di unire insieme la pratica della povertà con l’ufficio della predicazione ed il Maestro stesso di questo nuovo Ordine si trova ora qui, a Roma, e predica anch’egli la parola di Dio. Udito ciò, il maestro Reginaldo andò tutto sollecito in cerca del Beato Domenico per aprirgli l’animo suo. La vista del Santo e la grazia del suo parlare subito lo attrassero; risolvé senz’altro di entrare nell’Ordine. L’avversità però, prova di tutti i santi propositi, non tardò a contrastare anche questo. Reginaldo cadde malato così gravemente, che i medici disperavano ormai di salvarlo, e pareva destinato a soccombere sotto gli assalti della morte. Il Beato Domenico, dolente di dover perdere un figliolo prima ancora di averlo potuto stringere al seno, si rivolse alla divina misericordia, scongiurandola vivamente, come egli stesso raccontò poi ai frati, di non strappargli un figliolo concepito appena, anziché nato; e di concedergli che vedesse almeno la luce, fosse pure per breve tempo. Mentre Domenico così, pregava, la beata Vergine Maria, madre di Dio e Signora dell’universo, accompagnata da due giovani donzelle d’incomparabile bellezza, apparve a maestro Reginaldo. Era egli desto, e giaceva in letto, arso da una febbre ardente, quando udì la Regina del Cielo parlargli in questo modo: Domandami quel che vuoi, ed io te lo concederò. Mentre Reginaldo stava deliberando fra se e se, una delle donzelle, che accompagnavano la Beata Vergine, gli suggerì di non chieder nulla, ma di rimettersi alla volontà della Regina delle misericordie; ed egli ben volentieri acconsentì. Allora Maria con la virginea sua mano gli fece un’unzione sugli occhi, sulle orecchie, sul naso, sulla bocca, sulle mani, sui reni e sui piedi, pronunziando insieme alcune parole corrispondenti a ciascuna unzione. Io ho potuto sapere soltanto le parole proferite nell’unzione dei reni e dei piedi. Ungendo dunque i reni Essa disse: – Che i tuoi reni siano cinti con il cingolo della castità. – Ed ungendo i piedi: – Che i tuoi piedi siano forti per la predicazione del Vangelo di pace. – Poi gli mostrò l’abito dei Frati Predicatori, soggiungendo: – Ecco l’abito del tuo Ordine – e disparve. Unto che fu dalla madre di Colui che ha il segreto di rendere a tutti la sanità, Reginaldo si sentì subito guarito; e la mattina seguente quando Domenico venne a visitarlo e gli domandò premurosamente come si trovasse, gli rispose di non aver più male alcuno; e raccontò la visione. Con animo pieno di gratitudine resero allora insieme e devotamente, come io penso, grazie a quel Dio che atterra e suscita, che affanna e che consola; ed i medici restarono meravigliati di una guarigione istantanea e tanto insperata, non sapendo qual mano avesse apprestato il rimedio”.

Tre giorni dopo, mentre Reginaldo stava seduto con Domenico e con un religioso dell’Ordine degli Ospitalieri, fu ripetuta visibilmente su di lui la miracolosa unzione, come se l’augusta Madre di Dio attribuisse a quell’atto un’importanza speciale, e le premesse di eseguirlo dinanzi a testimoni. In verità Reginaldo era in quel momento il rappresentante dell’Ordine dei Frati Predicatori, e la Regina del cielo e della terra rinnovava alleanza per suo mezzo con l’Ordine intero. Il Rosario era stata la prima manifestazione di tale alleanza, e come un gioiello donato all’Ordine nel suo battesimo: l’unzione di Reginaldo, indizio di virilità e di confermazione, doveva anch’essa avere il suo segno durevole e commemorativo. Fu per questo che la Beata Vergine, mostrando al nuovo frate l’abito dell’Ordine, non glielo presentò quale allora si portava, ma con un notevole cambiamento, di cui è d’uopo ora parlare.

Dicemmo già che Domenico, per lungo tempo canonico di Osma, aveva continuato a portarne l’abito anche in Francia, e l’avea anzi adottato per il suo Ordine. Consisteva tale abito in una tonaca di lana bianca con sopra una cotta di lino, e poi un mantello ed un cappuccio di lana nera. Nell’abito invece che la Vergine SS. mostrò a Reginaldo, la cotta di lino era surrogata da uno scapolare di lana bianca, semplice striscia o telo di stoffa, che, scendendo davanti e di dietro fino alle ginocchia, copre le spalle ed il petto. Di tale specie di vestimento se ne parla anche nelle vite dei monaci d’Oriente, i quali l’usarono, senza dubbio, a rifinimento della tonaca, quando il lavoro od il caldo li costringeva a deporre il mantello. Nato dunque nel deserto da un sentimento di pudore, e quasi velo sopra il cuore dell’uomo, lo scapolare divenne nella tradizione cristiana simbolo della purità, e per conseguenza l’abito di Maria, regina dei Vergini. Nel tempo stesso dunque che Ella nella persona di Reginaldo cingeva del cingolo della castità i reni dell’Ordine e ne fortificava i piedi per la predicazione del Vangelo di pace, gli additava ancora nello scapolare il simbolo esteriore di quell’angelica virtù, senza la quale è impossibile di sentire e di annunciare le cose del cielo.

Dopo questo grande avvenimento, uno dei più celebri nella storia domenicana, Reginaldo partì per Terra Santa; vedremo poi quando ne ritornasse. L’Ordine intanto, lasciata la cotta di lino, prese lo scapolare di lana, divenuto d’allora in poi la parte principale e caratteristica dell’abito domenicano. Quando difatti il frate predicatore fa la sua professione, il Priore, nel riceverne i voti, gli benedice solo lo scapolare; né alcuno può uscir mai dalla cella senza averlo indosso, neppure quando è portato alla tomba.

La Vergine Santissima, manifestò anche in altri modi la materna sua tenerezza verso l’Ordine.

Una sera Domenico era rimasto in chiesa a pregare; ne uscì alla mezzanotte, passando per il dormitorio dove i frati nelle rispettive celle riposavano. Fatto ciò che doveva, si pose nuovamente a pregare in un’estremità del corridoio; e, volti per caso gli occhi all’altra estremità, vide tre donne che si avanzavano. Quella di mezzo era la più bella e la più veneranda. Una delle compagne portava un magnifico vaso, l’altra un’aspersorio che presentava alla Signora. Questa aspergeva i frati, facendo sopra di essi il segno della croce; giunta però alla porta di un certo frate passò innanzi senza benedirlo. Domenico, notato chi fosse quel frate, si diresse verso colei che benediceva, giunta ormai a metà del corridoio ov’era sospesa una lampada; e prostrato ai suoi piedi la supplicò, sebbene l’avesse già riconosciuta, di dirgli chi ella fosse. In quel tempo non si cantava ancora dai frati e dalle suore di Roma la bella e devota antifona Salve Regina, ma solamente si recitava in ginocchio dopo Compieta. La donna dunque che benediceva, rispose al B. Domenico – Io sono colei, che invocate tutte le sere; ed allorché ripetete eja ergo advocata nostra, anch’io mi prostro a pregare mio figlio per la conservazione di questo Ordine. – Poscia il beato Domenico le richiese ancora chi fossero le due giovani donne, che l’accompagnavano. E la Vergine benedetta: – Una, rispose, è Cecilia, l’altra Caterina. – Il beato Domenico le domandò ancora perché avesse lasciato un frate senza benedire; e gli fu risposto: – perché non era in una conveniente positura. – E terminato che fu il giro, e benedetti gli altri frati, disparve. Il beato Domenico tornò allora a pregare nel luogo stesso di prima; appena cominciata la preghiera fu rapito in spirito fino a Dio. Vide allora il Signore che aveva alla destra la Vergine benedetta, rivestita, sembravagli, di una cappa colore zaffiro; e guardando ancor meglio vide innanzi a Dio religiosi di tutti gli Ordini, meno che del suo, di cui non ce n’era neppur uno. Ciò gli cagionò amaro pianto; né si sentì il coraggio di avvicinarsi di più al Signore e alla sua santa Madre. La Madonna gli fece cenno di accostarsi, ma non aveva ardire di farlo; finché il Signore stesso lo chiamò. Allora si fece innanzi, e piangendo amaramente, si prostrò ai loro piedi. Il Signore gli ordinò di alzarsi, ed alzato che fu, gli disse: – Perché piangi? – Piango, rispose, perché vedo qui religiosi di tutti gli Ordini, e nessuno del mio. – Ed il Signore a lui: – Vuoi tu vedere il tuo Ordine? – Sì, o Signore, rispose tremando. – Il Signore pose allora la mano sulla spalla della beata Vergine, e disse al beato Domenico – Io ho affidato il tuo Ordine a mia Madre. – E poi soggiunse: – Vuoi assolutamente vedere il tuo Ordine? – E Domenico: – Sì, o Signore. – Allora la beata Vergine aprì il manto che aveva indosso e stesolo dinanzi al beato Domenico in modo da ricoprire con la sua immensità tutta la patria celeste, apparvero sotto di esso una moltitudine di Frati Predicatori. Si prostrò allora il beato Domenico per rendere grazie a Dio ed alla sua Madre, la Vergine Maria; e la visione disparve. Suonava la campana del Mattutino quando Domenico ritornò ai sensi. Finito Mattutino, egli convocò i frati in capitolo, e dopo un bel discorso sull’amore e sulla devozione ch’essi dovevano avere verso la Beata Vergine, narrò loro la visione. All’uscir poi dal Capitolo fermò in disparte il frate, che la Beata Vergine non aveva benedetto, e con dolcezza lo richiese se mai avesse taciuto qualche peccato segreto; perché costui aveva fatto al beato

Domenico la confessione generale. – Padre santo, rispose, niente mi rimorde nella coscienza, se non forse che questa notte, svegliatomi, mi son trovato scoperto nel letto. – Il beato Domenico prese occasione da ciò per ordinare che i frati, qualunque fosse il luogo dove riposassero, si ponessero sempre in letto cinti ai reni e con le calze. Il Santo stesso raccontò la visione a Suor Cecilia e alle altre monache di S. Sisto, ma come avuta da un altro; i frati però, che erano presenti, facevano segno alle suore che l’aveva avuta lui medesimo”.

La seconda domenica di quaresima, cioè pochi giorni dopo il trasferimento delle suore a S. Sisto, Domenico fece in chiesa una solenne predica alla presenza di molto popolo, e cacciò il demonio dal corpo d’una donna, che con i suoi gridi disturbava gli astanti.

Un’altra volta, presentatosi inaspettatamente alla ruota del monastero, domandò alla rotaia come stessero le suore Teodora, Tedrana e Ninfa; ed avutane risposta che avevano la febbre, egli soggiunse: “Andate a dire da parte mia che io do loro ordine di non aver più, febbre”. La rotaia andò, e dal momento che intimò loro l’ordine del Santo, esse si sentirono guarite.

Era costume del venerabile Padre di spendere tutto il giorno a guadagnare anime, sia con la predicazione, sia confessando, sia praticando altre opere di carità. La sera poi andava a trovare le suore, ed in presenza anche dei frati faceva loro un discorso o una conferenza sui doveri dell’Ordine; perocché da lui stesso furono in ciò istruite. Ora avvenne che una sera tardò più del solito ad arrivare, e le suore, persuase che ormai non venisse più, terminate le preghiere, si ritirarono nelle loro celle. Ma ecco che ad un tratto suona la campanella con la quale i fratelli davano il segnale alle suore che il beato Padre era venuto a trovarlo. Si affrettarono esse allora di andare in chiesa, ed aperta la grata, trovarono ch’egli era già seduto con i suoi frati ad aspettarle. Il beato Domenico disse loro: – Figlie mie, io ritorno dalla pesca, e il Signore mi ha fatto prendere un gran pesce. Ed intendeva parlare di fra Gaudione, unico figlio di un certo signore Alessandro, cittadino romano ed uomo munificentissimo da lui ricevuto nell’Ordine. Tenne poi un lungo discorso, che fu a tutti di grande consolazione; e dopo soggiunse: – Sarà bene, o figliole, che beviamo un poco. – E chiamato fra Ruggero, che era il canovaio, gli disse di portare del vino ed una tazza. Il fratello portò tutto, ed il beato Domenico gli fece empir la tazza fino all’orlo; poi la benedì, bevve per il primo, e dopo lui bevvero tutti gli altri frati che erano presenti, fra chierici e laici in numero di venticinque. E tutti bevvero finché loro piacque, senza che il vino diminuisse nella tazza. Quando tutti i frati ebbero bevuto, il beato Domenico soggiunse: – Voglio che bevano anche queste mie figlie. – E chiamata suor Nubia: Andate, le disse, alla ruota, prendete la tazza e date da bere a tutte le suore. – Andò essa con una compagna, portò la tazza che era pienissima, senza versarne nemmeno una goccia, e prima bevve la priora, poi tutte le altre finché ne vollero; ed il beato Padre ripeteva sovente: – Bevete a piacer vostro, o mie figliole. – Erano esse centoquattro, e tutte bevvero a piacimento loro; nondimeno la tazza restò sempre piena, come se non si fosse fatto altro che versarvi continuamente vino; e quando fu riportata via, era piena ugualmente fino all’orlo. Dopo tutto questo, Domenico disse: – Il Signore vuole ch’io vada a S. Sabina. – Fra Tancredi priore dei frati, e fra Oddone, priore delle monache, e gli altri frati, e la priora con le suore furono tutti a scongiurarlo di non partire, soggiungendo: – Ma, Padre santo, l’ora è tarda; siamo vicini alla mezzanotte, e non conviene di mettersi in cammino. Ma egli, anziché arrendersi alle loro preghiere, rispose: – Il Signore vuole assolutamente ch’io parta; ci farà accompagnare da un angelo. – E preso con sé Tancredi, priore dei frati, e Oddone, priore delle monache, si dispose a partire. Alla porta della chiesa, mentre tutti e tre stavano per uscire, ecco che secondo la promessa del beato Domenico un giovane di ammirabile bellezza, con in mano un bastone, come chi debba porsi in viaggio, si offrì di unirsi a loro. Il beato Domenico fece passare innanzi a sé i due compagni; il giovane si trovò così alla testa ed egli dietro a tutti: e con quest’ordine andarono fino alla porta della chiesa di S. Sabina, che trovarono chiusa. Il giovane, che li aveva preceduti, si appoggiò allora ad una parte della porta, la quale subito si aprì; vi entrò egli per primo; e dietro di lui entrarono i frati, ultimo il beato Domenico. Di poi il giovane ne riuscì, e la porta si richiuse. Fra Tancredi disse al beato Domenico: – chi era quel giovane, che ci ha accompagnati? Figlio mio, rispose, era un angelo inviato dal Signore per nostra scorta. – Frattanto suonò il mattutino, e i frati, scesi in coro, si meravigliarono di trovarvi Domenico con i suoi compagni, curiosi di sapere come fossero entrati, mentre le porte erano chiuse.

C’era in convento un novizio, cittadino romano, che si chiamava fra Giacomo, il quale vinto da una fiera tentazione, aveva risoluto di lasciar l’Ordine appena finito il Mattutino; quando cioè si sarebbero aperte le porte della chiesa. Domenico, avutane rivelazione, finito il Mattutino fece chiamare il novizio, e dolcemente l’esortò a non cedere alle arti del nemico, ma a perseverare con coraggio nel servizio di Cristo. Ma il giovane sordo a quei consigli, ed a quelle preghiere, alzatosi risolutamente, si levò l’abito, soggiungendo di essere ormai irrevocabilmente deciso di andarsene. Il pietosissimo Padre, mosso a compassione, soggiunse: – Figliolo mio, aspetta ancora un poco, e poi farai quel che più ti piacerà. – E prostrato a terra si pose a pregare. Si conobbe allora quali fossero i meriti del beato Domenico al cospetto di Dio, e con quanta facilità ottenesse da Lui quanto desiderava. Poiché non aveva egli finita la sua preghiera, che già il giovane, piangente ai suoi piedi, lo scongiurava di rendergli l’abito, che, vinto da una tentazione, aveva dismesso, promettendo che mai più avrebbe abbandonato l’Ordine. Il venerabile Padre gli restituì allora l’abito, ammonendolo nuovamente di restar fermo nel servizio di Cristo. E così fu; fra Giacomo visse lungamente nell’Ordine e in modo edificantissimo. Il giorno appresso, Domenico in mattinata tornò con i suoi frati a S. Sisto; questi raccontarono in sua presenza a Suor Cecilia ed alle altre monache tutto l’accaduto; ed il beato confermò allora la narrazione con queste parole: – Figlie mie, il nemico di Dio voleva rapire una pecora dall’ovile del Signore, ma il Signore l’ha liberata dalle sue grinfie”.

L’anno 1575, sotto il pontificato di Gregorio XIII, le monache di S. Sisto, lasciato il loro antico monastero a motivo della malaria della campagna romana, si ritirarono sul Quirinale, nel nuovo monastero dei Santi Domenico e Sisto, portando seco l’immagine della SS. Vergine. San Sisto allora, spogliato di tutto, restò là nella solitudine, sotto il solo usbergo delle sue memorie. Non marmi preziosi, non bronzi cesellati, non colonne tolte dal cristianesimo alle antichità profane, non tavole di pittori immortali, nulla insomma di ciò che colpisce lo sguardo, invita a visitarlo. Il viaggiatore che, dal sepolcro di Cecilia Metella e dal bosco della ninfa Egeria tornando in Roma per la via Appia trova a destra un grande e squallido edifizio, sormontato da un alto campanile – così rari in Roma – passa innanzi senza neppure chiederne nome. Che importa a lui di S. Sisto vecchio? E coloro stessi che rintracciano con amore le vestigia dei Santi, non conoscono il tesoro che sta nascosto fra quelle mura, rimaste sempre nella loro umiltà. Anche essi tirano innanzi, senza che indizio alcuno li avverta che in quel luogo abitò uno dei più grandi uomini del cristianesimo, e vi operò tanti miracoli. Il cortile esterno, la chiesa, la fabbrica del monastero, il recinto, rimangono tuttora, e fino agli ultimi tempi della Rivoluzione francese i generali dell’Ordine vi conservarono un appartamento. Nel secolo passato, in primavera ed in autunno, soleva passarvi alcuni giorni il Sommo Pontefice Benedetto XIII, che ne restaurò la chiesa cadente. Presentemente, il corpo del monastero è trasformato in pubbliche officine, tranne la famosa sala del Capitolo, ove Domenico risuscitò tre morti, ed ove ora è eretto un’altare nel luogo stesso in cui Domenico offrì il santo Sacrificio per il giovane Napoleone. La chiesa è rimasta una delle stazioni del clero romano, ed il mercoledì della terza settimana di Quaresima vi si celebrano solennemente i divini uffici.

A S. Sabina è toccata miglior sorte. E’ vero che fino dall’anno 1273, sotto il pontefice Gregorio X, cessò di essere la residenza del generale dell’Ordine, passato al convento di S. Maria sopra Minerva, nel centro di Roma; e solitario, come la via Appia, è l’Aventino, dove neppur gli uccelli, suoi primi ospiti, abitano più. Ma, una colonia di figli di S. Domenico è rimasta sempre all’ombra delle mura di S. Sabina, alla cui conservazione influì molto anche la bellezza della sua architettura. Nella chiesa, su un tronco di colonna, vedesi una grossa pietra nera, che la tradizione vuole sia stata gettata dal demonio contro Domenico, per disturbargli le sue notturne meditazioni; e nel convento si trova la piccola cella, dove egli talvolta si ritirava, e la sala, dove diede l’abito a S. Giacinto ed al B. Ceslao. In un angolo del giardino poi, un arancio piantato da Domenico offre ancora i suoi pomi d’oro alla mano pietosa del cittadino e del forestiero.

CAPITOLO XII Fondazione dei conventi di S. Giacomo di Parigi, e di S. Nicolò di Bologna.

I frati inviati da Domenico a Parigi dopo la riunione di Prouille, si erano divisi in due gruppi: Mannes, Michele di Fabra ed Oderico giunsero al loro destino il 12 settembre; Matteo di Francia, Bertrando di Garriga, Giovanni di Navarra e Lorenzo d’Inghilterra arrivarono tre settimane più tardi. Scelsero l’abitazione nel centro della città, in una casa presa affitto, accanto all’ospedale di Notre-Dame, alle porte del vescovado. Se si eccettua Matteo di Francia, che aveva passata una parte della sua gioventù alle scuole dell’Università, nessuno di loro era conosciuto in Parigi. I primi dieci mesi quindi li passarono nelle più grandi ristrettezze, confortati solo dal pensiero di Domenico e da una rivelazione avuta da Lorenzo d’Inghilterra sul futuro loro destino.

Giovanni di Barastre, decano in quel tempo di San Quintino, cappellano del re e professore all’Università di Parigi, aveva fondato presso una porta della città, chiamata la porta di Narbona o d’Orléans, un ospizio per i forestieri poveri. La cappella dell’ospizio era stata dedicata a S. Giacomo Apostolo, assai celebre nella Spagna, la cui tomba fu uno dei termini nei grandi pellegrinaggi del mondo cristiano. Sia che i frati spagnoli si recassero colà per devozione, sia per altre ragioni, Giovanni di Barastre venne a sapere esservi a Parigi dei nuovi religiosi, i quali predicavano il Vangelo alla maniera degli Apostoli. Cercò subito di conoscerli, e conosciutili, li ammirò, li amò, comprese l’importanza della loro missione, e senz’altro il 6 agosto li mise in possesso dell’ospizio di San Giacomo, da lui fatto edificare per Gesù Cristo, personificato nei forestieri poveri, il quale, in riconoscenza, gl’inviava ospiti più illustri assai di quello che Giovanni si sarebbe aspettato, e trasformava il modesto asilo della porta d’Orléans in abitazione di apostoli, in scuola di dotti, in tomba di re. Il 3 maggio del 1221 Giovanni di Barastre confermò con atto autentico la donazione fatta ai frati, e l’Università di Parigi, a richiesta di Onorio III, rinunciò a tutti i diritti ch’essa aveva su quel luogo, a condizione però che i suoi dottori, a titolo di fratellanza, vi fossero onorati in morte con i medesimi suffragi spirituali dei membri dell’Ordine.

Provveduti così di stabile e pubblica dimora, i Frati cominciarono ad esser sempre più conosciuti. Era un accorrere ad ascoltarli; ed essi moltiplicavano le conquiste specialmente fra quella moltitudine di studenti che da ogni parte d’Europa conveniva a Parigi, portandovi, insieme al genio diverso delle nazioni, il comune ardore della gioventù. Nell’estate del 1219 il convento di S. Giacomo contava già trenta religiosi. Fra tutti quelli però che allora presero l’abito, il solo di cui sia rimasta memoria, è Enrico di Marbourg. Da più anni era stato mandato a Parigi da un suo zio, cavaliere molto cristiano, che abitava nella città di Marbourg. Lo zio, dopo morte, gli era apparso in sogno, e gli aveva detto: “Prendi la croce in espiazione delle mie colpe, e vai al di là dei mari. Tornato che sarai da Gerusalemme, troverai a Parigi un nuovo Ordine di Predicatori, ai quali ti unirai anche tu. Non ti spaventi la loro povertà, né ti ritragga l’esiguo loro numero; perocché diverranno un popolo, e saranno potenti per la salute delle anime”. Andò Enrico oltremare, e tornato a Parigi quando i Frati vi si erano già stabiliti, abbracciò senza esitazione la loro regola, e fu uno dei primi e più celebri predicatori del convento di S. Giacomo. Il re S. Luigi prese ad amarlo, e lo condusse seco in Palestina l’anno 1254. Morì ritornando in Francia in compagnia del re.

Ecco un tratto di storia riguardante i primordi dei Frati a Parigi:

Accadde che due frati itineranti, non avendo mangiato ancor nulla alle tre del dopo pranzo, si domandavano l’un l’altro come soddisfare alla fame in un paese povero e sconosciuto come quello che attraversavano. Or mentre tenevano tali discorsi, un uomo, in abito da viaggio, si fece loro innanzi e disse: – Di che andate voi ragionando, o uomini di poca fede? Cercate prima di tutto il regno di Dio, ed il resto vi sarà dato in abbondanza. Avete avuto tanta fede da sacrificare tutto per Iddio, ed ora avete paura ch’Egli vi lasci senza pane? Traversate questo campo, e giù nella valle sottostante troverete un villaggio. Entrate in chiesa, e vedrete che il prete di quella chiesa v’inviterà; sopraggiungerà poi anche un cavaliere, il quale vorrà che in ogni modo andiate da lui; allora il patrono della chiesa per sciogliere ogni litigio condurrà il prete, il cavaliere e voi a casa sua, e sarete trattati magnificamente. Confidate dunque nel Signore, ed eccitate questa fiducia anche nei vostri fratelli. – Ciò detto, scomparve ed ogni cosa avvenne come era stato annunciato. I frati tornati a Parigi raccontarono l’accaduto a fra Enrico e agli altri frati, pochi di numero e poverissimi, che allora si trovavano colà”.

L’estrema povertà del convento di Parigi fu, forse, la causa per cui due religiosi, cioè Giovanni di Navarra e Lorenzo d’Inghilterra, fecero in modo dì riunirsi a Domenico in Roma. Giunti che vi furono, e fu nel gennaio del 1219, il Santo ordinò a Giovanni di Navarra di andare a Bologna, insieme ad un altro religioso, chiamato dagli storici “un certo Bertrando” per distinguerlo da Bertrando di Garriga. Poco dopo inviò colà anche Michele di Uzero e Domenico di Segovia, tornati dalla Spagna, e tre altri frati, Riccardo, Cristiano e Pietro, che era laico. Il piccolo drappello poté ottenere a Bologna, non si sa come, una casa ed una chiesa detta S. Maria di Mascarella; però versavano in grandi strettezze, impotenti, com’essi erano, a sostenere le esigenze di una grande città, in cui la religione, gli affari, i piaceri hanno il loro corso ordinario, ed in cui la novità stessa non attira a sé l’ammirazione, che a difficili condizioni. Tutto però cambiò aspetto all’arrivo di un uomo, Reginaldo, che ritornato dalla Terra Santa, fu a Bologna il 21 dicembre 1218. La città ne fu subito scossa. Niente è paragonabile ai successi della divina eloquenza di lui; in otto giorni Reginaldo fu padrone di Bologna. Ecclesiastici, giureconsulti, professori, studenti d’Università, entrarono a gara in un Ordine poco prima affatto sconosciuto, anzi disprezzato; ed alcuni fra i più spiritosi, giunsero al punto di doversi astenere dall’ascoltarlo, per timore di esser sedotti dalla sua parola.

Quando fra Reginaldo, di santa memoria, predicava a Bologna, scrive uno storico, attirando all’Ordine rinomati dottori ed ecclesiastici, maestro Moneta, uomo celebre in tutta la Lombardia, e che allora insegnava le arti, dietro la conversione di tanti uomini, cominciò a temere di se medesimo; e procurava di star lontano da fra Reginaldo, cercando di tenerne lontani i suoi scolari. Nondimeno il giorno della festa di S. Stefano i suoi discepoli insisterono per andare con lui al sermone; e sia che per riguardo a loro, sia che per altri motivi non se ne potesse liberare, propose di andar prima ad ascoltare la Messa a S. Procolo. Vi andarono ed ascoltarono non una, ma tre Messe. Moneta cercava a bella posta di tirarla in lungo, per poi non fare più in tempo alla predica. Ma i suoi scolari lo sollecitavano; ond’egli finalmente: – E andiamo. – Quando giunsero alla chiesa il sermone non era ancora terminato; però tanta era la calca della gente, che Moneta fu costretto a rimanere sulla porta. Ciò nonostante, tendere per un momento l’orecchio, ed esser vinto fu tutt’una. L’oratore in quel momento esclamava: – Ecco ch’io veggo i cieli aperti! Sì, i cieli sono aperti per chi vuol vedere e per chi vuole entrare; le porte sono aperte per chi vuol passare. Non chiudete il vostro cuore, e la bocca, e le mani, affinché anche i cieli non si chiudano dinanzi a voi. Perché indugiate? I cieli sono aperti. – Reginaldo era appena sceso del pulpito, che Moneta fu subito a trovarlo; gli aprì il suo cuore, gli espose le sue condizioni, e fece voto d’obbedienza nelle sue mani. Legato com’era da molti impegni, di consenso con fra Reginaldo, vestì ancora per un anno l’abito secolare; in questo frattempo si studiò con ogni mezzo di condurre a Reginaldo sempre più ascoltanti e discepoli. Vi conduceva ora l’uno, ora l’altro; e ad ogni nuova conquista pareva che anche lui prendesse l’abito, insieme a quelli che lo prendevano”.

Il convento di S. Maria della Mascarella non bastando più a contenere i frati, Reginaldo per mezzo del cardinale Ugolino, allora legato apostolico in quelle provincie, ottenne dal vescovo di Bologna la chiesa di S. Nicolò delle Vigne, vicino alle mura, in aperta campagna. Rodolfo cappellano della chiesa, uomo dabbene e pieno di timor di Dio, non che opporsi alla generosità del vescovo verso i Frati, prese l’abito egli stesso. Raccontava che prima della venuta dei Frati a Bologna, una povera donna, molto disprezzata dagli uomini, ma prediletta da Dio, spesso si metteva a pregare vicino alla vigna dove poi sorse il convento di S. Nicolò. E quando altri si beffava di lei, come se adorasse la vigna: “O miseri ed insensati, rispondeva; se sapeste quali uomini abiteranno questo luogo, quali avvenimenti vi si succederanno, anche voi vi prostrereste ad adorare il Signore. Il mondo intero sarà illuminato da coloro che qui abiteranno”.

Un altro frate, Giovanni di Bologna, narrava che i coltivatori della vigna di S. Nicolò spesso vi avevano veduto delle fiammelle ed altri splendori. Fra Chiarino si ricordava che quando era ancor fanciullo, passando un giorno vicino a quella vigna, suo padre gli aveva detto: “In questo luogo spesse volte sono stati uditi angelici canti; e questo, o figlio, è un grande presagio per l’avvenire”. Ed opponendo il fanciullo che, potevano essere canti di uomini, il padre aveva risposto: “ben altra è la voce degli uomini e quella degli angeli, da non distinguerle”.

Nella primavera del 1219 i Frati passarono a S. Nccolò, dove, e per le prediche di Reginaldo, e per la fama delle loro virtù, nonché per una speciale protezione di Dio, che di tanto in tanto si manifestava con fatti meravigliosi, continuarono a moltiplicarsi. Uno studente dell’Università fu chiamato all’Ordine nel seguente modo. Una notte gli parve, dormendo, di trovarsi solo in un campo assalito da una tempesta, e di darsi a correre alla casa più vicina, per bussare e domandare ospitalità. Ma sentì invece una voce che rispondeva: “Io sono la Giustizia; e poiché tu non sei giusto non entrerai nella mia casa”. Bussò allora ad un’altra porta, ed anche lì gli fu risposto: “Io, sono la Verità, e non ti posso ricevere, perché la Verità libera quelli soli, che l’amano”. Si rivolse altrove, e ne venne parimenti respinto con queste parole: “Io sono la Pace, e non v’ha pace per l’empio, ma solamente per l’uomo di buona volontà”. Finalmente bussò ad una terza porta, ed una persona aprendogli: “Io sono la Misericordia, gli disse; se vuoi scampare dalla tempesta, vai al convento di San Nicolò, dove sono i Frati Predicatori. Là troverai la stalla della penitenza, la greppia della continenza, l’erba della dottrina, l’asino della semplicità, il bue della discrezione, Maria che t’illuminerà, Giuseppe che t’aiuterà, Gesù che ti farà salvo”. Lo studente, svegliatosi, prese il sogno come un avvertimento, e ci si attenne.

Non erano già umane attrattive che cooperavano alla conversione di questi giovani e di altri uomini omai avanti nella carriera dei pubblici uffici; che niente era più duro della vita dei Frati Predicatori. La povertà di un Ordine nascente si faceva sentire con ogni genere di privazioni; per il corpo e per lo spirito, affranti dalle fatiche apostoliche, il principale ristoro erano l’astinenza ed il digiuno; brevi notti passate malamente su duro letto, succedevano a lunghe giornate di lavoro; le più piccole trasgressioni della regola erano punite severamente. Un fratello converso, avendo accettato senza permesso del superiore non so qual pezzo di ruvida stoffa, ebbe per penitenza da Reginaldo di scoprirsi, come allora si costumava, le spalle, per ricevere alla presenza di tutti gli altri la disciplina. Il colpevole si ricusò; e Reginaldo fattolo spogliare fino alle spalle dai fratelli, con gli occhi lacrimosi e levati al cielo: “O Cristo Signor nostro, disse, che al vostro servo Benedetto deste la possanza di cacciare il demonio dal corpo dei suoi monaci con le verghe della disciplina, concedete anche a me la grazia di vincere la tentazione di questo povero fratello con il medesimo mezzo”. Ciò detto lo batté con tanta forza, che i frati presenti, se ne impietosirono fino alle lacrime. Così si domava la natura in quegli uomini, capaci d’altronde di sottostare a simili trattamenti: e di questa vittoria riportata su di loro stessi con la repressione cruenta dell’orgoglio e dei sensi, se ne servivano poi gloriosamente contro il mondo. Perché, e che poteva ormai il mondo su cuori così fortificati contro gli assalti dell’ignominia e del dolore? Cosa meravigliosa! La religione adopra ad innalzamento dell’uomo quei mezzi stessi, di cui il mondo si serve per avvilirlo; lo restituisce a libertà, facendolo schiavo; lo fa re, quando appunto lo crocifigge.

Né le austerità del chiostro erano le prove più dure per i giovani e per gli illustri novizi che si presentavano alla porta di S. Nicolò di Bologna. Principale pericolo per le istituzioni nascenti è la novità stessa in cui, come in oscuro orizzonte, vanno vagando le cose, che non hanno ancora storia. Quando un’istituzione, è provata dai secoli, emana dalle sue pietre come un profumo di stabilità, che rassicura l’uomo da tutte le dubbiezze del suo spirito. Ivi si adagia tranquillamente, come un fanciullo sulle ginocchia del suo avo; ivi è cullato, come il mozzo sopra un vascello, che cento volte abbia traversato l’oceano. Le opere nuove invece hanno una triste corrispondenza con le parti più deboli del cuore umano, ed a vicenda si, turbano. Né S. Nicolò di Bologna fu immune dalle cupe tempeste, che secondo le leggi della Provvidenza, debbono provare e purificare tutte le opere divine, in cui entri l’uomo come strumento.

Quando ancora, dice uno storico, l’Ordine dei Predicatori era come piccolo gregge o piantagione novella, i frati del convento di Bologna furono presi da così fiera tentazione di scoraggiamento, che molti di essi stavano già pensando a quale altro Ordine sarebbe stato meglio passare, persuasi che il loro, così recente e così debole, non avrebbe potuto durarla a lungo. Due dei più ragguardevoli avevano anzi ottenuto licenza da un legato apostolico di entrare fra i Cistercensi, e ne avevano presentate le lettere a fra Reginaldo, una volta decano d’Orléans, e allora vicario del beato Domenico. Fra Reginaldo, adunato il capitolo, espose con gran dolore la cosa; tutti i frati furono presi allora da incredibile turbamento di spirito, e proruppero in pianto. Muto e con gli occhi levati al cielo, Reginaldo parlava in cuor suo a Dio, in cui aveva riposte tutte le sue speranze. Fra Chiaro il Toscano, uomo di molta bontà e di grave autorità, il quale era stato professore di arti e di diritto canonico, e fu poi Priore della provincia romana, penitenziere e cappellano del Papa, si alzò a parlare. Aveva appena terminato il suo discorso, che entrò maestro Orlando di Cremona, famoso dottore e professore di filosofia in Bologna, ed il primo dei Frati Predicatori, che insegnasse teologia a Parigi. Era solo; ed ebbro pieno dello spirito del Signore, domandò senz’altro di prender l’abito. Fra Reginaldo, quasi fuori di sé per la gioia, si tolse allora il suo scapolare e glielo mise. Il sacrestano cominciò allora a suonar la campana, i frati intuonarono il Veni creator Spiritus, proseguendo a cantar tutto l’inno con voci soffocate dall’abbondanza delle lacrime di gioia, uomini, donne, studenti, riempirono la chiesa; alla notizia, che poi si sparse, la città tutta ne fu commossa; si ravvivò la devozione nei frati; ogni tentazione, ogni timore scomparve, e i due che avevano deliberato di mutar Ordine, corsero in mezzo al capitolo e rinunziando al permesso apostolico già ottenuto, promisero di rimanere perseveranti fino alla morte”.

Ecco come sorsero i due conventi di S. Nicolò di Bologna, e di S. Giacomo di Parigi, le due pietre angolari dell’edifizio domenicano. Là, al caldo delle più celebri università d’Europa, si vennero maturando elette schiere di dottori e di apostoli; là si adunarono ogni anno, o nell’uno o nell’altro dei due conventi, i rappresentanti di tutte le provincie dell’Ordine; là, di secolo in secolo fiorirono uomini, non superati mai dai loro contemporanei, i quali perpetuarono fra i popoli il rispetto dovuto alla religione, che li aveva nutriti. S. Nicolò di Bologna ebbe la gloria di aver fra le sue mura, Domenico negli ultimi giorni della sua vita, e di esserne la tomba: S. Giacomo di Parigi, divenne per altri aspetti, celebre sepoltura. Teneramente prediletto dal re S. Luigi, custodì sotto i suoi marmi i precordi di moltissimi reali di Francia. Roberto sesto figlio di quel santo monarca, e stipite della casa Borbone, fu ivi levato al fonte battesimale dal B. Umberto, quinto Generale dell’Ordine, e vi fu poi sepolto: il figlio, il nipote ed il pronipote colà lo raggiunsero, e i loro avanzi mortali non formarono che un solo sepolcro, sul quale fu scolpita questa iscrizione: “Qui riposa la stirpe dei Borboni – Qui il primo principe di tal casato è racchiuso – In questo sepolcro è quasi il germe dei re”. Singolare destino! Il convento di S. Giacomo dove la casa dei Borboni nella persona del suo primo capo era stata battezzata, e dove le prime quattro generazioni riposavano in pace, fu appunto il luogo da cui partirono i primi colpi contro il trono di Francia. I più implacabili nemici della monarchia tennero le loro congreghe in quel chiostro desolato, ed il nome, che i Domenicani francesi avevano tanto glorificato, non suonò più che sangue nella bocca delle nazioni. Presentemente di S. Giacomo non appariscono più neppur le rovine. Un ammasso di case e di baracche ne copre con ignobile ombra gli avanzi, e tanta è la noncuranza in cui è caduto, che forse la famiglia stessa dei Borboni non sa più che là era la tomba dei suoi maggiori. CAPITOLO XIII Viaggio di S. Domenico in Spagna ed in Francia. Sue veglie nella grotta di Segovia Modo di viaggiare e sistema di vita del Santo

Dopo un anno di fatiche, fondati finalmente i conventi di S. Sisto e di S. Sabina, Domenico rivolse il pensiero ai suoi primi figlioli inviati in lontane regioni; e fu preso dal desiderio di rivederli, per animarli sempre più, e ringraziare con essi il Signore così dei mali come dei beni che loro aveva mandati. Partì dunque da Roma nell’autunno del 1218, in compagnia di alcuni religiosi del suo Ordine e di un Frate Minore, chiamato Alberto, che si unì a loro nel viaggio. Arrivati non so in qual parte della Lombardia, si fermarono in un albergo, e si misero a tavola insieme agli altri viaggiatori, che ivi si trovavano. Fu portata della carne, ma Domenico ed i suoi non ne mangiarono. L’ostessa al vedere che questi si contentavano del solo pane e di un po’ di vino, s’indispettì contro il Santo e lo ricolmò di ingiurie. Invano, Domenico con grande pazienza e con buone procurò di calmarla; né lui, né gli altri commensali valsero a frenare in nessun modo quel torrente di maledizioni. Alla fine il Santo con tutta dolcezza le disse: “Figlia mia, affinché impariate a ricevere con più carità i servi di Dio, non fosse altro per rispetto al gran Signore a cui essi servono, io pregherò Gesù Cristo che v’imponga silenzio”. Appena dette queste parole, l’ostessa addivenne muta. Otto mesi dopo, tornando Domenico dalla Spagna e ripassando per il medesimo luogo, rivide l’ostessa, la quale gettatasi, piangendo dirottamente, ai suoi piedi, lo scongiurò dì perdonarle. Egli le fece il segno della croce sulla bocca, e subito le ritornò la loquela. Fra Alberto, il quale ci ha raccontato questo fatto, narra ancora come essendo stata lacerata da un cane la tonaca di Domenico, questi ne ricongiunse le parti con la mota, e riparò così lo strappo.

Valicate le Alpi, Domenico si trovò a ripassare per le vie della Linguadoca a lui sì note; tutto però in quelle contrade era cambiato. Egli non poté avere neppure la consolazione di pregare sulla tomba del conte di Montfort, suo magnifico amico; poiché le di lui spoglie mortali erano state trasportate all’Abbazia di Fontevraud, lungi da quella terra della quale egli era stato duca e conte, non valendo più la sua spada, venuta meno con lui, a proteggerne colà neppure la tomba. Domenico quindi, dato in fretta un bacio a S. Romano di Tolosa e a Notre-Dame di Prouille, affrettò il passo verso la sua patria, da cui mancava da quindici anni. Ne era partito semplice canonico di Osma; ora vi ritorna apostolo, taumaturgo, fondatore di un Ordine, legislatore, patriarca, martello delle eresie del suo tempo, uno dei più strenui difensori della Chiesa e della verità. Queste glorie erano il solo equipaggio, queste il solo bagaglio di Domenico; e chi lo avesse incontrato nelle gole dei Pirenei coll’occhio rivolto alla Spagna, l’avrebbe scambiato con un mendicante qualunque, che da paesi stranieri andasse a rifugiarsi sotto il bel sole d’Iberia. Verso qual parte diresse egli dapprima i suoi passi? Forse verso la valle del Duero? O forse era atteso nel palazzo, da cui la morte aveva cacciato il padre e la madre sua? Si recò forse a Gumiel d’Izan a pregare sulla loro tomba, o ad Osma su quella di Azevedo?

L’Abbazia di S. Domenico di Silos lo vide forse su quel pavimento, dove la sua madre era stata consolata da enimmatici presagi? La storia tace su tutto ciò; d’altronde non era necessario raccontare quello che il cuore del Santo da se stesso ci avrebbe fatto conoscere. Egli aveva imparato da Gesù Cristo a nobilitare tutti i naturali sentimenti, senza distruggerne alcuno; ed il primo luogo in cui con certezza lo ritroviamo in Spagna, è prova della tenerezza sempre nutrita per il suo paese natale, La storia difatti lo rimette in vista a Segovia, città vicina ad Osma e fra le prime della Castiglia, ricoverato nella casa di una povera donna, la quale ben presto ebbe a rallegrarsi del gran tesoro, che aveva accolto presso di sé. Fin dal tempo che dimorava nella Linguadoca Domenico era stato solito portare sul suo corpo un ruvido cilicio di lana o di crine. Essendo dunque a Segovia presso la detta donna, si levò la camicia di lana che aveva, per prenderne un’altra di tessuto più ruvido. La buona donna se ne accorse, e per sentimento di venerazione, chiuse in un forziere la camicia, che il Santo si era levata. Dopo qualche tempo, mentre essa era fuori di casa, la camera prese fuoco e tutti i mobili furono distrutti; solo il forziere che conteneva le migliori sue robe e la reliquia, rimase intatto.

Un altro miracolo eccitò la pubblica riconoscenza degli abitanti di Segovia verso Domenico. Si era già alle feste di Natale del 1218, ed un’ostinata siccità aveva sempre impedito di poter seminare. Tutto il popolo, adunato fuori della città, innalzava comuni preci al Signore per implorare la fine di tale flagello. Domenico, levatosi di mezzo alla folla, rivolse al popolo buone parole, che però non valsero a dissipare la generale inquietezza, e finalmente esclamò: “Ma via, cessate, o fratelli miei, da questi vostri timori, e confidate nella misericordia del Signore; oggi stesso cadrà pioggia abbondante, che muterà in gioia la vostra tristezza”. Il cielo infatti, che non dava indizio alcuno di pioggia cominciò a poco a poco ad oscurarsi, le nuvole si addensarono, finché una forte pioggia interruppe il discorso del Santo, e sciolse la folla. I cittadini di Segovia consacrarono la memoria di questo miracolo con una cappella eretta nel luogo stesso dove il fatto avvenne.

Un’altra volta Domenico intervenne ad un consiglio dei primati della città; e dopo che furono lette le lettere del re, così egli prese a dire: “Voi avete inteso, fratelli miei, quale sia la volontà del re terreno e mortale; ascoltate ora i comandamenti del re immortale e celeste”. Un signore, inteso questo, si alzò e disse infuriato: “Che forse questo parolaio avrebbe intenzione di tenerci qui tutto il giorno, e d’impedirci perfino di pranzare?” E bardato il cavallo, se ne andò. Il servo di Dio soggiunse: “Voi ora ve ne andate; ma non terminerà l’anno, e in questo luogo medesimo dove ora siete, il vostro cavallo resterà senza cavaliere; e per campare dai vostri nemici, indarno cercherete rifugio nella torre, che avete edificato nel vostro palazzo”. La profezia si avverò a puntino; avanti che l’anno terminasse quel signore fu ucciso insieme ad un suo parente, nel luogo stesso ove Domenico gli aveva rivolta la parola.

Segovia è posta fra due colline divise da un fiume. Sulla collina di tramontana, fuori delle mura della città, Domenico aveva scoperta una rustica grotta, molto adatta per darsi alla contemplazione e farvi penitenza. Là vicino gettò le fondamenta di un convento, al quale diede il nome di S. Croce; e mentre il convento si veniva costruendo secondo la consueta semplice architettura, che al Santo piaceva tanto, egli fece della vicina grotta i suo oratorio notturno passandovi buona parte della notte in preghiere e in ogni sorta di spirituali esercizi.

Il giorno era tutto per gli altri, per la predicazione, per i viaggi, per gli affari; ma giunta l’ora che il sole, scomparendo dall’orizzonte, dispone tutto a riposo, anch’egli si ritirava dal mondo in cerca di quel conforto di cui la sua anima ed il suo corpo sentivano tanto bisogno. Dopo Compieta Domenico restava sempre in coro; non permetteva però che alcuno lo imitasse, sia per non imporre un peso superiore alle loro forze, sia per un santo timore che si venissero a scoprire i suoi segreti commerci con il Signore. Ma l’altrui curiosità più d’una volta la vinse sulle sue precauzioni. Alcuni frati, per osservare le sue veglie, si nascondevano; ed è così che noi abbiamo potuto conoscerne i più toccanti particolari. Quando dunque credevasi solo, protetto nei suoi slanci amorosi dal silenzio e dalle ombre della notte, entrava con Dio in espansioni ineffabili. Il tempio, simbolo della città eterna degli angeli e dei Santi, diventava per lui come un essere vivo, che egli inteneriva con le sue lacrime, con i suoi gemiti, con le sue grida. Ne faceva il giro, fermandosi a pregare ad ogni altare, ora profondamente inchinato, ora in ginocchio, ora prostrato. Ordinariamente cominciava dal riverire Gesù Cristo con un’inclinazione profonda, come se l’altare, simbolo e memoria del di lui sacrificio, fosse lo stesso Gesù. Poi prostravasi con la faccia per terra, e ripeteva a voce spiccata queste parole del Vangelo: Signore, abbiate pietà di me peccatore; e queste altre di David: l’anima mia è umiliata fino a terra; datemi voi la vita, secondo la vostra promessa; ed altre simili. Alzatosi, riguardava fissamente il crocifisso, e faceva un certo numero di genuflessioni, sempre guardando la croce e pregando. A quando a quando la muta contemplazione veniva interrotta da questa esclamazione: Signore, io grido a voi; deh! non volgetevi dall’altra parte, non vi nascondete a me; o da altre simili, prese dalla Scrittura. Alle volte genufletteva per molto tempo; la sua parola non aveva più forza di salire dal cuore fino alle labbra; pareva che egli con il suo spirito penetrasse i cieli; rasciugavasi le lacrime che gli scorrevano sulle guance; il suo cuore ora anelante, come quello del viaggiatore vicino alla patria. Qualche altra volta stava ritto in piedi, con le mani aperte avanti a sé a mo’ di libro, sicché pareva che leggesse attentamente, o alzate fino alle spalle, come uomo che ascolta, o posate sugli occhi per raccogliersi in meditazioni più profonde. Vedevasi anche ritto sulla punta dei piedi, con la faccia rivolta al cielo, con le mani prima giunte al di sopra della testa a guisa di freccia, e poi disgiunte in atteggiamento di supplicante, e poi ricongiunte ancora, come fosse stato esaudito; e mentre si trovava in tale stato, in cui non pareva più cittadino della terra, era solito esclamare: Signore, esauditemi, mentre vi prego, mentre innalzo le mie mani verso la vostra santa abitazione. Aveva ancora un altro modo di pregare, che però praticava raramente, quando cioè voleva ottenere da Dio qualche grazia straordinaria, ed era quello di star ritto, con le braccia distese in croce, ad imitazione di Gesù Cristo morente ed invocante il Padre con quelle onnipotenti parole, che salvarono il mondo. Con tono grave e distinto Domenico allora ripeteva: Signore, ho gridato, ho tese le mie mani a voi tutto il giorno, a voi ho tese le mie mani: e la mia anima vi sta dinanzi siccome arida terra. Deh! esauditemi prontamente. Di questo modo di preghiera si servì quando richiamò a vita il giovane Napoleone; ma quelli che erano presenti non intesero le parole da lui pronunziate, né ardirono mai domandargliele.

Oltre i bisogni e gli avvenimenti giornalieri, che ispiravano a Domenico queste speciali preghiere, egli teneva sempre presente, allo spirito la causa della Chiesa, e pregava per la dilatazione della fede nel cuore dei cristiani, per i popoli ancora schiavi dell’errore, per le anime penanti del purgatorio. “Tanto era il suo amore per le anime, riferisce un testimone nel processo di canonizzazione, che non solamente si estendeva a tutti i fedeli, ma anche agli infedeli e perfino a quelli che soffrono nell’inferno, per i quali versava lacrime in abbondanza”. E le lacrime non gli bastavano. Tre volte per notte vi mescolava ancora il suo sangue, per soddisfare così, quanto era da lui, quella sete ardente del sacrificio, che è la parte generosa dell’amore. Si flagellava le spalle con catenelle annodate; e la grotta di Segovia, testimone di tutti questi eccessi di penitenza, conservò per più secoli tracce del sangue di lui. In cuor suo divideva quel sangue in tre parti: la prima in sconto dei suoi peccati; la seconda per i peccati dei vivi; e la terza per quelli dei morti. Più d’una volta costrinse qualche fratello a flagellarlo, affinché più grande fosse l’umiliazione e il dolore del suo sacrificio. Verrà giorno in cui al cospetto del cielo e della terra gli angeli del Signore porteranno sopra l’altare del giudizio due coppe piene; una mano giustissima le peserà, ed a gloria eterna dei Santi sì farà manifesto, che ogni goccia di sangue versato dall’amore ne risparmiò dei fiumi.

Dopo aver lungamente vegliato, pregato, pianto, offerto insomma tutto se stesso in olocausto, se la campana del Mattutino non gli annunciava ancora la levata dei suoi frati, Domenico saliva a visitarli, quasi per troppo tempo ne fosse stato lontano. Piano piano entrava nelle loro celle, faceva sopra di essi il segno della santa croce, e se durante il sonno qualcuno s’era un po’ scoperto, lo ricopriva; quindi tornava, in coro ad aspettarli. Qualche volta durante questi pietosi misteri della notte, lo sorprendeva il sonno; allora, o si appoggiava ad un altare, o si distendeva sul pavimento. Suonata l’ora del Mattutino, andava con gli altri frati, e salmeggiava con tutta l’anima, giulivamente. Dopo l’Ufficio, ritiravasi a dormire in qualche angolo della casa, perché egli non aveva cella propria come gli altri frati; e, vestito come era, si adagiava nel primo canto che gli capitasse, sopra un banco, sulla paglia, sulla nuda terra, e alle volte sulla bara stessa dei morti. Dormiva così poco, che spesso si addormentava a tavola durante il pasto.

Domenico, da Segovia dove lasciò priore Fra Corbalano, passò a Madrid. Anche là trovò un convento in costruzione, per opera forse di Pietro di Madrid, uno di quelli che al tempo della dispersione dei frati, Domenico aveva inviati nella Spagna. Ma trovandosi l’edifizio fuori delle mura della città, Domenico ne cambiò destinazione; ed in luogo dei frati ci stabilì le suore, dedicando il monastero a S. Domenico di Silos. Con il tempo il nome di Silos cadde in dimenticanza, e per una trasformazione inavvertita, di cui tutti e nessuno furono complici, il convento restò dedicato al suo fondatore. E’ degno di nota come il santo Patriarca nella Spagna, come in Francia ed in Italia, mettesse lo stesso zelo nel fondare monasteri di religiose e conventi di frati, tenendo sempre presente che Notre-Dame di Prouille era stata la primizia del suo istituto. E delle sollecite cure per le suore di Madrid, abbiamo un documento storico in una lettera, che egli scrisse loro dopo la fondazione del monastero, così concepita:

Fra Domenico, maestro dei Predicatori, alla madre Priora, e a tutte le religiose del monastero di Madrid, saluto ed avanzamento di vita per la grazia di Dio, Signor nostro. Ci rallegriamo assai e rendiamo grazie a Dio per il vostro profitto spirituale e per avervi egli liberate dal fango di questo mondo. Combattete, o figlie, il vostro antico avversario con la preghiera e con i digiuni; imperché quegli solamente sarà coronato, che da prode avrà saputo combattere. Fino al presente non avevate casa corrispondente a tutte l’esigenze delle regole della religione; ma ora non ci sarebbe più scusa di sorta, perché, grazie a Dio, godete di abitazione perfettamente adatta per i vostri religiosi doveri. Voglio dunque che da qui innanzi il silenzio sia osservato in tutti i luoghi indicati dalle costituzioni dell’Ordine, vale a dire, nel coro, nel refettorio, nei corridoi; e che in tutto e dappertutto viviate secondo le, regole. Nessuna di voi esca fuori del monastero, né alcuno vi entri, ad eccezione del vescovo o di qualche altro prelato, il quale venga per causa di predicazione o di visita canonica. Non omettete le discipline e le vigilie; siate obbedienti alla vostra superiora; non perdete il tempo in conversazioni inutili. E perché, non potendo noi sovvenire ai vostri bisogni temporali, non vogliamo neppure aggravarli, proibiamo a qualsiasi frate di ricever novizie a carico vostro; ciò apparterrà solamente alla Priora con il consiglio del monastero.

Diamo poi autorità al carissimo nostro fratello Mannes, che tanto si è adoperato per voi, fino a farvi raggiungere il santo stato in cui vi trovate, di disporre, regolare e ordinare le cose in quel modo che gli sembrerà più opportuno, sicché voi viviate santamente e religiosamente. Egli vi visiti, vi corregga, e possa anche deporre la priora, qualora lo trovi necessario; sempre però con il consenso della maggior parte delle religiose. Rimettiamo inoltre alla di lui prudenza il concedervi le opportune dispense.

Addio in Cristo”.

Molti altri conventi di Spagna si attribuiscono l’onore di essere stati fondati o almeno cominciati da Domenico; gli storici primitivi però tacciono su ciò; ed anche noi ci asterremo dal riferire tali pretese, non troppo conformi al breve soggiorno del Santo nella Spagna. Ricorderemo solo Palenza, dove Domenico passò dieci anni della sua giovinezza, e dove par certo che istituisse una confraternita del Rosario e vi fondasse un convento sotto il nome di S. Paolo.

Rifacendo il cammino verso la Francia, a Guadalascara, non lontano da Madrid, Domenico fu abbandonato da tutti i frati che aveva con se, eccettuato fra Adamo e due conversi, che gli restarono fedeli. Egli allora, rivoltosi ad uno di questi gli domandò, se anche lui volesse lasciarlo. “A Dio non piaccia, rispose il frate, che io lasci il capo per seguire i piedi”. Di tale abbandono Domenico era già stato avvisato in una visione. Senza turbarsi si mise allora a pregare per le pecorelle smarrite, e finì per aver la consolazione di vederle quasi tutte ritornate all’ovile. Forse fu a loro riguardo che Domenico, trovandosi a mensa nelle vicinanze di Tolosa, e non essendovi che una tazza di vino, per otto persone, miracolosamente lo accrebbe, “per compassione, dicono gli storici, di alcuni frati, che nel secolo erano stati delicatamente nutriti”.

Domenico ritrovò a Tolosa Bertrando di Garriga, uno dei suoi più antichi discepoli. Insieme s’incamminarono per Parigi, e lungo la strada visitarono Roc-Amadour, antico santuario della SS. Vergine, e celebre meta di pellegrinaggi posto in una ripida e selvaggia solitudine di Querey.

Consacrata una notte a tal devozione, il giorno seguente, cammin facendo, furono raggiunti da pellegrini alemanni, i quali, avendoli intesi recitare devotamente salmi e litanie, s’unirono a loro. Al primo villaggio che incontrarono, questi nuovi compagni invitarono i nostri a pranzare insieme; e cosi fu per quattro giorni. Il quinto giorno il beato Domenico disse, sospirando, a Bertrando di Garriga: – Fra Bertrando, mi pesa sulla coscienza vedere che noi mietiamo delle cose temporali da questi pellegrini, senza che seminiamo in loro niente di spirituale. Perciò, se vi piace, mettiamoci in ginocchio, e domandiamo a Dio la grazia d’intendere e di parlare la loro lingua, affinché possiamo predicare loro il Signor nostro Gesù Cristo. Così fecero, e con grande stupore dei pellegrini cominciarono a parlare in tedesco. Per quattro giorni che furono ancora insieme ragionarono sempre di Gesù; finché, giunti ad Orléans, dopo essersi accomiatati e raccomandati scambievolmente alle particolari orazioni di ciascuno, i pellegrini presero la via di Chartres, e Domenico e Bertrando quella di Parigi. Il giorno seguente il beato Padre disse a Bertrando: – Eccoci, o fratello, ormai giunti a Parigi; se i nostri fratelli, venissero a sapere del miracolo che il Signore ha fatto, ci riterrebbero come santi, mentre non siamo che peccatori; se poi la cosa giungesse fino alle orecchie del pubblico, l’umiltà nostra si troverebbe a gran cimento: per questo vi proibisco di parlarne a qualsiasi prima della mia morte”.

Entrati in Parigi dalla porta d’Orléans, il primo tra i fabbricati che attrasse lo sguardo di Domenico, fu il convento di S. Giacomo, già abitato da trenta religiosi. Quantunque il santo Patriarca vi si fermasse solo pochi giorni, pure ebbe tempo di dare l’abito al giovane Guglielmo di Monferrato, da lui conosciuto a Roma nella casa del cardinale Ugolino, e che gli aveva promesso di farsi frate predicatore, appena ultimato il corso di due anni di teologia all’Università di Parigi. Fu allora ch’egli sciolse il voto.

Un altro felice incontro per Domenico avvenne nella persona d’un baccelliere sassone, chiamato Giordano; giovane d’ingegno, eloquente, amabile, vero servo di Dio, nato nella diocesi di Paderborn dalla nobile famiglia dei conti di Ebernstein, si era recato a Parigi per dissetarsi alle sorgenti della scienza divina; e mosso da Dio, che l’avea predestinato a primo successore di Domenico nel governo supremo dei Frati Predicatori, si sentì come attratto verso il grande uomo, di cui sarebbe rimasto l’erede, e gli rivelò le vive impressioni del Cristo sul suo cuore. Avvicinarsi a Domenico e restarne avvinti era tutt’uno; ma questa volta egli non volle affrettare i movimenti dell’anima eletta che gli si era presentata, e si limitò a consigliare al giovane sassone di assoggettarsi al giogo di Dio con il prender l’ordine del diaconato, lasciandolo ancora esposto alle diverse influenze celesti, in attesa della mano che, giunto a maturità, l’avrebbe colto.

Non v’ha cosa che dimostri cosi bene quanta arditezza e forza d’animo fosse in Domenico, come l’azione da lui esercitata durante la sua breve dimora nel Convento di S. Giacomo. Dopo quasi un anno di assiduo lavoro praticato da eminenti personaggi, i religiosi avevano raggiunto il numero di trenta; e tutta la premura di questa comunità nascente era di crescere ancora di forze e di numero, quando, giunto Domenico e gettato uno sguardo su quel piccolo drappello di francesi, lo trova già bastante a popolare la Francia di Frati Predicatori. Dietro suo ordine, Pietro Cellani parte per Limoges, Filippo per Reims, Guerrico per Metz, Guglielmo per Poitiers, alcuni altri per Orléans, tutti con la missione di predicare nelle suddette città e fondarvi conventi. A Pietro Cellani, che oppone la sua ignoranza e la mancanza di libri, Domenico con intrepida fiducia in Dio risponde: “Va pure e non aver paura, o mio figlio; due volte al giorno mi ricorderò di te presso il Signore. Non dubitare, tu farai acquisto di molte anime e riporterai gran frutto, che crescerà e si moltiplicherà poiché il Signore sarà con te”. Pietro Cellani raccontò più tardi ai suoi più intimi, che in tutte le sue tribolazioni interne ed esterne, sempre si era ricordato della promessa fattagli; e che raccomandandosi a Dio ed a Domenico, gli era riuscito sempre bene tutto. Domenico partì da Parigi uscendo per la porta di Borgogna. A Chátillon-sur-Sein richiamò a vita il nipote di un ecclesiastico da cui era stato alloggiato. Il fanciullo era caduto dall’ultimo piano della casa, ed era stato trovato morto. Lo zio fece un gran pranzo in onore del Santo; ma Domenico, vedendo che la madre del bambino, presa dalla febbre, non mangiava, benedisse un’anguilla e gliela offrì, dicendole di mangiarne in virtù di Dio; quel rimedio subito la sanò.

Dopo questi avvenimenti, il glorioso Padre, in compagnia di un fratello converso, di nome Giovanni, ritornò in Italia. Mentre valicavano le Alpi lombarde, fra Giovanni a un tratto si sentì venir meno per la fame, tanto da non poter più andare innanzi e nemmeno levarsi da terra. Il pietoso Padre gli disse. Che avete, figliolo, che non potete più camminare? Ed egli: – Padre santo, muoio di fame. Il Santo allora: – Fatevi coraggio, figliolo; camminiamo ancora un poco, e troveremo qualche luogo dove ristorare le nostre forze. – Ma il fratello a ripetere che non gli era più possibile muovere un passo. Allora il Santo, con quella bontà e commiserazione di cui era pieno, fece ricorso al solito mezzo, alla preghiera. Pregò brevemente il Signore, e poi rivolto al fratello: – Alzatevi, gli disse, o figlio andate là in quel luogo, che ci sta dinnanzi, e prendete tutto quello che ci troverete. – Si alzò il fratello, sebbene con grande stento; si trascinò fino al luogo indicato, non più lontano di un tiro di pietra, e vi trovò un pane di meravigliosa bianchezza, involto in un pannolino parimenti bianchissimo. Portò il pane al Santo, che gli ordinò di mangiarne fino a che gli fossero tornate le forze. Quando egli ebbe finito, l’uomo di Dio gli domandò se ora, che aveva soddisfatta la fame, poteva camminare. Rispose di sì. – Alzatevi allora, riprese il Santo, involgete il pane avanzato nel pannolino e riportatelo dove l’avete trovato. – Il fratello obbedì e ripresero il viaggio. Allontanatisi un poco, il fratello cominciò a dire fra sé e sé: – O mio Dio! e chi può aver portato là quel pane, e da qual luogo? Non sono io stupido a non averlo domandato ancora? – E rivolto al Santo: – Padre santo, gli disse, ma da dove era egli venuto quel pane, o chi l’aveva posato là? – Allora quel vero amante e custode dell’umiltà gli rispose: – Non avete voi mangiato quanto vi bisognava? – E il fratello: – . – Dunque, soggiunse il Santo, se avete mangiato quanto vi bisognava, rendetene grazie a Dio, e non vi curate d’altro”.

Fermiamoci per un momento con il pensiero su questi sentieri delle Alpi lombarde; e, viaggiatori noi stessi dietro le loro orme pietose, gustiamo il piacere di seguirli più da vicino.

Domenico viaggiava sempre a piedi, con un bastone in mano ed un fagotto di panni sulle spalle. Fuori dell’abitato si levava anche le scarpe, ed a piedi nudi proseguiva il cammino. Se qualche sasso lo feriva, diceva sorridendo: “Ecco la nostra penitenza”. Passando una volta in compagnia di fra Bonvisi per un luogo, tutto seminato di ciottoli taglienti: “ Oh, me infelice! soggiunse, qui un giorno fui costretto a calzarmi. – E perché? Gli domandò il compagno. – Perché aveva piovuto assai”. – Approssimandosi a qualche villaggio, Domenico rimetteva le scarpe, per ritoglierle quando ne fosse uscito. Se poi s’imbatteva a dover traversare qualche fiume o torrente, faceva il segno della Croce sulle acque, e per dare esempio ai suoi compagni, arditamente vi entrava per primo. Cominciava a piovere? Ed egli intonava ad alta voce l’Ave Maris Stella, o il Veni Creator Spiritus. Non portava seco né oro, né argento, né moneta si rimetteva completamente alla mercé degli uonini e della Provvidenza. Più volentieri di tutto alloggiava nei conventi; mai però si fermava a piacer suo, ma sempre secondo le fatiche sostenute o il desiderio de suoi compagni di viaggio. Mangiava senza distinzione quello che gli ospiti offrivano, eccettuata la carne. Perché anche in viaggio osservava rigorosamente l’astinenza ed i digiuni dell’Ordine, sebbene dispensasse i compagni. Più era trattato male, più ne rimaneva soddisfatto. Anche da malato fu veduto mangiar radici e frutta, piuttosto che cibi delicati. Se sapeva di doversi fermare in casa di secolari, estingueva prima la sete ad una fontana, temendo che il bisogno di bere facesse scapitare la modestia del religioso e fosse di scandalo ai commensali. Alle volte andava mendicando il pane di porta in porta, e ringraziava con tanta umiltà chi gliene dava, che si metteva perfino in ginocchio. Dormiva vestito sulla paglia o sopra una panca. Anche in viaggio non tralasciava nessuna delle sue pratiche di pietà.

Tutti i giorni, a meno che non gli mancasse la chiesa, offriva a Dio con grande abbondanza di lacrime, il santo sacrificio: celebrare i divini misteri, e non sentirsene intenerito, gli sarebbe stato impossibile. Quando, seguendo l’ordine delle cerimonie, era prossimo l’arrivo di Colui, ch’egli aveva sommamente amato fin dai più teneri anni, ognuno si accorgeva della viva emozione di tutto il suo essere. Una lacrima chiamava l’altra su quel viso pallido e raggiante ad un tempo. Recitava l’orazione domenicale con un accento così serafico, da render quasi sensibile la presenza del Padre che sta nei cieli. La mattina stava e faceva stare in silenzio fino alle nove i suoi compagni di viaggio; così pure la sera dopo Compieta.

Nell’altro tempo parlava sempre di Dio; ora in forma di conversazione, ora di controversie teologiche o in ogni altro modo che gli fosse venuto in mente. Talvolta, specialmente trovandosi in luoghi solitari, pregava i suoi compagni a staccarsi un po’ da lui, ripetendo loro con molta grazia queste parole del profeta Osea: Io lo condurrò nella solitudine e gli parlerò al cuore; e precedendoli o seguendoli, si metteva a meditare qualche passo della Scrittura.

I compagni osservarono che durante queste meditazioni il Santo faceva spesso un gesto intorno al viso, come per cacciare insetti importuni; ed attribuirono a questa meditazione, per lui famigliare, delle sacre pagine, la profonda cognizione ch’egli ne aveva. Tanta era l’abitudine di star con Dio, che non gli veniva quasi mai fatto di levar gli occhi da terra; né mai si ritirava nelle case dove era ospitato, senza prima essere entrato in qualche chiesa a pregare, purché ve ne fosse.

Dopo pranzo era solito ritirarsi in una camera a leggere l’Evangelo di S. Matteo e l’Epistole di S. Paolo, che sempre portava con sé. Sedutosi, apriva il libro, si faceva il segno della Croce e leggeva attentamente. Ben presto però la parola divina lo rapiva; incominciava a gesticolare come parlasse ad altri; ora sembrava che ascoltasse, ora che disputasse, ora che lottasse; sorrideva e piangeva alternativamente; fissava lo sguardo in qualche parte, poi chinava gli occhi, parlava sottovoce, battevasi il petto. Dalla lettura passava alla meditazione alla contemplazione senza mai posare. A quando a quando baciava con affetto il libro, come per ringraziarlo della felicità che gli procurava; ed assorto sempre più in questa santa voluttà, con le mani o con il cappuccio coprivasi la faccia. Sopraggiunta la notte si portava alla chiesa per le consuete veglie e penitenze; e quando non gli era dato di avere una chiesa a sua disposizione, si ritirava in una camera appartata; ciò nonostante i forti gemiti interrompevano, suo malgrado, il sonno dei compagni. All’ora del Mattutino svegliava i suoi compagni per dir l’ufficio in comune, e quando alloggiava in qualche convento, anche di altro Ordine, batteva alle porte dei religiosi, sollecitandoli ad alzarsi e discendere in coro.

Nei suoi viaggi, dovunque passasse, sempre predicava nelle città, nei villaggi, nei castelli e perfino nei monasteri; e la sua parola era di fuoco. Iniziato per i lunghi studi fatti a Palenza e ad Osma a tutti i misteri della cristiana teologia, le cose della fede uscivano dal suo cuore piene d’amore, che rivelava anche ai più ostinati la verità.

Un giovane rapito da questa eloquenza gli domandò in quali libri l’avesse appresa. “Figlio mio, rispose Domenico, più che in altri, nel libro della carità; questo insegna tutto”.

Anche sul pulpito scoppiava spesso in lacrime, ed era preso abitualmente da quella soprannaturale melanconia, che dà il profondo sentimento delle cose invisibili. Allorchè apparivano da lontano i tetti delle case di una città o di una borgata, il pensiero delle serie e dei peccati degli uomini subito lo immergeva in una triste preoccupazione, che si rifletteva anche sul suo volto. Rapidamente passava alle più diverse espressioni dell’amore; sulle rughe della sua fronte era un continuo alternarsi di sentimenti di gioia, di tristezza, di serenità; cosa che conferiva alla maestà di un tant’uomo un fascino incredibile.

Sapeva essere amabile con tutti, dice uno dei testimoni nel processo di canonizzazione, con i ricchi, con i poveri, con i giudei ed infedeli, assai numerosi nella Spagna; e da tutti era riamato, senza eccettuare gli eretici ed i nemici della Chiesa, che dalle sue dispute e prediche rimanevano conquistati”.

CAPITOLO XIV Quinto viaggio di S. Domenico a Roma Morte del B. Reginaldo Il B. Giordano di Sassonia entra nell’Ordine

L’anno 1219, Domenico, scendendo nel colmo dell’estate la rapida china delle Alpi, rivedeva per l’ultima volta la fertile e vasta pianura della Lombardia, destinata a possederlo in uno dei momenti più solenni della sua vita. La Vecchia Castiglia lo aveva nutrito nell’infanzia e nella giovinezza; la Linguadoca se lo era goduto nel più bel periodo della virilità; a Roma, come al suo centro, l’aveva sempre portato l’ardore della sua fede; la Lombardia ne doveva essere la tomba. S’ignora per quale strada vi entrasse; gli storici primitivi, senza tracciarne l’itinerario, ad un tratto ce lo fanno trovare a Bologna.

Con immensa gioia fu ricevuto da tutti i frati del Convento di San Nicolò, retto allora dal B. Reginaldo; ed il primo suo atto fu la rinunzia dei possedimenti.

Oderico Galliani, cittadino di Bologna, aveva di recente donato ai Frati, con tutte le formalità legali, alcune sue terre di un valore considerevole. Domenico stracciò alla presenza del vescovo il contratto, e dichiarò esser sua volontà che i religiosi giorno per giorno mendicassero il pane, senza accumular mai ricchezze e possessioni. Nessuna virtù difatti egli aveva più cara della povertà. Una sola e rozza tonaca era la sua veste d’ogni stagione, senza vergognarsi di presentarsi, così umilmente vestito, dinanzi ai più grandi signori. Voleva quindi che anche i suoi frati lo imitassero; che abitassero in case modeste, e che neppure all’altare usassero seta o porpora, vasi d’oro o d’argento, tranne il calice. Con uguale spirito di parsimonia e di penitenza regolava la tavola: due pietanze ai frati, una sola per sé. Rodolfo di Faenza, procuratore del convento di Bologna, raccontava che avendo egli qualche volta fatto miglior trattamento ai religiosi mentre vi si trovava Domenico, il Santo l’aveva chiamato e gli aveva detto all’orecchio: “Ma voi uccidete i frati con le vostre pietanze!”.

Quando nel Convento di S. Nicolò veniva a mancare il pane o il vino, cosa che di tanto in tanto accadeva, fra Rodolfo andava allora a trovar Domenico, il Santo gli dava ordine di andare con lui in chiesa a pregare; e la Provvidenza disponeva le cose in modo che sempre era dato di rimediare al desinare. Un giorno di digiuno tutta; la comunità stava già a refettorio, quando il fratello Bonvisi si accostò a Domenico per dirgli che non c’era nulla da mangiare. Il Santo pieno di contentezza, levò gli occhi e le mani al cielo, e rese grazie a Dio d’essere così povero. Ben tosto però due giovani sconosciuti entrarono in refettorio, uno con pani, l’altro con fichi secchi, e ne fecero distribuzione ai religiosi. Un’altra volta non essendoci in convento che due soli pani, Domenico ordinò che fossero divisi in piccoli pezzi; quindi benedisse il paniere, e disse al fratello, che serviva alla mensa, di fare il giro delle tavole distribuendone due o tre pezzetti a ciascuno. Fatto il primo giro, comandò il Santo che se ne facesse un secondo e più ancora, finché tutti fossero sazi. Ordinariamente i frati non bevevano che acqua; solo per i malati procuravasi un po’ di vino. Un giorno l’infermiere andò da Domenico a lamentarsi di non trovare punto vino per il malati, e gli mostrò il vaso vuoto. Il servo di Dio si mise allora, secondo il suo solito, a pregare, esortando per umiltà ancora gli altri a fare lo stesso; e quando l’infermiere riprese il vaso dei vino, lo trovò pieno.

Gli storici poco ci han detto dell’esultanza dei frati di Bologna all’arrivo di Domenico fra loro; ma si può argomentar facilmente l’effetto della di lui comparsa in mezzo ad uomini che, pur senza conoscerlo, si eran fatti suoi figli. Ora vedevano con i proprii occhi quello spagnolo, che per mezzo di un francese li aveva convertiti a Dio, e che, risuscitando le meraviglie dei primitivi tempi della Chiesa, aveva raccolto da tutte le parti della cristianità una società di apostoli. Lo vedevano! e le virtù, i miracoli, la parola, il sembiante di lui presentavano tale spettacolo, che la loro fantasia mai avrebbe immaginato. Nel breve tempo che Domenico stette fra loro, la santa e già numerosa famiglia si accrebbe ancora, causa l’ascendente ch’egli aveva, così dentro come fuori del monastero.

Udiamo, fra le altre cose, in qual modo singolare avvenne la vestizione di Stefano di Spagna:

Mentre io studiava a Bologna, è Stefano stesso che racconta, arrivò maestro Domenico e cominciò a predicare agli studenti, come pure agli altri. Andai a confessarmi da lui, e mi parve riconoscere in lui un grande amore per me. Una sera mentre ero all’albergo, già seduto a cena con i miei compagni, giunsero due frati e mi dissero: – Fra Domenico vuol vedervi, e desidera che veniate senza, indugio. – Risposi che sarei andato subito dopo la cena. Ma essi: – No, no; vi vuole sull’istante. – Allora mi alzai, e lasciato tutto, giunsi con loro a S. Nicolò, dove trovai Maestro Domenico in mezzo a una moltitudine di frati, ai quali egli disse: – Insegnategli come si fa la prostrazione. – E quando me l’ebbero insegnato, io mi prostrai con tutta docilità, ed egli mi rivestì senz’altro dell’abito dei Frati Predicatori, dicendomi: – Eccovi le armi con le quali voi sconfiggerete il demonio per tutta la vostra vita. – Restai allora meravigliato assai, né ripenso senza stupore all’istinto per il quale Domenico così in fretta mi fece chiamare e mi donò l’abito di Frate Predicatore. Perché non avendomi egli mai parlato di entrare in religione, senza dubbio fu mossa, in far ciò, da ispirazione e rivelazione divina”.

Come prima aveva fatto a Parigi, così a Bologna Domenico attuò il suo piano di mandare frati nelle principali città dell’alta Italia per predicarvi e fondarvi conventi. Era irremovibile dalla massima prediletta: Bisogna seminare il grano e non ammucchiarlo; e Milano e Firenze accolsero alla loro volta colonie di Frati Predicatori. Inoltre parve opportuno a Domenico che fra Reginaldo lasciasse Bologna per recarsi a Parigi. Si riprometteva assai dalla eloquenza e dalla rinomanza di lui per dare l’ultima mano allo stabilimento dell’Ordine in Francia. I frati di Bologna videro con amaro rincrescimento allontanarsi da loro Reginaldo e piansero per essere così presto staccati dalle mammelle della mamma, come si esprime il B. Giordano di Sassonia, il quale però soggiunge subito: “Ma tutte queste cose avvenivano per volontà di Dio. C’era un non so che di meraviglioso nella maniera con cui il beato servo di Dio, Domenico, inviava qua e là i suoi frati per tutte le parti della cristianità, malgrado che qualche volta altri facesse delle rimostranze; né lieve ombra di esitazione indebolì mai la sua fiducia. Si diceva ch’egli sapeva già del buon esito per rivelazione dello Spirito Santo. In verità, chi oserebbe dubitarne? Non aveva seco da principio che pochi frati, semplici, illetterati la maggior parte, eppure aveva osato spargerli a piccoli drappelli per tutta la Chiesa; di modo che non mancarono le accuse da parte dei figli del secolo, i quali giudicano sempre secondo la loro prudenza, di voler distruggere il già fatto, anzi che innalzare un grandioso edifizio. Ma Domenico accompagnava i suoi figli con le sue preghiere, e la virtù del Signore pensava a moltiplicarli”.

Anche Domenico verso la fine del mese di Ottobre partì da Bologna. Valicò l’Appennino dirigendosi verso Firenze, e sostò per qualche tempo sulle rive dell’Arno, là, dove in seguito sarebbero sorti i due celebri conventi di S. Maria Novella e di S. Marco. I Frati uffiziavano allora una piccola chiesa, accanto alla quale abitava una donna chiamata Bena, conosciuta per le sregolatezze della vita, e che il Signore, per giusto castigo, lasciava esposta agli assalti dello spirito maligno. All’udir le prediche di Domenico ella si convertì, e le preghiere del Santo la liberarono dai demoni che la tormentavano. Ma la pace riacquistata fu per lei occasione di ricaduta; e un anno appresso essa stessa confessò a Domenico, il quale di nuovo si trovava a Firenze, qual cattivo uso avesse fatto della liberazione ottenuta. Domenico la richiese allora se desiderasse ritornare al primitivo stato; e dietro risposta che si rimetteva in tutto a Dio ed a lui, il Santo pregò il Signore di fare il meglio per la salute di cotal femmina. Trascorsi alcuni giorni, lo spirito maligno nuovamente la invase, e tal castigo dei suoi antichi falli fu per lei principio di meriti e di perfezione. Bena prese in seguito il velo monacale con il nome di Suor Benedetta. Di lei ancora si legge che, essendo Domenico tornato a Firenze, mosse a lui vive lagnanze perché un ecclesiastico la molestava, causa l’ossequio ch’essa aveva per i Frati. Ed il motivo era perché quel prete non poteva soffrire che fosse stata concessa a loro la chiesa., di cui egli era Cappellano. Ma Domenico rispose a Suor Benedetta: “Abbiate pazienza, o figlia. Costui che vi molesta, sarà presto uno dei nostri, e si sobbarcherà nell’Ordine a grandi e lunghe fatiche”.

Domenico, trovò a Viterbo il Sommo Pontefice Onorio III, dal quale, in data del 15 novembre 1219, ottenne lettere di raccomandazione per i vescovi e prelati della Spagna; raccomandazioni che l’8 di dicembre furono estese agli arcivescovi, vescovi, abati e prelati di tutta la cristianità. Il 17 poi del medesimo mese il Papa da Civitacastellana fece donazione a Domenico ed ai suoi frati del convento di S. Sisto, posto al di là del monte Celio, tenuto fino a quel giorno dall’Ordine in virtù di una semplice cessione orale. Nell’atto non si fa affatto menzione delle monache di S. Sisto; e ciò, senza dubbio, perché formavano con i Frati un solo e medesimo Ordine, temporalmente e spiritualmente governato dal Maestro Generale.

Non era questa la prima volta che il santo Patriarca vedeva Viterbo. Già tre anni prima, di ritorno in Francia dopo la conferma dell’Ordine, vi era stato con il cardinale Capocci, da cui aveva ricevuto in dono una cappella e un monastero sotto il titolo di S. Croce, posti sopra un’altura, vicina alla città, ed anche una chiesa, che si veniva costruendo lì accanto. Il cardinale si era indotto a fare erigere tale chiesa in onore della SS. Vergine, per un sogno avuto; e l’amicizia grande che aveva con Domenico, lo spinse a donarla a lui anche prima che fosse ultimata, per il timore che il tempo tradisse la sua buona volontà. Difatti non poté godere la soddisfazione di vederla compiuta; ma prima di morire ne assicurò all’Ordine il possesso, e sotto il titolo di S. Maria di Gradi divenne uno dei più celebri conventi della provincia Romana. Dell’antica cappella di S. Croce rimangono tuttora alcuni ruderi; ivi Domenico passò intere notti, e fino al secolo scorso ne furono ornamento le tracce del suo sangue.

Il capodanno del 1220 Domenico lo passò a Roma. Dalla frase di uno storico si rileva avere egli in tal circostanza distribuito alle monache di S. Sisto dei cucchiai di ebano, da lui stesso portati dalla Spagna. Santa semplicità di un tant’uomo! In mezzo agli affari, di un lungo viaggio, il gentile pensiero di fare un dono a povere monache, gli aveva fatto portare sulle proprie spalle, per tutto un cammino di sei o settecento leghe, quel ricordo del suo paese! Sulle proprie spalle, perché Domenico non avrebbe mai permesso che altri si caricasse del suo bagaglio.

Frattanto Reginaldo giunto a Parigi, vi annunciava il Vangelo con tutta l’autorità della sua eloquenza e della sua fede. Dopo Domenico era egli l’astro più fulgido della nuova religione. Tutti i frati tenevano gli occhi su di lui; e senza prevedere la morte troppo imminente del loro fondatore, si compiacevano nel pensiero che, ad ogni caso, non sarebbe stato lui il solo capace di sostenere la sua opera. Ma Iddio mostrò ben presto la vanità di questi sentimenti di amore e di ammirazione. Reginaldo, nel momento, appunto che ispirava di sé la più grande aspettazione cadde gravemente malato. Matteo di Francia, Priore di S. Giacomo, gli fece allora capire che l’ultima battaglia era vicina, e lo richiese se avesse desiderio di ricevere l’estrema unzione. “Io non temo il combattimento, rispose Reginaldo, l’aspetto anzi con gioia; ed aspetto ancora la Madre di Misericordia, che mi unse a Roma di sua propria mano, nella quale io confido assai. Ma perché non sembri che disprezzi l’unzione della Chiesa, ho piacere di riceverla e ve la domando”. I frati, almeno la maggior parte, non sapevano nulla del modo misterioso con cui Reginaldo era stato chiamato alla religione, avendo egli pregato Domenico di non parlarne finch’ei vivesse. Ma nel punto solenne della morte, tornandogli in mente tanto insigne favore, non poté trattenersi dal farvi allusione; ed un sentimento di riconoscenza svelò così un segreto, fino allora dall’umiltà tenuto nascosto. Anche un’altra volta egli aveva detto a Matteo di Francia parole allusive, conservateci dalla storia; quando cioè a Matteo, il quale si meravigliava di veder Reginaldo entrato in un Ordine così austero, sapendo invece quanto delicatamente prima avesse vissuto ed in qual rinomanza l’avea conosciuto fin da quando era nel secolo Reginaldo rispose: “Non c’è nessun merito da parte mia; anche troppo me ne sono sempre compiaciuto”. Reginaldo cessò di vivere sulla fine di gennaio del 1220; il giorno preciso non lo sappiamo. I frati lo trasportarono nella chiesa di Notre-Dame-des-Champs, vicino a S. Giacomo, dove avevano il diritto di sepoltura. Dal monumento in cui quelle reliquie furon deposte operarono vari miracoli, e per ben quattrocento anni furono onorato di un culto, di cui pareva dovesse eternarsene la tradizione. Ma nel 1614 la chiesa di NotreDame-des-Champs fu data alle Carmelitane della riforma di S. Teresa; e con il trasferire ch’esse fecero nell’interno del monastero il corpo di Reginaldo, la sua memoria, malgrado l’ereditaria tradizione, cessò a poco a poco di essere popolare, e divenne, come la sua tomba, il segreto di coloro soltanto che conoscono ed abitano in spirito l’antichità. Presentemente neppure il monumento esiste più; disparve insieme con la chiesa e con il monastero di Notre-Dame-des-Champs. Così il fondatore del convento di Bologna, colui che i frati appellavano il loro bastone, che era stato chiamato all’Ordine dalla Vergine medesima, che da Lei era stato miracolosamente unto e risanato, che aveva dato la forma ultima e sacra all’abito domenicano, il B. Reginaldo, non ebbe più nessun culto neppure nell’Ordine dei Frati Predicatori, di cui fu uno dei più belli ornamenti per la santità della vita, per la potenza della parola, e per il grande numero di figli che ad esso generò. Tanta fecondità in lui non venne meno che alla morte; infatti alla vigilia stessa della sua ultima e breve malattia emetteva ancora dal suo ceppo rigogliosi rampolli.

Il lettore si ricorderà di quello studente sassone conosciuto da Domenico a Parigi, e di cui volle ancora provare la vocazione, benchè manifesta. A cogliere questo fiore prezioso, che la mano di Domenico, quasi trattenuta da un delicato presentimento, aveva rispettato onde onorare e consolare la fine prematura di uno dei suoi figli più illustri, era stato predestinato Reginaldo. Ed ecco come Giordano di Sassonia racconta il suo ingresso nell’Ordine e quello del suo amico, Enrico di Colonia:

La notte medesima in cui l’anima del santo uomo Reginaldo se ne volò al cielo, io, non ancora frate di abito, ma che già aveva fatto nelle sue mani voto di esserlo, vidi in sogno i frati su di una nave. Ad un tratto la nave si affondò, ma i frati erano salvi dal naufragio. Penso che quella nave fosse Reginaldo, considerato dai frati come il loro bastone. Un altro vide sognando una limpida fonte che improvvisamente cessò di gettare acqua, ma che fu sorrogata da altre due sorgenti zampillanti fuori. Io credo che anche questa visione si riferisse a qualche cosa di reale; ma conosco troppo la sterilità del mio spirito per osare di darne l’interpretazione. Questo so: che nelle mani di Reginaldo non furon fatte a Parigi che due professioni, la mia e quella di fra Enrico, che fu poi Priore di Colonia: uomo ch’io amava di tale affetto, che non ho sentito per altri mai; vaso di onore e di perfezione, anima insomma così bella, che io non ricordo di averne conosciuta l’eguale. Il Signore si affrettò a chiamarlo a sé; è per questo che non sarà vano dir qualche cosa delle sue virtù.

“Enrico, di nobili natali, era stato nominato, ancor giovanissimo, canonico di Utrecht. Un canonico di quella chiesa, persona rispettabile e molto religiosa, l’avea educato fin dai più teneri anni nel timore di Dio. Gli aveva insegnato con l’esempio a vincere il mondo, crocifiggendo la carne e facendo opere buone; voleva che lavasse i piedi ai poverelli, che frequentasse la chiesa, fuggisse il male, avesse in dispregio il lusso, amasse la castità. Ed il giovane, di buonissima indole, piegavasi docile al giogo della virtù; di guisa che i buoni costumi crebbero in lui presto come gli anni, ed a vederlo l’avresti preso per un angelo: tanto e virtù e natura sembravano in lui una medesima cosa. Andò poi a Parigi; e lo studio della teologia, a preferenza di ogni altra scienza, non tardò ad innamorarlo, dotato come egli era d’ingegno vivissimo e di mente perfettamente ordinata. C’incontrammo nel medesimo albergo, e ben presto dall’esser commensali di corpo, nacque una dolce e stretta amicizia, fra le nostre anime. In quel tempo si trovava a Parigi anche fra Reginaldo, di felice memoria, e vi predicava con tanto ardore che io, mosso dalla grazia del Signore, feci voto dentro di me d’entrare nel suo Ordine: sembrandomi d’aver ritrovata là quella via sicura di salvezza, quale appunto, prima di conoscere i Frati, me l’ero sovente rappresentata. Presa tale risoluzione, cominciai a desiderare che anche il compagno e l’amico dell’anima mia facesse lo stesso voto, riscontrando in lui tutte quelle disposizioni di natura e di grazia richieste in un frate Predicatore. Egli a ricusarsi, ed io a stringerlo con nuove istanze, finché ottenni che andasse a confessarsi da fra Reginaldo. Al suo ritorno aprimmo il profeta Isaia come per trovarvi qualche consiglio, e ci cadde sott’occhio questo passo: Il Signore mi ha dato lingua erudita, affinché io sappia sostenere con la parola colui che cade; e la mattina mi sveglia, affinché alla sua voce io porga attento le orecchie. Il Signore Dio mi ha fatto ascoltar la sua voce, ed io non mi tiro indietro, né contraddico (Is 50, 4-5). Mentre che io gli interpretava queste parole, così bene rispondenti alle disposizioni del suo cuore e che eran per lui come un avviso del cielo, esortandolo a sottomettere la sua gioventù al giogo dell’obbedienza, notammo più sotto queste due altre parole: stiamo insieme, che ci avvertivano di non separarci l’un dall’altro, e di consacrare la nostra vita al medesimo ideale. Fu alludendo a ciò che, trovandosi egli in Germania ed io in Italia, mi scrisse un giorno: Dov’è ora quello stiamo insieme? Voi a Bologna ed io a Colonia! Io dunque gli diceva: – Qual merito più grande vi può essere, qual più gloriosa corona che di partecipare della povertà del Cristo e dei suoi apostoli, e dell’avere abbandonato il secolo per amor suo? – Ma per quanto tali ragioni gli sembrassero convincenti, pur la volontà rimaneva sempre ostinata a resistere.

“La notte stessa in cui tenevamo questi discorsi, egli andò ad assistere al Mattutino nella chiesa della B. Vergine, e si trattenne fino all’alba a pregare la gran Madre di Dio di voler piegare in lui quello, che ancora vi era di ribelle. E non sentendo per nulla addolcita dalla preghiera la durezza del suo cuore, uscì in queste parole: – Ora sì che conosco, o Vergine benedetta, che non c’è misericordia per me, e che per me non c’è posto nella famiglia dei poveri di Cristo. – Ciò disse con grande rincrescimento, per il desiderio ardente che aveva di abbracciare la povertà volontaria, avendogli il Signore una volta fatto conoscere quanto essa valesse nel giorno del giudizio. La cosa avvenne così: Egli vide in sogno Gesù Cristo sopra il suo tribunale, e due innumerabili schiere di persone, una delle quali era giudicata, e l’altra giudicava insieme con Gesù. Mentre che egli, sicuro in coscienza, contemplava tranquillamente un tale spettacolo, uno di coloro che stavano accanto al giudice, stese ad un tratto la mano verso di lui e gli gridò: – O tu, che sei laggiù in basso, che hai tu mai lasciato per il Signore? – Si trovò confuso, non sapendo che rispondere; e perciò desiderava assai la povertà, quantunque gli mancasse il coraggio di abbracciarla. Onde uscì di chiesa tutto costernato di non avere ottenuta tutta quella forza che aveva domandata. Ma Colui che dall’alto ha cura degli umili, scosse finalmente dalle fondamenta il suo cuore, rivi di lacrime sgorgarono in abbondanza dai suoi occhi, la sua anima si aprì con grande espansione al Signore. Tutta la durezza che l’opprimeva era stata vinta, e il giogo di Gesù Cristo, prima così ripugnante alla sua immaginazione, gli apparve, com’è veramente, il più soave e leggero. Pieno di entusiasmo si levò tosto, corse da fra Reginaldo, nelle sue mani emise i voti, poi venne da me; e mentre io considerava nel suo angelico volto le tracce delle lacrime, richiestolo dove fosse stato, così mi rispose: – Ho fatto un voto al Signore e l’adempirò. – Ciò nonostante differimmo ambedue a prender l’abito fino a quaresima; nel frattempo acquistammo un altro compagno, che fu fra Leone, successore di fra Enrico nella carica di Priore.

“Giunto il giorno in cui la Chiesa con il misterioso rito delle ceneri ricorda ai fedeli che ritorneranno in quella polvere, donde trassero origine, ci preparammo ambedue ad adempire i nostri voti. Gli altri compagni non sapevano niente delle risoluzioni di Enrico, ed uno di loro, vistolo sortire di casa gli disse: – Enrico, e dove vai? A Betania, egli rispose; e l’allusione cadeva appunto sulla parola ebraica, che significa casa di ubbidienza. Ci recammo dunque tutti e tre a S. Giacomo, ed entrammo appunto nel momento in cui i frati cantavano: immutemur habitu. Essi non aspettavano una tal visita, ma tuttochè inaspettata, giunse sempre gradita; e noi ci spogliammo del vecchio uomo per rivestirci del nuovo, mentre i frati andavano cantando a parole quella cosa stessa che noi facevamo”.

Reginaldo non assisté alla vestizione di Giordano di Sassonia e di Enrico di Colonia: prima ancora di aver consumato quest’ultima opera, se n’era ritornato a Dio; simile all’aloe, che fiorendo muore e mai non vede i suoi frutti.

CAPITOLO XV Primo capitolo generale dell’Ordine Dimora di S. Domenico in Lombardia Istituzione del Terzo Ordine

Non erano ancora trascorsi tre anni dacché i frati di Notre-Dame di Prouille si erano sparsi nel mondo, e già possedevano conventi in Francia, in Italia, nella Spagna, nell’Alemagna e perfino nella Polonia. La benedizione di Dio, discesa su di loro abbondante, li aveva fatti crescere e moltiplicare dovunque. E Domenico, che vedeva questi successi, che li aveva anzi affrettati con la sua stessa presenza, credette ormai giunta l’ora di mostrare ai frati quanto valessero, non a pascolo di vana soddisfazione, ma ad incoraggiamento per fatiche ancora maggiori, ed a scopo di riaffermare l’unità dell’Ordine e di dar l’ultima mano alla legislazione con cui esso era governato.

Quindi convocò il capitolo generale in Bologna per la Pentecoste del 1220; e sulla fine di febbraio, o ai primi di marzo, egli stesso lasciò Roma. Passò alcuni giorni a Viterbo presso il Sommo Pontefice, dal quale, in segno del suo costante affetto, ricevette altre tre lettere, scritte una dietro l’altra, per i popoli di Madrid, di Segovia e di Bologna, al fine di ringraziarli della carità usata ai frati, e di esortarli a perseverare nei medesimi sentimenti. Di queste lettere una porta la data del 20, un’altra del 23, e la terza del 24 marzo; ma già il 26 di febbraio il Sommo Pontefice aveva scritto ai religiosi di Notre-Dame-des-Champs a Parigi per rallegrarsi con loro di aver concessa ai Frati Predicatori la sepoltura nella loro chiesa; il 6 di marzo li aveva caldamente raccomandati all’Arcivescovo di Tarragona, ed il 12 del medesimo mese aveva permesso ai frati di altri Ordini di unirsi a Domenico per esercitare insieme a lui il ministero della predicazione.

Nel giorno di Pentecoste dunque Domenico si trovava a Bologna, circondato dai frati di S. Nicolò e dai rappresentanti dell’Ordine intero. Si ignora chi fossero i presenti, ad eccezione di Giordano di Sassonia, che sappiamo esservi stato inviato da Parigi con altri tre frati, poche settimane dopo la sua vestizione. Da quell’assemblea emerse la figura di Domenico, non più semplice priore di pochi religiosi, ma Maestro Generale di un Ordine sparso per tutta Europa; non più raccolto in una piccola chiesuola di villaggio, come a Prouille, ma nel seno di una grande ed illustre città, convegno della gioventù studiosa di tutte le nazioni; non più agitato dai timori degli stessi suoi amici, ma con dinanzi a sé un’opera ormai stabilita, avendo pronti a difenderla uomini, che facevano risuonare della loro voce le aule stesse delle Università. Egli era allora sui cinquant’anni.

La prima proposta fatta da Domenico al capitolo generale fu la rinunzia di tutti i beni che l’Ordine possedeva e di vivere giorno per giorno di sole elemosine. Questa risoluzione era in lui di vecchia data; ed anche nelle deliberazioni prese a Prouille l’anno 1216, in massima era stata dai frati accettata, ma differita nell’attuazione. Domenico, lui in persona, dal celebre abboccamento di Montpellier in poi, abboccamento che segnò i principi del suo apostolato, ed in cui fu deciso la povertà volontaria esser la sola arma capace di abbattere l’eresia, era sempre vissuto della pubblica carità. Ma una cosa era che pochi missionari visvessero elemosinando, altra il fondare un Ordine, che tutto si affidasse alle quotidiane incertezze del mendicare; opera ardita, alla quale, tutte le tradizioni sembravano opporsi. La Chiesa stessa, venuta a godere il diritto di proprietà, se ne era servita per esser più libera dai suoi nemici, più liberale con i poveri, più magnifica con Dio. Anche i solitari dell’Oriente vendevano e compravano, reputandosi a gloria vivere del frutto delle proprie mani. Era forse espediente, perché si era abusato delle ricchezze, abusare ora della povertà? Se un estremo esempio era stato per il momento necessario, era però sapiente estendere anche all’avvenire una risoluzione praticata in tempi eccezionali? O queste, o altre ragioni avessero pesato sullo spirito di Domenico, è certo che egli aveva accettato per il suo Ordine possessioni di terre, quantunque coll’animo di lasciarle in seguito. E’ stato detto che l’ispirazione di un tale abbandono venisse a Domenico per la relazione avuta con S. Francesco d’Assisi; ed è verissimo che S. Francesco ricevette da Dio la speciale missione di ravvivare nella Chiesa lo spirito di povertà. Ma ben prima che questi avesse rinunciato a tutto per seguir Gesù Cristo, Domenico percorreva già a piedi scalzi la Linguadoca, coperto di cilicio e di tonaca rattoppata, affidato alla sola Provvidenza per il giornaliero sostentamento. I due Santi si conobbero la prima volta a Roma, al tempo del quarto Concilio Lateranense, colà, convenuti per sollecitare presso Innocenzo III l’approvazione dei loro Ordini, avendo già ambedue, senza ancora conoscersi, offerto al mondo lo spettacolo delle medesime virtù. S. Francesco ebbe la gloria di non avere esitato mai a far patrimonio della sua religione la mendicità: purtroppo i suoi figli, lui vivente, non lo compresero e subito ne tradirono i divisamenti, continuando a dividersi sino ai nostri giorni. Domenico, non meno austero di lui con se stesso, fu però più intelligente aspettando che i suoi disegni riguardo alla povertà fossero confermati dall’esperienza, ed ebbe la gloria di rinunciare a beni già acquistati. Con consenso del Capitolo generale, ne fu fatta cessione alle monache di diversi Ordini, e fu stabilito che, i frati in perpetuo non avrebbero posseduto altro nel mondo che le loro virtù. Domenico, più spinto ancora, avrebbe voluto che tutta l’amministrazione domestica fosse lasciata ai fratelli conversi, per render gli altri più liberi nel tendere alla preghiera, allo studio, alla predicazione. Ma Padri del Capitolo gli opposero l’esempio assai recente dei religiosi di Grandinont, i quali, messi con simile regolamento alla mercé dei laici, erano ridotti ad uno stato degradante di servitù; e Domenico accondiscese al loro parere.

In questo Capitolo generale furono decretate altre leggi; ma la storia non ce ne dà chiare notizie, e gli atti del Capitolo non sono pervenuti fino a noi. Fra le altre cose, Domenico supplicò i Padri a volerlo liberare dal peso del supremo governo: “Io merito, disse loro, di esser deposto, perché ormai inutile e intiepidito”. E lo diceva, oltreché per umiltà, per il desiderio ancora sempre vivo di finire la vita fra gli infedeli, e di conseguire, nel portare loro la verità, quella palma del martirio di cui il suo cuore aveva avuto sempre sete ardente. Più d’una volta aveva manifestata la brama d’esser battuto e tagliato a pezzi per Gesù Cristo; ed aprendosi con Paolo di Venezia, gli aveva detto: “Appena avremo dato assetto e forma al nostro Ordine, andremo fra i Cumani, predicheremo loro la fede di Cristo e li guadagneremo al Signore”. Ora gli pareva giunto il momento. Regolato e stabilito il suo Ordine, che vedeva con i propri occhi come una pianta orinai matura, che stavagli a fare di meglio se non offrire in sacrificio gli ultimi avanzi del suo corpo e della sua anima? Ma i Padri non vollero sentire parlare di dimissioni; e ben lontani dall’acconsentirvi, fecero a gara nel confermarlo al posto di Maestro Generale, aggiungendo così l’onore di una libera sottomissione all’autorità della Sede Apostolica, che gli aveva conferita tal carica. Domenico però ottenne che almeno il suo potere venisse limitato da alcuni consiglieri, chiamati definitori, i quali nei Capitoli generali avessero il diritto di esaminare e regolare gli affari dell’Ordine, ed anche di deporre il Maestro Generale, qualora non corrispondesse al suo ufficio: decisione importante, che fu poi approvata anche dal Sommo Pontefice Innocenzo IV. Un’ultima decisione, avanti che il Capitolo venisse sciolto, fu di riadunarsi ogni anno, una volta a Bologna e l’altra a Parigi; quantunque si accettasse di far subito un’eccezione, scegliendo nuovamente Bologna per la prossima assemblea.

L’alta Italia era una delle parti d’Europa le più infestate dall’eresia. Esposta ai contatti con l’Oriente ed alle influenze scismatiche degli imperatori dell’Alemagna, aveva molto cambiato nella sua fedeltà alla Chiesa. Per cui Domenico stimò opportuno fermarvisi a predicare il Vangelo; e nell’estate del 1220 la percorse tutta quanta. Gli storici contemporanei però, che pure ce ne danno notizia, non aggiungono alcun particolare. Quasi tutte le città della Lombardia reclamano l’onore di avere accolto ed ascoltato il santo Patriarca, ed i loro annali riferiscono vari aneddoti; ma non ne è sufficientemente provata l’autenticità, essendo stati scritti molto posteriormente. Una fra le cose certe è ch’egli visitò Milano e che vi cadde malato. Fra Bonvisi, che lo accompagnava nel viaggio, così parla della di lui costanza nel soffrire:

Quando io mi trovava a Milano con fra Domenico, questi fu preso dalle febbri. In tutto quel tempo che lo assistei, mai mi accadde di sentirlo lamentarsi. Pregava e stava in contemplazione, come io argomentai da certi segni che gli apparivano in volto e che io ben conoscevo, avendoglieli veduti sempre sul volto tutte le volte che pregava o contemplava. Passato l’accesso della febbre, cominciava a parlare di Dio ai frati; leggeva, o faceva leggere; lodava il Signore e si congratulava del suo male, come era solito far sempre nelle tribolazioni e nella povertà”.

A Cremona Domenico s’incontrò con S. Francesco d’Assisi. Mentre essi stavano conversando insieme, si accostarono loro alcuni frati di S. Francesco, i quali dissero: “In convento non c’è più acqua buona. Vi preghiamo quindi, nostri padri e servi di Dio, di intercedere dal Signore una benedizione sui nostri pozzi, pieni d’acqua torba e corrotta”. I due Patriarchi si guardarono a vicenda, l’uno invitando l’altro a rispondere qualche cosa. Finalmente Domenico disse ai frati: “Attingete un po’ d’acqua e portatela qui”. Andarono e ne portarono un vaso pieno. Allora Domenico disse a Francesco: “Padre, benedite quest’acqua nel nome del Signore”. E Francesco: “Padre beneditela voi, che siete il più anziano”. Pietosa contesa che si protrasse alquanto, finché da ultimo Domenico, vinto da Francesco, fece il segno della croce sopra il vaso, ed ordinò che si versasse quell’acqua, nel pozzo: d’allora il pozzo rimase sempre, purificato.

A Modena un canonico francese, diretto a Roma in seguito: ad una predica ascoltata si recò da Domenico e gli confessò che, disperava assai di salvarsi causa una tentazione contro la castità, che mai era riuscito a vincere. “Abbiate coraggio, gli rispose il Santo, e confidate nella misericordia di Dio. M’impegnerò io ad impetrarvi da Lui il dono della continenza”. Il canonico se ne partì liberato per sempre da quella tentazione.

Domenico era solito visitare i conventi che trovava per via. Si fermò, fra gli altri, a quello di Colombo, nel Parmigiano, dove si congettura avvenisse quest’altro tratto di delicatezza, che uno storico così racconta: “Una sera Domenico giunse alla porta di un convento mentre i religiosi erano tutti a riposare. Per non disturbarli, si adagiò con il suo compagno davanti alla porta, e si raccomandò al Signore, affinché si degnasse provvedere Lui stesso ai loro bisogni, senza disturbo dei monaci. Nell’istante ambedue si trovarono dentro”. Colombo era un celebre monastero di Cisterciensi, fondato da S. Bernardo medesimo. Fu distrutto dall’imperatore Federico II nel 1248.

Nel giorno dell’Assunta Domenico, come rilevasi dall’atto di vestizione di Corrado il Teutonico, si trovava nuovamente a Bologna. Nei frati era vivo il desiderio di vedere annoverato fra i ragguardevoli personaggi che avevano abbracciato la loro religione anche Corrado, dottore dell’Università di Bologna, uomo celebre in quel tempo per dottrina e virtù. Domenico la vigilia dell’Assunzione della SS. Vergine, intrattenendosi a parlare confidenzialmente con un religioso dell’Ordine dei Cistercensi, priore del monastero di Casamari e poi vescovo di Alatri, che aveva conosciuto a Roma e che amava con grande affetto, gli aprì quella sera il suo cuore, e nell’intimo del conversare gli disse: “Vi dirò, P. Priore, una cosa, che non ho mai detto a nessuno e che vi prego quindi di tenere segreta fin dopo la mia morte; cioè che mai in vita mia il Signore mi ha negato cosa, che gli abbia chiesto”. Il Priore a queste parole restò meravigliato, e sapendo bene il desiderio dei frati riguardo a maestro Corrado il Teutonico, soggiunse: “Padre, se è cosi, perché non chiedete al Signore che vi mandi maestro Corrado, che i frati tanto ardentemente desiderano di avere fra loro?”. Domenico rispose: “Buon fratello, voi mi suggerite cosa assai difficile ad ottenere; ma se questa notte pregherete anche voi insieme con me, il Signore, spero, vorrà farci la grazia desiderata”. Dopo Compieta il servo di Dio restò, secondo il suo solito in chiesa, ed il Priore di Casamari con lui. Assistettero al Mattutino dell’Assunzione; e fattosi giorno, mentre il Cantore intonava l’inno Iam lucis orto sidere di Prima, fu visto entrare in coro maestro Corrado, prostrarsi ai piedi di Domenico, e domandare istantemente l’abito. Il Priore di Casamari, fedele al segreto, non raccontò questo fatto che dopo la morte di S. Domenico, cui sopravvisse per più di vent’anni. Aveva egli timore di morire prima del Santo; ma questi medesimo, quando glielo disse, lo rassicurò che ciò non sarebbe avvenuto.

Tra quelli che Domenico ricevé allora nell’Ordine, merita singolar menzione Tommaso di Prouille, giovine d’illibata purezza e semplicità di costumi, teneramente amato dal Santo, che lo chiamava il suo figliolo. Alcuni antichi compagni del novello religioso, indignati di non averlo più fra loro, riuscirono a trarlo a forza di convento ed a stracciargli l’abito dell’Ordine. Si corse ad avvisarne Domenico, il quale subito entrò in chiesa a pregare. I rapitori, tolta a fra Tommaso anche la camicia di lana, facevano ogni sforzo per mettergliene una di lino; ma la vittima cominciò a mandar grida dolorose, dicendo di sentirsi bruciare; né ebbe pace finché, ricondotto all’ovile, riprese le ruvide, ma, care vestimenta, di cui era stato spogliato.

Qualche cosa di simile accadde pure ad un giureconsulto di Bologna. I suoi amici entrarono a mano armata nel chiostro di S. Nicolò per strappamelo via. I frati volevano andare in cerca di alcuni cavalieri, amici dell’Ordine, per opporre forza alla forza; Domenico invece soggiunse: “Io veggo intorno alla chiesa più di cento angeli, mandati dal Signore a difesa dei frati”.

Il servo di Dio predicava a Bologna assai di frequente; e tanta era la venerazione del popolo per lui che, senza aspettarlo alla chiesa dove era annunciato il discorso, andavano a prenderlo a S. Nicolò e l’accompagnavano al luogo destinato. Un giorno era andato a prenderlo gran folla, fra cui due studenti, uno dei quali, fattosi animo, disse a Domenico: “Vi prego di chiedere a Dio la remissione dei miei peccati, perché, se non m’inganno, ne sono pentito e li ho tutti confessati”. Il Santo che era ancora in chiesa, si accostò allora ad un altare, fece breve orazione, e ritornato rispose al giovane: “Sta di buon animo e persevera nell’amor di Dio; le tue colpe, ti sono state rimesse”. L’altro studente all’udire ciò, si avvicinò anche lui al Santo e imitando il compagno soggiunse: “Padre, pregate per me, che anch’io, ho confessato tutti i miei peccati”. E Domenico inginocchiatosi nuovamente dinanzi all’altare si mise a pregare. Ma avvicinatosi poscia al giovane, gli disse: “Figlio mio, non credere d’ingannare il Signoe, la tua confessione non è stata intera; per vergogna hai taciuto con tutta coscienza un peccato”. E tiratolo in disparte, gli disse ancora il peccato, che aveva avuto vergogna di confessare. Lo studente rispose: “Padre, così è; perdonatemi”. Domenico aggiunse qualche altra parola, e poi andò via insieme a tutto il Popolo che lo aspettava.

Lo Spirito di profezia era in lui abituale. S’incontrò una volta con un fratello che andava in missione; lo fermò, e scambiate appena poche parole, si accorse misteriosamente che quel fratello era in colpa; lo richiese quindi se mai avesse del denaro: confessò l’altro di averne; Domenico gli ordinò allora di gettarlo via, e gl’impose una penitenza. Nessun fallo lasciava egli impunito.

Ad osservare le regole dell’Ordine, dice Teodoro d’Apolda, egli era il primo, né trascurava mezzo, affinché da tutti fossero religiosamente ed interamente osservate. Ma se qualche fratello per umana fragilità mancava alle volte ai suoi doveri, Domenico non gli risparmiava la correzione.

Sapeva però così bene unire la severità con la dolcezza, che il colpevole restava punito, senza che l’uomo ne risentisse alcun turbamento. Non sempre riprendeva immediatamente dopo la colpa, anzi lasciava correre del tempo, come se non si fosse accorto di nulla; ma quando capitava l’occasione propizia, diceva al colpevole: fratello mio, la tal cosa voi non l’avete fatta bene; date gloria a Dio, e confessate la vostra mancanza. E come mostravasi padre con quelli che correggeva, così aveva le tenerezze di una madre con quelli che fossero afflitti. Nessuna parola ora più dolce e consolante della sua; tutti, che andavano a lui per trovar sollievo nelle loro afflizioni, ne ritornavano sempre consolati. aveva cura dell’anima degli altri frati come della sua propria, premuroso di mantenere in tutti il vigore e la pratica della virtù e della disciplina. E perché sta scritto che 1’andatura stessa dell’uomo, il riso delle sue labbra, la veste che indossa parlano di lui, non mancava che Domenico riprendesse un fratello riguardo alla forma dell’abito o alla religiosa povertà. Ogni giorno, a meno che non fosse impedito da gravi cause, faceva ai frati un sermone od una conferenza, e con tanta fede e con tante lacrime parlava loro, che eccitava in tutti la grazia della compunzione. Non ci fu altri che penetrasse come lui nel cuore dei frati…”.

Secondo il medesimo storico tre erano le cose che Domenico raccomandava soprattutto ai suoi figli: parlare sempre con Dio o di Dio; non portare mai denaro nei viaggi; non accettare temporali possessioni. Li esortava ancora a studiare incessantemente e ad annunciare la parola di Dio; conosceva subito quelli adatti per il pulpito, e non permetteva che si applicassero ad altro.

Come è sempre stato di tutti i Santi, anche Domenico aveva un gran potere sullo spirito delle tenebre. Più volte lo scacciò dal corpo dei suoi frati, più volte se lo vide comparire innanzi sotto forme diverse, ora per distrarlo nelle sue meditazioni, ora per disturbarlo mentre predicava. Riferisco da Teodoro d’Apolda il fatto seguente:

Un giorno che il Santo, vigile sentinella, faceva il giro della città di Dio, incontrò il demonio che, quasi bestia feroce, faceva la ronda per il convento. Lo fermò e gli domandò: – Perché vai girando in questo modo? – Il demonio rispose: – Per guadagnare qualche cosa. – Riprese il Santo: E che puoi guadagnare per i dormitori? E l’altro: – Caccio il sonno ai frati, persuado loro di non levarsi all’ufficio, e quando mi sia permesso, metto loro innanzi brutti sogni ed illusioni. – Il Santo lo condusse poi in coro, e gli domandò: – E qui che guadagno ci fai? – Rispose: Cerco di far arrivar tardi i frati e sortirne presto, e li faccio star distratti. – Interrogato riguardo al refettorio, rispose: – Faccio in modo che mangino più o anche meno del bisogno. – Condotto al parlatorio soggiunse: – Oh! questo sì che fa per me; qui le risa, qui i vani schiamazzi, qui le parole inutili. – Ma quando fu al capitolo, diede segno di volere andarsene, soggiungendo: – Io aborro questo luogo; perdo qui tutto quello che ho guadagnato altrove; qui i frati vengono ripresi delle loro colpe, qui se ne accusano, qui ne fanno penitenza, qui ne ricevono l’assoluzione”.

Domenico percorrendo la Lombardia aveva scorti ben tristi indizi dell’affievolimento della fede. In molti luoghi i laici si erano impadroniti del patrimonio della Chiesa; sotto il pretesto che essa era troppo ricca, tutti la derubavano. Il clero ridotto ad una degradante povertà, non bastava più a provvedere alla magnificenza del culto, ed a praticare con i poveri i doveri della carità; mentre l’eresia, che era stata causa di tante ruberie, era quella appunto che serviva di mezzo per giustificarle. Non può esservi per la Chiesa peggiori condizioni di queste. I beni che essa ha perduto le creano implacabili nemici in coloro stessi che li posseggono; l’errore si propaga come condizione indispensabile per salvaguardarne il possesso, ed il tempo che tutto distrugge, sembra impotente contro una tale alleanza d’interessi terreni coll’accecamento dello spirito.

Domenico fondatore di un Ordine mendicante, aveva diritto più di ogni altro di opporsi a questa spaventevole miscela di mali; e per farvi argine, istituì una congregazione, alla quale dette il nome di Milizia di Gesù Cristo. Era essa composta di persone secolari d’ambo i sessi, che si obbligavano a difendere i beni e la libertà della Chiesa a qualunque costo. L’abito era quello stesso che portavano nel secolo, solamente si distingueva per i colori domenicani, il bianco simbolo dell’innocenza, ed il nero di penitenza. Senza essere legati dai tre voti di povertà, castità ed ubbidienza, praticavano, quanto era in loro, vita religiosa, osservavano fedelmente le astinenze, i digiuni, le vigilie, e in luogo dell’ufficio recitavano un certo numero di Pater noster e di Ave Maria. Eleggevano un Priore il quale sotto l’autorità dell’Ordine li governasse; in giorni determinati poi si adunavano nelle chiese dei Frati Predicatori ad ascoltare la Messa ed un sermone. Quando Domenico fu annoverato fra i Santi, i fratelli e le sorelle di detta Congregazione, presero il nome di Milizia di Gesù Cristo e del Beato Domenico. In seguito ciò che in tale denominazione vi era di militante disparve insieme alle cause pubbliche che n’avevano dato origine, e la Congregazione restò tutta consacrata alla pratica della perfezione cristiana, sotto il nome di Fratelli e sorelle della penitenza di S. Domenico. Fu sotto questa nuova appellazione che Mugnone di Zamora, settimo Maestro Generale dei Frati Predicatori, confermò tale Congregazione, modificandone le costituzioni. I papi Gregorio IX, Onorio IV, Giovanni XXII e Bonifacio IX le concessero in diverse epoche vari privilegi, finché il papa Innocenzo VII ne approvò anche la regola tale quale da Mugnone di Zamora era stata compilata. La bolla è in data dell’anno 1405; ma non fu promulgata che nel 1439 sotto Eugenio IV.

La Milizia di Gesù Cristo fu il terzo Ordine istituito da S. Domenico o meglio il terzo ramo di un solo Ordine, che abbraccia nella sua ampiezza uomini, donne, ogni persona del secolo. Con la istituzione dei Frati Predicatori Domenico aveva richiamato dal deserto le falangi monastiche, ponendo loro in mano la spada dell’apostolato; con la istituzione del terz’Ordine introdusse la vita religiosa anche fra le mura domestiche ed al capezzale del letto nuziale. Fanciulle, vedove, maritate, persone d’ogni stato si videro allora popolare il mondo, con indosso le insegne di un Ordine religioso, praticandone ancora le regole nel segreto della propria abitazione. Lo spirito di associazione che aleggiava nel medio evo, e che è lo spirito del cristianesimo, contribuì assai a questo movimento. Ed in quella guisa che uno apparteneva alla tale famiglia per il sangue, alla tale corporazione per i servizi ai quali era obbligato, al tal popolo per la nascita, alla Chiesa per il battesimo, desiderava pure consacrarsi con atto di libera elezione ad alcuna di quelle gloriose milizie che servivano Gesù Cristo con la operosità della parola e della penitenza. La scelta cadeva fra le divise di S. Domenico o quelle di S. Francesco, innestati all’uno o all’altro di questi due tronchi piaceva vivere del loro succo, pur conservando la propria natura. Frequentavano le chiese dei rispettivi Ordini, comunicavano con loro nelle preghiere, pronti anche ad apprestare i soccorsi dell’amicizia, e studiosi di tener dietro, secondo la propria possibilità, alle tracce delle loro virtù. Svanì allora l’idea che per elevarsi alla imitazione dei Santi fosse indispensabile fuggire dal mondo: ogni camera poté trasformarsi in cella, ogni casa in una Tebaide. A misura che l’età o gli avvenimenti della vita alleggerivano il cristiano del fardello della carne, egli consacrava al chiostro una maggiore porzione di se medesimo. Se la morte della sposa o d’un figlio rendeva tutto triste intorno a lui, se una rivoluzione da onorato grado lo piombava nell’esilio o nell’abbandono, un’altra famiglia era pronta a riceverlo nel suo seno, un altro paese gli ridonava i diritti di cittadinanza. Egli passava dal terz’Ordine al primo Ordine, come dalla giovinezza alla virilità. La storia di queste istituzioni è una delle più belle cose che si possano leggere. Di là uscirono Santi in tutte le condizioni della vita umana, dal trono fino allo sgabello del povero, e con tanta abbondanza da ingelosirne il deserto ed il chiostro. Le donne principalmente arricchirono i terzi Ordini delle loro virtù. Troppo spesso incatenate fin dall’infanzia ad un giogo da esse non desiderato, si sottraevano alla propria condizione prendendo l’abito di S. Domenico o di S. Francesco. Il monastero andava a loro, non potendo esse andare a cercare il monastero; ed un angolo oscuro della casa paterna o coniugale si trasformava in misterioso santuario, abitato dallo sposo invisibile, che esse unicamente amavano. Chi non ha udito parlare di Santa Caterina da Siena e di Santa Rosa da Lima, due stelle domenicane, che hanno illuminato due mondi? Chi non ha letto la vita della beata Zdislava di Lemberk, che fu sposa e madre in Moravia? Così lo spirito di Dio provvede all’opera sua secondo i tempi, proporziona i miracoli alle miserie, e dopo aver fiorito nella solitudine, olezza sulle pubbliche vie.

CAPITOLO XVI Sesto ed ultimo viaggio di S. Domenico a Roma Secondo Capitolo Generale Malattia e morte del S. Patriarca

Con la creazione del Terz’Ordine la missione di Domenico era compiuta; altro non gli restava che dare addio a tutto ciò che sulla terra aveva amato di più. Roma teneva senza dubbio il primo posto nel suo cuore: là era stato con Azevedo, il suo più caro amico, quando ancora nella vita pubblica non aveva fatto alcun passo: là era tornato per ottenere l’approvazione e la conferma del suo Ordine: là aveva edificato S. Sisto e S. Sabina: là fissato il centro dell’Ordine, goduta la confidenza di due grandi pontefici, resuscitati tre morti, veduta crescere fino all’entusiasmo la venerazione del popolo verso di sé: là infine risiedeva nella sua infallibile maestà il vicario di Colui, ch’egli aveva amato e servito per tutta la vita. Poteva quindi rassegnarsi a morire senza aver ricevuto dal Pontefice un’ultima benedizione? Poteva chiuder gli occhi per sempre, senza averli rivolti ancora una volta alle colline della città santa? Poteva incrociare per sempre le mani, prima di avere offerto un ultimo sacrificio sull’altare degli apostoli Pietro e Paolo? E lasciare inaridire dalla morte i suoi piedi, prima di avere nuovamente calcato, per non più ripassarci, le vie del Celio e dell’Aventino?

Roma dunque ricevé per la sesta volta fra le sue braccia materne il piccolo uomo, da essa nutrito nella sua vecchiezza, e che le avrebbe generato figli e fedeli perfino in mondi di cui ignoravasi ancora il nome. Onorio III con vari diplomi diede a Domenico nuove testimonianze della sua sollecitudine e della sua sovrana benevolenza. Con uno, in data dell’8 dicembre 1220, sanava certe irregolarità in cui alcuni Frati erano incorsi per non aver ricevuto canonicamente gli Ordini sacri; con tre altri, dei 18 gennaio, 4 febbraio e 29 marzo dell’anno seguente, raccomandava i Frati Predicatori a tutti i prelati della cristianità; e con quello del 6 maggio permetteva loro di offrire il Santo Sacrificio, in caso di bisogno, sopra altare portatile. Questo diploma fu l’ultima pagina che Onorio III sottoscrisse in favore dell’Ordine, vivente ancora il fondatore: a lui toccò la gloria singolare di aver visto fiorire sotto il suo pontificato S. Domenico e S. Francesco, e di non essersi mostrato indegno nel suo governo di una grazia del cielo così segnalata.

Mentre Domenico stava per dare l’ultimo addio a Roma, la Provvidenza lo faceva incontrare nuovamente nel più vecchio amico che gli fosse rimasto, in Folco vescovo di Tolosa. Folco rappresentava da solo tutta la storia, ormai lontana, della Linguadoca; la storia delle fondazioni di Notre-Dame di Prouille e di S. Romano di Tolosa, e i benefici immensi e tutti gli altri ricordi, che avevano accompagnata l’infanzia dei Frati Predicatori. Ohi come allora dovette esser piena di dolcezze la conversazione di questi due grandi! Dio aveva coronati, con successo inaudito, tutti quei voti secreti insieme altre volte da loro concepiti; ed essi che aveano parlato tanto della necessità di rialzare, nella Chiesa l’apostolato, vedevano finalmente ristabilito l’ufficio della predicazione mediante un Ordine religioso, ormai diffuso da un capo all’altro dell’Europa. L’avere avuto sì gran parte in cotale opera meravigliosa, non li inorgogliva; ma giustamente più d’ogni altro gioivano della gloria della Chiesa, avendo più d’ogni altro prima sofferto per i suoi dolori. Né rincresceva a Folco di non essere stato lui il principale strumento in quell’opera divina. Superiore fin da principio al pungolo segreto della gelosia, la sua anima episcopale aveva sempre disprezzate quelle apprensioni, tanto facili in coloro che stanno al potere, riguardo alle cose che non abbiano fatto essi. Folco invece ben volentieri aveva lasciato che altri facesse il bene, e gliene aveva somministrati anzi gli aiuti: cosa più difficile assai che farlo da se medesimo. La sua corona era immacolata, il suo cuore soddisfatto. E Domenico che poteva desiderare di più? Oh! momenti felici, quelli in cui il cristiano, giunto al termine della sua missione, può rendere a se stesso testimonianza di avere adempiuto la volontà di Dio, ed ha il bene di effondere nel cuore di un altro cristiano, suo compagno ed amico, quella pace che nel servizio di Dio egli ha raggiunta! Di questo abbraccio fraterno tra Folco e Domenico è rimasto un documento storico, quasi testamento, la cui lettura ci consolerà della privazione di non potere ascoltare più da vicino i loro ultimi colloqui.

Nel nome del Signore, sia noto a tutti i quali leggeranno la presente lettera, che noi Folco, grazie a Dio, vescovo di Tolosa, per la remissione dei nostri peccati, per la difesa della fede cattolica e per il bene di tutta la diocesi di Tolosa, in persona nostra e dei nostri successori, diamo a voi, caro Domenico, Maestro della Predicazione, e al Frati del vostro Ordine, la chiesa di Notre-Dame di Fanjeaux con tutte le decime e tutti i diritti, che ne derivano; sia che appartengano alla nostra persona, sia che siano inerenti alla fabbrica o al cappellano della chiesa; riservandoci solamente, per noi e per i nostri successori, il diritto cattedratico, quello della procura e della cura delle anime, che noi affideremo al sacerdote che ci sarà presentato dal Maestro dell’Ordine o dal Priore di detta chiesa, o dai Frati. – E noi Domenico, Maestro della Predicazione, per noi, per i nostri successori e Frati dell’Ordine, rilasciamo a voi Folco, vescovo, ed ai vostri successori la sesta parte delle decime di tutte le chiese parrocchiali, della diocesi di Tolosa, da voi altra volta a noi concessa, di comune accordo con i canonici di S. Stefano: per sempre rinunciamo a questa donazione e al diritto di reclamare in virtù delle leggi e dei canoni”.

Quest’atto porta la data di Roma, 17 aprile 1221. Vi sono tre sigilli, quello della Cattedrale di S. Stefano, quello di Folco e quello di Domenico. Il sigillo di Domenico rappresenta il Santo in piedi, vestito da Frate Predicatore, con un bastone in mano; e nel giro sono impresse queste parole: Sigillo di Domenico, ministro delle predicazioni: la qual cosa dimostra che il titolo di Maestro della predicazione nel corpo dell’atto non era stato messo ad arbitrio, ma quale omaggio di Folco all’amico, non trovando miglior modo di esprimergli ciò che sentiva nel cuore. Il Sommo Pontefice nelle sue bolle e lettere non aveva dato altro titolo a Domenico che quello di Priore di S. Romano, ed in seguito Priore dell’Ordine dei Frati Predicatori.

Folco morì il 25 dicembre 1231, dieci anni dopo la morte di Domenico, e fu sepolto in una cappella dell’abbazia di Gran-Selve, non lontana da Tolosa. La sua tomba è scomparsa sotto le rovine, che ancora rimangono, dell’abbazia: ma le rivoluzioni del tempo e degli imperi nulla hanno potuto contro la sua memoria, strettamente legata ad un uomo e ad un’opera da lui protetti sempre, e che ora lo ricoprono della loro immortalità.

Dopo l’atto sopra riferito passarono pochi giorni e Domenico lasciò Roma, riprendendo la via di Toscana. Presso Bolsena, il padrone di una casa, che si trovava lungo la strada, soleva sempre ospitare il Santo; e da lui avanti di morire ne ebbe miracolosamente la ricompensa. Cadeva un giorno la grandine sui vigneti dei dintorni di Bolsena, e Domenico apparve nel cielo con la cappa spiegata sopra il vigneto del suo ospite, preservandolo così dal flagello. Tutto il popolo fu testimone di questa apparizione e, secondo che narra Teodoro d’Apolda, sulla fine del secolo decimoterzo indicavasi ancora la piccola casa che Domenico aveva abitato passando per Bolsena. I discendenti dell’antico proprietario la conservavano con cura affettuosa e, come gli era stato raccomandato espressamente dal loro antenato, sempre che ne avessero avuta occasione, vi davano cortese ospitalità ai Frati Predicatori.

La Pentecoste del 1221, giorno fissato per la celebrazione a Bologna del secondo capitolo generale, cadeva in quell’anno il 30 di maggio. Domenico, rientrando in S. Nicolò, trovò che si stava innalzando uno dei bracci del convento per ingrandire le celle; della qual cosa si dolse assai, e disse a fra Rodolfo, procuratore del convento, ed agli altri frati: “E che? così presto volete abbandonare la povertà, e fabbricarvi dei palazzi?”. Ordinò quindi che si cessassero i lavori, che non furono ripresi se non dopo la sua morte.

Neppure gli atti del secondo Capitolo generale sono pervenuti fino a noi. Sappiamo solo che l’Ordine fu diviso allora in otto provincie, cioè nelle provincie di Spagna, di Provenza, di Francia, di Lombardia, di Roma, di Alemagna, di Ungheria e d’Inghilterra. Il posto d’onore fu assegnato a quella di Spagna, non già per diritto di antichità, ma per venerazione verso il santo Patriarca, di cui era stata la culla. Suero Gomez fu designato Priore Provinciale di tale provincia; Bertrando di Garriga di quella di Provenza; Matteo di Francia di quella di Francia; Giordano di Sassonia di quella di Lombardia; Giovanni di Piacenza di quella di Roma; Corrado il Teutonico di quella di Alemagna; Paolo d’Ungheria di quella di Ungheria e Gilberto di Frassinet di quella d’Inghilterra. Le prime sei provincie in meno di quattro anni contavano già da sole circa sessanta conventi; le due ultime invece, cioè quelle d’Ungheria e d’Inghilterra, non avevano ancora nessun Frate Predicatore. Domenico ne inviò allora alcuni di quelli stessi che si trovavano al Capitolo generale.

Paolo, che fu destinato per l’Ungheria, era un professore di diritto canonico nell’Università di Bologna, di recente entrato nell’Ordine. Partì con quattro compagni, tra i quali Fra Sadoc rinomato per l’eccellenza delle sue virtù. I primi conventi li fondarono a Vesprim e ad Alba Reale. Poi si avanzarono fin verso quei popoli Cumani, che tanta parte aveano sempre avuto nelle sollecitudini di Domenico, e fra i quali egli avrebbe voluto terminare i suoi giorni. Racconterò un solo fatto circa lo stabilimento dei Frati Predicatori nell’Ungheria, fatto che contribuirà a farci viemmeglio conoscere come si effettuassero queste sante spedizioni.

In quel tempo, due frati della provincia d’Ungheria giunsero in un villaggio. Era l’ora in cui il popolo cristiano è solito di adunarsi per ascoltare la Messa. Finita la Messa, gli abitanti se ne tornarono alle loro case; Il sacrestano chiuse la chiesa, ed i frati rimasero fuori, senza che alcuno avesse compassione di loro. Solo un povero pescatore notò la cosa, e ne ebbe pietà; pur non osava invitarli con se, perché non aveva nulla da offrire loro. Ciò nonostante corse difilato a casa, e disse alla moglie: Oh! se avessimo da dar da mangiare a due poveri frati! Sto in pena per quei poveretti, che son là, sulla porta della chiesa, senza che nessuno offra loro ospitalità. – La moglie rispose: – Ecco qua, non ci abbiamo per mangiare che un po’ di miglio. – Il marito gli ordinò allora di scuotere ben bene la borsa dei danari onde vedere se per caso vi fosse qualche cosa; e con grande loro meraviglia ne uscirono fuori due monete d’argento. Il pescatore fuori di sé per la contentezza: – Va subito, disse alla moglie, a comprare del pane e del vino; cuoci poi il miglio e dei pesci. Quindi corse alla chiesa dove si trovavano ancora i frati ritti alla porta, e li invitò umilmente ad andare a casa sua. I frati andarono, si assisero a quella mensa povera, ma imbandita da infinita carità; e soddisfatto che ebbero alla fame, se ne partirono, ringraziando gli ospiti, e facendo voti perché Iddio li ricompensasse. Il Signore esaudì i loro voti. Da quel giorno la borsa del pescatore non fu mai vuota; ci si trovavano sempre due piastre A’argento. Egli poté così comprare una casa, dei campi, e pecore, e buoi; il Signore gli concesse anche un figlio; quando però fu sufficientemente provvisto, la grazia delle due monete d’argento cessò”.

La spedizione per l’Inghilterra non sortì esito meno felice di quella per l’Ungheria. Gilberto di Frassinet, che ne era capo, si presentò con dodici compagni al vescovo di Cantorbery; il quale sentendo ch’essi erano Frati Predicatori, senz’altro ordinò a Gilberto di predicare, lui presente, nella chiesa dove egli stesso aveva stabilito di salire sul pulpito quel giorno. Ne rimase talmente soddisfatto, che subito accordò ai Frati tutta la sua benevolenza e protezione fino alla morte. Il primo convento fu fondato ad Oxford, dove eressero una cappella alla Santissima Vergine ed aprirono delle scuole, che dal nome della parrocchia furono dette scuole di S. Edoardo.

Con le fondazioni d’Ungheria e d’Inghilterra Domenico aveva finito di prendere possesso di tutta Europa; né tardò molto a ricevere dal cielo l’avviso che la sua fine era prossima. Un giorno, mentre pregava e anelava ardentemente di essere liberato da quel sue corpo mortale, gli apparve un giovane di rara bellezza e: “Vieni, o diletto, gli disse, entra nel gaudio, vieni!”. Dovette essere stata rivelata a Domenico anche l’ora della morte. Difatti andato a trovare alcuni studenti dell’Università di Bologna poi quali nutriva grande affetto, dopo varii discorsi li esortò al disprezzo del mondo ed al pensiero della morte; quindi soggiunse: “Miei cari amici, ora voi mi vedete in buona salute, ma prima dell’Assunzione della Madonna anch’io lascierò questo corpo mortale”.

Si trovava allora a Venezia il cardinale Ugolino, in qualità di legato apostolico. Domenico desideroso, prima di morire, di rivedere un tale amico e di raccomandargli per l’ultima volta gli affari dell’Ordine, si recò colà, da dove fece ritorno a S. Nicolò sul finire di luglio, in piena estate.

Appena tornato, sebbene stanchissimo del viaggio, tenne la sera stessa un lungo discorso sulle cose dell’Ordine con fra Ventura e fra Rodolfo: l’uno procuratore e l’altro priore del convento. Verso la mezzanotte, fra Rodolfo che sentiva bisogno di riposo, cercò di indurre anche Domenico ad andare a dormire, senza alzarsi poi a Mattutino; ma il Santo non volle accondiscendere. Andò invece in chiesa e si mise a pregare fino all’ora dell’Ufficio, che recitò insieme con i frati. Dopo l’Ufficio disse a fra Ventura che si sentiva un po’ male alla testa: fu assalito tosto da una forte dissenteria e da febbre. Malgrado tali sofferenze non volle coricarsi in letto, ma si adagiò vestito sopra un sacco di lana. Il male progrediva, senza però che il malato desse segno d’impazienza: non lamenti, non gemiti; che anzi conservava allora, come sempre, una giuliva tranquillità. Sentendo che la malattia giorno per giorno si aggravava, chiamò presso di se i novizi, e con le più dolci parole del mondo, rese ancor più penetranti dalla letizia del suo volto, li confortò e li esortò al bene. Fatti quindi chiamare dodici dei frati più anziani e più gravi, in loro presenza, fece a fra Ventura la confessione generale di tutta la sua vita: alla fine aggiunse:

Per la misericordia di Dio ho conservata intatta fino ad oggi la verginità. Se anche voi bramate la stessa grazia, guardatevi dalle occasioni pericolose. E’ il profumo di questa virtù che rende il servo di Dio accetto al Cristo, e che gli acquista gloria e rispetto anche in faccia ai popoli. Perseverate nel servire il Signore con tutto il fervore dello spirito: date opera a mantenere ed estendere l’Ordine ora fondato: siate fermi nell’osservanza della regola, e crescete sempre in virtù”.

E per eccitarli ad essere sempre più vigilanti sopra loro stessi, aggiunse:

Quantunque la divina bontà m’abbia preservato fino a questo momento da ogni sozzura, pure vi confesso di non esser riuscito a liberarmi dall’imperfezione di trovare più piacere nel conversare con donne giovani, che con donne attempate”.

Ma fu preso tosto da un po’ di scrupolo per aver parlato con tanta amabile e santa ingenuità, e disse sommessamente a fra Ventura:

Fratello, temo di aver peccato parlando pubblicamente della mia verginità ai frati; avrei dovuto tacerne”.

Quindi nuovamente rivolse a tutti la, parola, e usando le solenni formule dei testamenti, soggiunse:

Ecco, o amatissimi fratelli, l’eredità che io vi lascio come a miei figlioli: abbiate la carità, praticate l’umiltà, e fate vostro tesoro la povertà volontaria”.

E per dare un valore maggior e a quella clausola del testamento, che riguardava la povertà, minacciò la maledizione di Dio e la sua a chiunque avesse osato corrompere l’Ordine con l’introdurvi il possesso di beni temporali.

I frati non disperavano tuttavia della vita del loro padre. Essi non potevano credere che Dio così presto avesse voluto toglierlo alla chiesa ed a loro. Pensando che il cambiare aria gli avrebbe giovato, per consiglio dei medici lo portarono alla Madonna del Monte, chiesa dedicata alla SS. Vergine, sopra un’altura nelle vicinanze di Bologna. La malattia però, ribelle a tutti i rimedi ed a tutti i desideri, non fece che aggravarsi, e Domenico sentendosi omai presso a morire, volle di nuovo i frati presso di se. Vennero in numero di venti con il priore fra Ventura, e si disposero intorno al malato. Domenico fece loro un discorso, del quale però non sappiamo altro, se non che parole più commoventi di quelle non erano mai uscite dal suo labbro. Gli fu poscia amministrato il sacramento dell’Estrema Unzione. Avendogli detto fra Ventura che il buon proposto della chiesa della Madonna dei Monti desiderava di avere il suo corpo e di seppellirlo in chiesa:

A Dio non piaccia, rispose il Santo, ch’io sia sepolto in altro luogo che non sia sotto i piedi dei miei fratelli. Portatemi subito nella vigna qui vicina, affinché io muoia là, e possa essere sepolto nella nostra chiesa”.

I frati allora lo riportarono a Bologna, tutti pieni di timore di vederlo, a ciascun passo spirare fra le braccia. Non avendo egli cella propria, fu posto in quella di fra Moneta, il quale prestò ancora una sua tonaca, affinché gli si potesse cambiare l’abito: poiché Domenico non aveva altre vesti fuori di quelle che portava indosso. Fra Rodolfo reggeva la testa al Santo e gli asciugava il sudore del volto con un pannolino, mentre gli altri assistevano, piangenti, a un così pietoso spettacolo. Domenico per consolarli disse loro:

Perché piangete? Dal luogo dove andrò potrò giovarvi assai meglio che non abbia fatto quaggiù”.

Qualcuno dei presenti lo richiese dove voleva che il suo corpo fosse seppellito: ed egli: “Sotto i piedi dei miei fratelli”.

Era già passata un’ora dacché avean fatto ritorno a Bologna: e vedendo il Santo che i frati sopraffatti dal dolore non pensavano a raccomandargli l’anima, egli stesso fece chiamare fra Ventura, e disse: “State pronti”.

E tutti si schierarono con mesta gravità intorno al morente. Domenico soggiunse: “Aspettate ancora un poco”.

Fra Ventura profittando di questi ultimi momenti, disse al Santo: “Padre, voi sapete in quale tristezza e desolazione ci lasciate; ricordatevi di noi al cospetto di Dio”.

E Domenico alzati gli occhi e le mani al cielo, fece questa preghiera: “Padre Santo, io ho adempiuta la vostra volontà, e coloro che mi avete affidati, ecco, li ho guidati e conservati sempre; ora li raccomando a voi: proteggeteli, custoditeli”.

Un momento dopo soggiunse: “Cominciate”.

E si cominciò solennemente la raccomandazione dell’anima. Domenico pregava con loro, o almeno mostrava balbettare qualche cosa fra le labbra. Giunti alle parole: Venite in suo aiuto, o santi di Dio: venite incontro a lui, o Angeli del Signore: prendete l’anima sua e portatela al cospetto dell’Altissimo, le sue labbra fecero un’ultima mossa, le sue mani si levarono al cielo, ed il suo spirito volò a Dio.

Era il 6 agosto, giorno di venerdì, dell’anno 1221, a mezzogiorno.

In quello stesso giorno ed alla medesima ora fra Guala, Priore del Convento di Brescia e poi vescovo di quella città, appoggiatosi per un momento alla torre del convento, dove erano le campane, fu preso da leggero sonno. Vide allora come aprirsi il cielo, e due scale da quell’apertura discendere fino a terra. Alla sommità d’una di esse stava Gesù Cristo; alla sommità dell’altra la Beata Vergine, sua Madre. In basso, fra le due scale, una sedia su cui era seduto un tale, che pareva frate, senza però che si potesse discernere chi egli fosse, avendo la faccia ricoperta dal cappuccio, come si usa fare con i morti. Gli angeli salivano e discendevano per le due scale cantando inni sacri, mentre le scale tirate su da Gesù Cristo e dalla sua santa Madre s’elevarono al cielo, e la sedia, con sopra colui che vi sedeva, s’innalzava con esse. Giunte che furono a grande altezza il cielo si chiuse, e la visione disparve. Fra Guala sebbene debole assai per una malattia avuta di recente, si recò, immediatamente a Bologna, dove apprese come in quello stesso giorno ed alla medesima ora in cui egli aveva avuta la visione Domenico era morto.

Sempre in quello stesso giorno due frati di Roma, Tancredi e Raon, si recarono a Tivoli dove, giunti un po’ prima di mezzogiorno, Tancredi disse a Raon di andare a celebrare la S. Messa. Raon, avanti di accostarsi all’altare, volle confessarsi, e ne ebbe da Tancredi per penitenza di ricordarsi nel Santo Sacrificio del loro padre Domenico, malato a Bologna. Raon, giunto a quel punto della Messa in cui si fa la commemorazione dei vivi, stava per raccogliersi nel pensiero che gli era stato imposto, quando, rapito in estasi, vide Domenico che se ne partiva da Bologna, cinta la fronte di una corona d’oro e circonfuso da un meraviglioso splendore, con a destra e a sinistra due uomini di venerando aspetto, che lo accompagnavano. Un’interna voce subito lo fece avvisato che il servo di Dio era morto ed entrato gloriosamente nella celeste patria.

Non è difficile intendere il significato delle due scale del sogno di Guala, e dei due vecchi veduti da Raon nell’estasi: significavano senza dubbio l’azione e la contemplazione, da Domenico tanto mirabilmente congiunte nella sua persona e nel suo Ordine.

Per disposizione della Provvidenza, poco dopo che Domenico aveva esalato l’ultimo respiro, giunse a Bologna il Cardinale Ugolino. Egli stesso volle celebrarne i funerali. Si recò quindi a S. Nicolò, dove erano anche il Patriarca d’Aquileia, e vescovi, abati, signori, tutto un popolo intero. Alla presenza di tanta moltitudine fu fatto il trasporto del corpo del Santo, spogliato del solo tesoro che gli era rimasto, una catena di ferro da lui portata sulla nuda carne, e che fra Rodolfo gli aveva tolta nel rivestirlo degli abiti funerei. Tale catena fu poi consegnata al B. Giordano di Sassonia. Tutti gli sguardi e tutti i cuori erano rivolti a quel corpo esanime. Si iniziò l’Ufficio; ma anche i cantici risentivano dell’universale tristezza e pareva uscissero da labbra grondanti lacrime. A poco a poco però lo spirito dei frati cominciò ad elevarsi al di sopra di questo mondo, ed il padre apparve loro non più come un vinto dalla morte e di cui altro non restasse che le fredde spoglie; ma per la certezza che ne avevano, sembrò loro di contemplarne la gloria; ed un canto trionfale successe ai funerei lamenti, una gioia indicibile scese dal cielo in tutti gli spiriti. Il Priore di S. Caterina di Bologna, di nome Alberto, che era molto amato da Domenico, entrò in quel momento in chiesa; e tutta quella esultanza dei frati giunta inaspettata al suo cuore trafitto, lo tolse fuori di sé. Ed eccolo a gettarsi sul corpo del Santo, a coprirlo di baci, a scuoterlo con prolungati abbracciamenti, quasi avesse voluto per forza farlo rivivere e rispondergli. Né le reliquie dell’amico rimasero insensibili all’accesso di tanto affetto. Alberto sollevatosi su, disse a fra Ventura: “Buone nuove, Padre Priore, buone nuove! Maestro Domenico mi ha abbracciato e mi ha detto che in questo stesso anno io andrò a raggiungerlo in Cristo”. E veramente in quel medesimo anno Alberto morì.

Terminata cotale ufficiatura senza nome né nella lingua del dolore né in quella della gioia, i frati deposero il corpo del loro Padre, tal quale si trovava nell’istante della morte, in una cassa di legno, ben chiusa con lunghi chiodi, senza altri aromi che l’odore delle suo virtù.

Sotto il pavimento della chiesa era stata scavata una fossa, ridotta con pietre a forma di sepoltura; lì fu calato il deposito, e fu chiuso con una grossa pietra, diligentemente cementata, per evitare che qualche mano temeraria non avesse ardito molestarlo. Niente fu inciso su quel masso, né vi fu innalzato alcun monumento. Domenico si trovò in realtà, come aveva desiderato, sotto i piedi dei suoi frati.

La notte che seguì al giorno della tumulazione, uno studente di Bologna, il quale non aveva potuto assistere ai funerali, vide in sogno Domenico nella chiesa di S. Nicolò assiso in trono e coronato di gloria. Stupefatto della visione, si fece a interrogarlo: “Non siete voi morto, o maestro Domenico?” E il Santo: “No, che non son morto, o figlio, poiché ho un gran buon padrone con il quale ora vivo”. Al mattino lo studente si recò subito alla chiesa di S. Nicolò ed in quel medesimo luogo dove aveva visto Domenico assiso in trono trovò il di lui sepolcro.

Questa la vita, questa la morte di Domenico di Gusman, Fondatore dell’Ordine dei Frati Predicatori, uomo anche umanamente il più ardito di spirito ed il più tenero di cuore che sia mai esistito: due qualità difficili a trovarsi insieme unite, ma che in lui furono invece congiunte in perfetta armonia.

Esplicò l’una in una vita esteriore di prodigiosa attività; apparì l’altra nella sua vita intima, di cui si può dire che ciascun respiro fosse un atto di amore verso Dio e verso il prossimo.

Le memorie che il suo secolo ci ha lasciato di lui sono numerose, ma molto frammentate. Io le ho lette con ammirazione e con stupore per la sublime semplicità di cui sono adorne, e per il carattere che attribuiscono al loro eroe. Perché quantunque fossi certo che S. Domenico era stato calunniato dagli scrittori moderni, non potevo persuadermi che la sua storia non ne somministrasse alcun pretesto. Ma ho dovuto ricredermi e constatare per esperienza quanto costi di lavoro e di virtù a Dio ed agli uomini il conservare in questo mondo qualche vestigio di verità. Quel che di vero mi fu dato scoprire l’ho riprodotto fedelmente; non così l’amore, che sovrabbonda in quelle antiche scritture verso la persona di S. Domenico, e le continue ripetizioni, in cui gli uomini del secolo XIII non finiscono mai di parlare della dolcezza, della bontà, della misericordia, della compassione di lui, e di tutti gli atteggiamenti, che la carità prendeva nel suo cuore: a ciò non valsi.

La testimonianza di costoro non può esser sospetta; nessuno di essi però si sognò mai certamente di scrivere alla stregua dei criteri dei nostri tempi. E se io stesso, nel ridipingere dietro loro la figura di S. Domenico non ho potuto eguagliarli nella tenerezza dello stile, sono stato peraltro tenuto da loro bene in guardia per non trasformare la storia di lui in una apologia. L’apologia per un uomo siffatto sarebbe un’ingiuria.

Narrai la sua vita senza fermarmi a difenderla, ad imitazione dei suoi figli che non posero sulla sua tomba epitaffio alcuno, sicuri ch’essa avrebbe parlato da se e molto forte. Ma poiché i suoi primi storici, avanti di separarsi da lui, hanno pietosamente tratteggiato i principali lineamenti della sua persona, li imiterò; senonché riconoscendomi incapace di uguagliare le tinte e la naturalezza del loro pennello, prenderò ad imprestito dal più antico ed illustre di essi il venerato ritratto del mio Padre.

Tanta, dice il B. Giordano di Sassonia, era in lui l’onestà di costumi, tanto lo slancio nel fervore divino, che subito appariva essere egli un vaso di onore e di grazia, adorno di ogni prezioso ornamento. Niente valeva a turbare la tranquillità del suo spirito, se non forse la compassione e la misericordia. E siccome la contentezza del cuore traspare anche al di fuori, dagli stessi suoi modi pieni di grazia e di gioia facilmente si argomentava la serenità interiore, mai turbata da alcun moto di collera. Nelle sue decisioni era fermo; di rado gli accadeva di disdirsi, pensando sempre prima ogni cosa ponderatamente al cospetto di Dio. Che se la sua figura brillava di uno splendore dolce ed amabile, non per questo era meno rispettato, anzi si accattivava assai facilmente il cuore di tutti, e bastava guardarlo per sentirsi attratti verso di lui. Fosse in viaggio con i suoi compagni o fosse in casa d’altri, fosse con i grandi, con i principi, con i prelati, dappertutto dov’egli si trovava abbondava in discorsi ed in esempi che inducessero le anime al disprezzo del mondo ed all’amore di Dio; uomo evangelico sempre con la parola e con i fatti. Durante il giorno, si trovasse con i suoi frati o con altri, era inarrivabile nella facilità e piacevolezza di questo suo conversare; durante la notte nessuno lo uguagliava nelle veglie e nella preghiera. Serbava le lacrime per la sera, la gioia per la mattina. Il giorno lo dava tutto al prossimo, la notte a Dio; sapendo che Dio ha consacrato il giorno alla misericordia e la notte al devoto ringraziamento. Piangeva spesso e abbondantemente; e sia di giorno quando egli offriva il santo sacrificio, sia di notte quando vegliava, le lacrime erano quasi il suo pane quotidiano. Soleva passare in chiesa tutto il tempo del riposo; mai aveva un letto, o molto raramente, dove coricarsi. Pregava e vegliava nelle tenebre fino a che la fragilità del corpo glielo concedeva; e quando la stanchezza lo costringeva finalmente al riposo, dormiva un poco dinnanzi a qualche altare o in altra parte della chiesa, appoggiando la testa, come il patriarca Giacobbe, sopra una pietra, per riprendere poi con il solito fervore la vita dello spirito. Nella sua universale carità egli abbracciava tutti gli uomini; e come li amava tutti, così era da tutti riamato. Niente gli era più naturale che, rallegrarsi con chi era allegro, piangere con chi piangeva, donarsi al prossimo ed agli amici. C’era ancora un’altra cosa che lo rendeva amabile a tutti, la semplicità dei suoi modi, in cui neppure l’ombra della finzione o della doppiezza mai appariva. Amante della povertà, indossava sempre gli abiti più laceri; padrone assoluto del suo corpo, sia nel mangiare che nel bere era di una estrema sobrietà, contento di poco cibo usuale e di pochissimo vino, tanto da soddisfare al puro bisogno, senza nocumento del sottile e delicato acume del suo spirito. Chi raggiungerà la virtù di un tale uomo? Potremo ammirarlo ed argomentare dai suoi esempi quanta sia l’inerzia del nostro tempo; ma fare quello che egli fece appartiene ad una grazia singolare, seppure Dio la donerà ancora una volta a qualche altro uomo che Egli vorrà innalzare all’apice della santità. Ciò nonostante, imitiamo, fratelli miei, secondo le nostre deboli forze, gli esempi del nostro Padre, e rendiamo grazie al Redentore per aver dato a noi suoi servi, in questa via sulla quale camminiamo, un tale capo. Preghiamo il Padre delle. misericordie che ci avvalori di quello spirito che governa i figli di Dio, affinché seguitando le tracce dei nostri maggiori, arriviamo anche noi per diritto cammino all’eterna patria, dove il beato Domenico ci ha preceduti”.

CAPITOLO XVII Traslazione del corpo di S. Domenico Canonizzazione del Santo

Per lo spazio di dodici anni trascorsi dalla morte di Domenico, Dio manifestò luminosamente la santità del suo servo con gran numero di miracoli avvenuti alla sua tomba o ad invocazione del suo nome. Giorno e notte si vedevano continuamente malati sopra la pietra che copriva le sacre reliquie, i quali se ne ripartivano poi sanati, attribuendo al Santo la grazia della guarigione. Alle pareti circostanti si appendevano quadri in memoria dei benefici ricevuti, né il tempo valse mai a cancellare i segni di una popolare venerazione. Ciò nonostante una densa nube faceva ombra agli occhi dei frati; e mentre il popolo glorificava il loro fondatore, essi, i suoi figlioli, nonché aver cura di mantenerne sempre viva la memoria, sembravano adoprarsi per oscurarne lo splendore. Sia perché non solo lasciavano senza alcun ornamento il di lui sepolcro, ma per timore di essere accusati di approfittare a scopo di lucro del culto che gli si prestava, staccavano dalle pareti quei quadri che i devoti vi appendevano. E se pur vi era qualcuno a cui ciò dispiacesse, nondimeno non aveva coraggio di contraddire.

Avvenne per giunta che, crescendo sempre più il numero dei frati, fu necessario abbattere la vecchia chiesa di S. Nicolò per fabbricarne una nuova: la tomba del S. Patriarca fu lasciata allora allo scoperto, esposta alle piogge e a tutte le ingiurie delle stagioni.

Finalmente la cosa toccò il cuore di molti frati, i quali deliberarono fra loro sul modo di trasportare quelle preziose reliquie in un sepolcro più conveniente; erano però nella persuasione di non poterlo fare senza l’autorizzazione del Romano Pontefice.

Certo che era in diritto dei figli, dice il B. Giordano di Sassonia, dar sepoltura al loro padre; ma permise Iddio che a compiere tal pietoso ufficio essi cercassero il concorso di un personaggio molto più illustre di loro, appunto perché la traslazione del glorioso Domenico acquistasse anche il carattere di canonicità”.

I frati dunque prepararono un sepolcro più degno per il loro padre e mandarono una deputazione al Pontefice per sentire il da farsi. Sedeva allora sul trono pontificale il vecchio Ugolino Conti, sotto il nome di Gregorio IX, il quale ricevette i frati molto aspramente, e li rimproverò di aver trascurato per tanto tempo di rendere l’onore dovuto al loro patriarca. “Io ho conosciuto quell’uomo apostolico, aggiunse, e non dubito affatto, che sia partecipe in cielo della gloria dei santi apostoli”. Gregorio avrebbe desiderato di trovarsi in persona a quella traslazione, ma trattenuto dai doveri del suo ufficio, scrisse all’arcivescovo di Ravenna di portarsi a Bologna con i suoi suffraganei per assistere alla cerimonia.

Si arrivò così alla Pentecoste dell’anno 1233. Il Capitolo generale dell’Ordine era già convocato a Bologna, sotto la presidenza di Giordano di Sassonia, immediato successore di Domenico nel generalato. Ossequenti agli ordini del Pontefice, erano colà convenuti anche l’Arcivescovo di Ravenna ed i vescovi di Bologna, di Brescia, di Modena e di Tournay. I frati, accorsi da ogni parte, erano più di trecento; gli alberghi rigurgitavano di signori e nobili personaggi delle città vicine; immensa l’aspettazione del popolo.

Ma intanto, dice il B. Giordano di Sassonia, i Frati sono in preda all’angoscia: pregano, impallidiscono, tremano per il timore che il corpo di S. Domenico, esposto per tanto tempo alle intemperie di una vile sepoltura, apparisca corroso dai vermi ed esali cattivo odore, diminuendo così il concetto della di lui santità”.

Angustiati da questo pensiero, stavano divisando di aprire segretamente la tomba del Santo; ma Dio non lo permise. Il Potestà di Bologna, sia che gliene fosse nato sospetto, sia che volesse certificarsi meglio sull’autenticità delle reliquie, fece custodire da cavalieri armati notte e giorno il sepolcro. Tuttavia per fare con più libertà la ricognizione del corpo, e per evitare in quel primo momento la confusione di un popolo immenso, come era allora in, Bologna, fu stabilito che l’apertura della tomba si facesse di notte. Il martedì di Pentecoste dunque, 24 di maggio, avanti l’aurora, l’Arcivescovo di Ravenna e gli altri Vescovi, il Generale dell’Ordine con i Definitori del Capitolo, il Potestà di Bologna, i principali signori e cittadini, così di Bologna come delle città vicine, al chiarore di fiaccole si radunarono intorno all’umile pietra che da dodici anni copriva i mortali avanzi di S. Domenico. Alla presenza di tutti, fra Stefano, priore provinciale di Lombardia, e fra Rodolfo si misero coll’aiuto di altri frati a levare il cemento che fissava al suolo la pietra. Si era indurito assai, e non cedette che a forza di grimaldello. Ciò fatto, e rese visibili le pareti esterne della tomba, fra Rodolfo con un martello ruppe un po’, uno spigolo, e per mezzo di leve si poté così sollevare, sebbene con fatica, la pietra superiore del monumento. Non ancora si era potuta alzare del tutto, che un profumo celestiale cominciò a spandersi dal sepolcro semiaperto; profumo mai sentito, impossibile ad immaginare.

L’arcivescovo, i vescovi, tutti quanti insomma erano presenti, pieni di stupore e di gioia caddero in ginocchio piangendo e lodando il Signore. Tolta la pietra, apparve in fondo alla tomba la cassa di legno che racchiudeva le reliquie del Santo. Nella tavola superiore c’era una piccola fessura, ed era per essa che esalava abbondantemente quell’odore, che aveva inebriato tutti gli astanti, e che si fece ancora più fragrante quando la cassa fu tratta fuori della fossa. Tutti si chinarono per vedere la preziosa custodia, e i baci e le lacrime vi caddero sopra in abbondanza. Finalmente, estratti i chiodi, fu aperta dal di sopra la cassa, e comparvero agli occhi di tutti i frati e degli amici le reliquie del Santo. Non vi si ritrovarono che ossa, ma ossa piene di gloria e di vita per il celeste profumo, che da loro emanava. Dio solo sa qual gioia inondò allora il cuore di tutti, e nessun pennello potrebbe ritrarre quella notte profumata, quel silenzio emozionante, quei vescovi, quei cavalieri, quei frati, tutti quei visi brillanti di lacrime e piegati sopra una cassa a cercarvi, al chiarore di ceri, il grande e santo uomo che dal trono di Dio certamente li rimirava, e rispondeva alla loro pietà con quegli invisibili amplessi, che temprano la gioia, quando è troppo forte nell’anima. I vescovi non stimarono le loro mani abbastanza filiali da toccare le ossa del Santo; ne lasciarono quindi la consolazione e l’onore ai figli di Lui. Giordano di Sassonia si chinò con rispettosa devozione su quelle sacre reliquie e le trasferì in una nuova cassa fatta di larice; legno, come dice Plinio, che resiste all’azione del tempo. La cassa fu chiusa con tre chiavi, una delle quali fu consegnata al Potestà di Bologna, un’altra a Giordano di Sassonia, e la terza al Priore Provinciale di Lombardia; fu quindi trasportata nella cappella dove si stava innalzando il monumento destinato a custodire il, sacro deposito. Il monumento era di marmo, ma senza alcuna scultura.

Fattosi giorno, i vescovi, il clero, i frati, i magistrati, i signori si recarono nuovamente alla chiesa di S. Nicolò, già rigurgitante di popolo immenso e di gente d’ogni nazione. L’arcivescovo di Ravenna cantò la Messa, che era in quel giorno la Messa del martedì di Pentecoste, e per felice combinazione le prime parole del coro furono: accipite jucunditatem gloriae vestrae, rallegratevi della vostra gloria. La cassa stava aperta e spandeva per la chiesa soavissimo odore, che i profumi dell’incenso non valevano per nulla a coprire. Al canto del clero e dei religiosi univasi ad intervalli il suono delle trombe; una moltitudine infinita di fiaccole brillava nelle mani del popolo. Non ci fu cuore, per quanto duro, che non si aprisse alla dolce ebbrezza di quel trionfo di santità. Finita la cerimonia e chiusa la cassa, i vescovi la riposero sotto il marmo, affinché là, in pace ed in gloria, aspettasse il segnale della resurrezione. Ma otto giorni dopo, per le pressanti preghiere di molte rispettabili persone che non avevano potuto assistere alla traslazione, fu riaperto il monumento. Giordano di Sassonia prese in mano il venerabile capo del S. Patriarca e lo mostrò a più di trecento frati, i quali ebbero così la consolazione di appressarvi le loro labbra, rimaste per lungo tempo profumate da quell’ineffabile bacio. Poiché quanto avesse toccato le ossa del Santo rimaneva impregnato del profumo che da esse emanava.

Anche noi abbiamo sentito, dice il B. Giordano di Sassonia, questo prezioso odore; onde di ciò che abbiamo veduto e sentito rendiamo testimonianza. Non potevamo saziarci dall’aprire i nostri sensi alla dolce impressione che ne causava quel profumo, per quanto fossimo rimasti lungo tempo presso il corpo di S. Domenico. Non cagionava fastidio; eccitava anzi il cuore alla pietà, ed operava miracoli. Toccavi quel corpo con la mano, con una cintura, con qualche altra cosa? Subito s’imbeveva di quell’odore”.

Teodoro d’Apolda fa notare a tal proposito, che anche avanti la morte, Dio aveva privilegiato il Santo di questo segno esteriore della purità dell’anima. Un giorno mentre a Bologna celebrava la messa in occasione di una festa solenne, giunto che fu all’offertorio, si accostò a lui uno studente e gli baciò la mano. Quel giovane era dominato da una forte incontinenza, di cui forse cercava la guarigione; baciando la mano di S. Domenico sentì tale profumo, che gli rivelò in un tratto l’onore e la gioia dei cuori puri, e da quel momento, con l’aiuto di Dio, fu sempre superiore alla corruzione delle sue inclinazioni.

Gli strepitosi miracoli che accompagnarono la traslazione del corpo di S. Domenico, indussero Gregorio IX a non ritardarne più a lungo la canonizzazione. Con lettera dunque dell’11 di Luglio 1233 dette commissione a tre insigni ecclesiastici, Tancredi, arcidiacono di Bologna, Tommaso, Priore di S. Maria del Reno, Palmieri, canonico di S. Trinità, di procedere ad un’inchiesta sulla di lui vita. Dal 6 al 30 di Agosto l’inchiesta fu ultimata. I commissari apostolici ascoltarono, previo giuramento, la deposizione di nove Frati, scelti fra quelli che avevano avuto relazioni più intime con S. Domenico; questi furono Ventura di Verona, Guglielmo di Monferrato, Amizon di Milano, Bonvisi di Piacenza, Giovanni di Navarra, Rodolfo di Faenza, Stefano di Spagna, Paolo di Venezia e Frugero di Penna. Tutti questi testimoni però, ad eccezione di Giovanni di Navarra, non avevano conosciuto Domenico nei primi tempi del suo apostolato: onde i commissari della Santa Sede credettero necessario fare una seconda inchiesta nella Linguadoca, e delegarono a questo effetto l’abate di S. Saturnino di Tolosa, l’arcidiacono della medesima chiesa, e quello di S. Stefano. Costoro ascoltarono ventisei testimoni, e più di trecento rispettabilissime persone sottoscrissero con giuramento alle deposizioni fatte dai ventisei intorno alle virtù di S. Domenico ed al miracoli operati per sua intercessione. Non conosciamo la data precisa di quest’atto, ma fu certo verso la fine del 1233 o al principio del 1234.

Le deposizioni di Bologna e di Tolosa furono esaminate a Roma dallo stesso Gregorio IX e dal Sacro Collegio; ed un autore contemporaneo ci fa sapere che il Pontefice parlando, in quell’occasione, di S. Domenico, disse: “Son certo della sua santità, come son certo di quella dei SS. Apostoli Pietro e Paolo”. La Bolla di canonizzazione che tenne dietro a questi processi, è del seguente tenore:

Gregorio, vescovo, servo dei servi di Dio, ai venerabili fratelli arcivescovi e vescovi, ed ai cari figli abati, priori, arcidiaconi, arcipreti, decani, proposti ed altri prelati delle chiese, ai quali perverranno queste lettere, salute ed apostolica benedizione.

La sorgente della Sapienza, il Verbo del Padre, la cui natura è bontà, la cui opera è misericordia, che riscatta e rigenera quelli ch’egli ha creato, e veglia fino alla consumazione dei secoli sulla vigna che ha tratto fuori dall’Egitto, Gesù Cristo Signor nostro, in vista dell’instabilità degli spiriti, sapientemente fa apparire nuovi segni e fa miracoli di nuovo genere contro la diffidenza dell’incredulità. Dopo la morte di Mosè, vale a dire dopo l’abolizione della legge egli, adempiendo le promesse fatto ai nostri padri, monta sulla quadriga dell’Evangelo, con in mano l’arco della parola santa, tenuto teso durante tutto il regno giudaico. Si avanza in mezzo alle onde del mare, cioè in mezzo alle innumerevoli nazioni, la cui salute era figurata in Rahab, calpesta la baldanza di Gerico, cioè la gloria del mondo, e con stupore dei popoli, subito trionfa al primo fremito della predicazione. Il profeta Zaccaria (Zac 6) vide questo carro a quattro cavalli uscire fuori quattro volte da due montagne di bronzo. La prima volta era tirato da cavalli rossi: in essi erano figurati i maestri delle nazioni, i forti della terra, coloro che, sottomessi per la fede al Dio d’Abramo, padre dei credenti, ad esempio del loro duce e per assicurar meglio i fondamenti della fede, tinsero i loro abiti in rosso, vale a dire nelle acque delle tribolazioni, ed imporporarono del loro sangue tutti gli emblemi della loro milizia, sprezzatori della spada temporale, in vista della futura gloria; e che divenuti martiri, cioè testimoni, sottoscrissero con la loro professione di fede il libro della nuova legge; consacrarono con il sangue d’ostie ragionevoli, sostituito al sangue di animali, il libro ed il tabernacolo, opera non dell’uomo, ma di Dio e tutti i vasi del ministero evangelico, aggiungendo alla loro confessione il peso dei miracoli; e gettando finalmente la rete della predicazione sulla vasta estensione dei mari, formarono di tutte le nazioni che sono sotto il cielo, la Chiesa di Dio. Ma poiché la moltitudine ingenerò la presunzione, ed alla libertà tenne dietro la licenza, il secondo carro fu visto tirato da cavalli di color nero, colore di lutto e di penitenza: in questi era raffigurata quella squadra condotta dallo spirito nel deserto, sotto la direzione del santissimo Benedetto, altro Eliseo del nuovo Israele; squadra che ristabilì tra i figli dei profeti la vita comune, riannodò il filo rotto dell’unità, ed estendendosi con le buone opere fino a quella terra dell’Aquilone, donde procede ogni mal e, fece abitare in cuori contriti Colui che non può stare in corpi sottoposti al peccato. Dopo di che, quasi a rinfrescare le affaticate schiere e far succedere la gioia ai lamenti, ecco il terzo carro con cavalli bianchi, cioè con i figli degli Ordini di Citeaux e di Flore i quali, simili a pecore ben pasciute, pieni del latte della carità, uscirono dal bagno della penitenza con a capo S. Bernardo, quell’ariete rivestito dall’alto dello spirito del Signore, che li condusse nell’abbondanza delle convalli, acciocché i passeggeri liberati da loro, cantassero inni, e fissassero sui flutti gli accampamenti del Dio della guerra. Mentre dunque il nuovo Israele con questi tre eserciti si difendeva contro un egual numero di eserciti di Filistei, sull’undecima ora, quando il giorno già piegava a sera, cioè quando la carità si era raffreddata per l’iniquità, ed il sole di giustizia stava anch’egli per tramontare, il padre di famiglia ha voluto chiamare sotto le armi una milizia ancora più adatta a proteggere la vigna piantata di sua mano, e coltivata sempre da operai da lui mandati in diversi tempi; la quale invece era ora non solamente ingombra di rovi e di spine, ma pressoché distrutta da una moltitudine ostile di piccole volpi. Ecco perché, come ora vediamo, dopo i primi tre carri, diversi nei loro simboli, sotto la figura del quarto carro tirato da cavalli forti e di svariato colore, Dio ha suscitato le legioni dei Frati Predicatori e del Frati Minori, con i loro due prescelti per il combattimento. Uno di questi duci fu S. Domenico, uomo a cui Dio comunicò la forza e l’ardore della fede, ed al collo del quale attaccò, come a cavallo di sua gloria, il carro della divina predicazione. Fanciullo egli ebbe cuore da vecchio; nella mortificazione della carne ricercò l’autore della vita. Consacratosi a Dio sotto la regola del B. Agostino, imitò Samuele nell’assiduo servizio del tempio, e fu un altro Daniele nel fervore delle sue religiose aspirazioni. Coraggioso atleta, camminò per i sentieri della giustizia e per le vie della santità; non cessò mai dal far la guardia al tabernacolo e dall’esercitare gli uffici della chiesa militante; tenne la carne sommessa alla volontà, i sensi alla ragione, e addivenuto un solo spirito con Dio, si studiò di trasformarsi tutto in lui negli ardori della contemplazione, senza che nel suo cuore e nelle sue opere venisse meno l’amore del prossimo. E feriva così a morte le concupiscenze della carne, e sfolgorava con raggi così abbaglianti l’intelletto cieco degli empi, che ogni setta di eretici tremò, e ne esultò la Chiesa dei fedeli. La grazia crebbe in lui con l’età, e pieno di zelo per la salute delle anime, si consacrò tutto alla predicazione della parola di Dio, inducendo molti altri ancora al ministero evangelico, tanto da meritarsi anche sulla terra nome e realtà di grande. Divenuto pastore e principe in mezzo al popolo di Dio, riuscì con i suoi meriti ad istituire un nuovo Ordine di Predicatori, lo regolò con i suoi esempi, e non cessò di stabilirlo e confermarlo sempre più con autentici ed evidenti miracoli. Imperocché fra gli altri segni che nel corso della sua vita mortale manifestarono la sua possanza e santità, ebbe il potere di rendere la parola ai muti, la vista ai ciechi, l’udito al sordi, le gambe ai paralitici, la salute ad una moltitudine di infermi; onde con siffatti prodigi si fa chiaramente manifesto qual fosse lo spirito che animava la polvere di quel santissimo corpo. Noi dunque, che trattammo familiarmente con lui i quando occupavamo nella Chiesa un grado inferiore e che nel tenore di vita che egli menava avemmo insigni prove della sua santità, ora che testimoni degni di fede ci hanno comprovato la verità dei suoi miracoli, noi, con l’ovile dei fedeli che al Signore è piaciuto di affidare alle nostre cure, crediamo che Domenico potrà giovarci, per grazia di Dio, con la sua intercessione, e dopo averci consolati in terra della sua dolce amicizia, ci vorrà ora aiutare dal cielo con il suo valevole patrocinio. Laonde, dietro il consiglio e l’assenso dei nostri fratelli e prelati assistenti alla sede apostolica, abbiamo deliberato di registrare il suo nome nell’albo dei Santi. Dunque fermamente decretiamo, e con la presente Bolla ordiniamo a tutti voi di celebrare e di far celebrare solennemente la sua Festa alle none di Agosto, giorno precedente a quello in cui egli depose il carico della sua carne e ricco di meriti entrò nella città dei Santi, affinché Dio, che egli tanto onorò in vita, conceda anche a noi, mosso dalle di lui preci, la grazia nel presente secolo e la gloria nel futuro.

Volendo poi che il sepolcro di questo gran confessore, che illustra la Chiesa con straordinari miracoli, sia degnamente frequentato e venerato, a tutti i fedeli che confessati e comunicati il giorno della Festa del Santo visiteranno con devozione e riverenza il suo sepolcro, concediamo la remissione di un anno di penitenza, confidando per questo nella misericordia dell’Onnipotente Iddio e nell’autorità dei Beati Apostoli Pietro e Paolo. Dato a Rieti, il giorno 11 di Luglio, anno ottavo del nostro Pontificato”.

Gregorio IX fu l’ultimo, eccettuato S. Giacinto, a sopravvivere fra tutti i grandi uomini, amici di S. Domenico, che avevano contribuito al compimento dei di lui disegni. Egli morì il 21 Agosto 1241, in età di novantasette anni; trenta dei quali fu cardinale e quattordici Papa, senza che mai la maestà degli anni o lo splendore delle dignità sorpassassero in lui i meriti personali. Giureconsulto, uomo di lettere, diplomatico, a tutti questi doni di corpo e di spirito, aggiungeva un animo veramente magnanimo, dove poterono trovar posto anche S. Domenico e S. Francesco, ambedue da esso canonizzati. Forse mai più ci sarà dato di vedere intorno ad un sol uomo, quale fu S. Domenico, tanti altri uomini della tempra di un Azevedo, di un Montfort, di un Folco, di un Reginaldo, di un Giordano di Sassonia, di un S. Giacinto, di un Innocenzo III, di un Onorio III, di un Gregorio IX; né tante virtù e nazioni ed avvenimenti si vedranno concorrere ad opera si grande, in tempo cotanto limitato.

In seguito alla Bolla di canonizzazione il culto di san Domenico presto si diffuse per l’Europa, ed in moltissimi luoghi gli furono eretti altari. Bologna però si distinse sempre nel suo zelo verso il grande, concittadino donatole dalla morte. Nel 1267 si trasferì nuovamente il corpo di lui dalla tomba senza sculture in cui riposava, in una tomba più ricca e più adorna. Questa seconda traslazione fu fatta dall’Arcivescovo di Ravenna, alla presenza di molti altri Vescovi, del Capitolo generale dei Frati Predicatori, del podestà e degli anziani di Bologna. Fu aperta la cassa, e dall’alto di una tribuna innalzata fuori della chiesa di S. Nicolò, fu mostrato a tutto il Popolo il capo del Santo, fatto prima baciare al vescovi ed ai frati. Nel 1383 fu riaperta la cassa per la terza volta, e toltone il capo del Santo, fu riposto in un reliquiario di argento, affinché i fedeli potessero più facilmente venerare il prezioso deposito.

Finalmente il 16 Luglio 1473 fu rinnovato il monumento con nuovi marmi e bellissime sculture, opera di Nicolò Pisano, secondo lo stile del cinquecento, rappresentanti diversi fatti della vita di S. Domenico. Io non starò qui a descriverle; le vidi due volte, e tutte e due le volte osservandole genuflesso, sentii, fra la pace di quella tomba, che una mano divina doveva aver guidato quella dell’artista, forzando il gelido marmo ad esprimere sensibilmente l’incomparabile bontà di quel cuore di cui ricopre la polvere. Dal 1473 il glorioso sepolcro non è stato più toccato, e sono ormai trascorsi quattro secoli senza che occhio umano abbia più vedute quelle sacre ossa e neppure la cassa che le racchiude: il mondo non è stato più degno di tale spettacolo.

Domenico è stato vinto, in quanto può essere vinto chi per trecento anni è rimasto invitto sul campo di battaglia. Come gli uomini tutti e le grandi opere del medio evo, anch’egli ha dovuto soffrire l’ingratitudine di una ingannata posterità, ed aspettare tranquillamente nel suo muto e sigillato sepolcro, la giustizia di una nuova comparsa, che non è in potere degli uomini negare per sempre a coloro che li hanno serviti. Già molti fra i contemporanei del Santo hanno veduto rialzate dalla storia le loro statue. Io non credo di aver fatto altrettanto; ma il tempo impugnerà la penna dopo di me; ed io senza tema, né gelosia, lascio a lui la cura di dare l’ultima mano.

APPENDICE

L’ORDINE DI S. DOMENICO (vengono qui di seguito omesse alcune appendici riguardanti la particolare situazione in Francia ed uno studio sulle origini dell’Inquisizione superato da più recenti studi storici in favore di questa venerabile istituzione)

Idea generale dell’Ordine dei Frati Predicatori.

La Chiesa cattolica, considerata, nella sua gerarchia, in quanto governa la moltitudine dei cristiani, si chiama Chiesa insegnante: denominazione confermatagli dalla tradizione e che gli diede Gesù Cristo quando disse agli apostoli quelle celebri ed ultime parole: Andate, e ammaestrate tutte le genti, battezzandole nel Nome del Padre del Figliolo e dello Spirito Santo, ed insegnate loro ad osservare tutto ciò che io vi ho comandato.

Basta questo titolo per ricordare alla Chiesa gerarchica che il suo principale ministero è insegnare, dall’insegnamento derivando la fede, sorgente di ogni altra virtù cristiana: per cui i Sacramenti stessi sono ordinati ad illuminare l’anima nell’atto che la riscaldano. L’insegnamento cattolico però per essere al completo ha bisogno di apostoli, di pastori, di dottori.

L’apostolo porta la verità a chi non la conosce ancora: è un viaggiatore che, ad imitazione di Gesù Cristo, va per le città e per le borgate, annunciando che il regno di Dio è vicino, adattandosi nel suo linguaggio alla capacità dei popoli ai quali egli parla.

Il Pastore invece custodisce il gregge già formato: eccolo là giorno e notte a disposizione delle sue pecorelle: la sua parola è quella di un uomo totalmente sicuro della comunanza di idee tra lui e tutti gli altri fedeli, non già quella di Paolo nell’areopago, il quale invoca in suo favore le tradizioni pagane e le testimonianze dei preti profani; per lui Gesù Cristo solo è l’autore ed il consumatore della fede.

Il Dottore è l’uomo destinato all’istruzione dei sacerdoti ed alla difesa della verità per mezzo della controversia scientifica: è l’uomo di studio, che passa tutta la vita in mezzo al deposito della tradizione, contemplando dal punto di vista più elevato a cui lo spirito umano possa arrivare, il legame divino che unisce tutti i fenomeni e tutte le idee nel grande movimento dell’universo.

Questi tre modi di insegnamento, diversi nei mezzi e nel fine, sono come personificati nei tre grandi apostoli S. Pietro, S. Paolo e S. Giovanni. San Pietro, il principe degli apostoli, non è né un sapiente né uno scrittore. Semplice pescatore sulle rive di un lago guadagna la vita con le reti: Gesù Cristo lo chiama, gl’infonde, senza farne un genio, una fede sovrabbondante, e, quantunque destinato a pietra fondamentale della Chiesa, permette che rinneghi tre volte il Maestro, per insegnargli con la sua propria esperienza ad aver compassione della debolezza dei suoi fratelli: egli ha per simbolo le chiavi. San Paolo, il principe dei predicatori, apprende alla scuola dei sapienti del suo tempo la conoscenza della legge; non giunge però a conoscere Gesù Cristo mentre ancora era in vita, e lo perseguita dopo la morte, affinché iniziato per propria esperienza ai misteri dell’errore, ne conosca il lato forte e il debole, ed annunciando un giorno il Vangelo a tutte le nazioni non disperi della salute di alcuno, per quanto restio alla verità. Il suo genio è ardito come i suoi viaggi: conosce le idee dei popoli dove passa, cita agli Ateniesi i loro poeti, interpreta le loro iscrizioni sacre, si fa tutto a tutti, come dice egli medesimo: ha per simbolo la spada. San Giovanni, il principe dei dottori, comparisce con il capo appoggiato sopra il petto del maestro, al quale solleva questioni che altri non avrebbe ardito sollevare; egli è vergine, perché i sensi sono il primo impaccio al conseguimento della verità; egli è il discepolo prediletto. Libero dagli impacci del governo generale della Chiesa e dalle fatiche dei lunghi viaggi apostolici, non muore sulla croce come S. Pietro, né come S. Paolo, sotto la spada, ma nel proprio letto, in una divina vecchiezza, ridotto a non avere altro fiato che per ripetere queste parole, le prime e le ultime di ogni vero insegnamento: Figliolini miei, amatevi l’un l’altro. Il suo simbolo è l’aquila.

Nei primi tempi della Chiesa queste tre solenni funzioni dell’insegnamento apostolico, pastorale e scientifico non erano d’ordinario separate. Un sacerdote inviato dai suoi legittimi superiori in qualche regione non ancora rischiarata dalla luce del Vangelo, la percorreva prima come apostolo, si stabiliva quindi nella città principale del luogo, addivenendo ad un tempo pastore e dottore di quella cristianità da lui formata con la sua predicazione, felice se giungeva ad esserne anche il martire, per rinforzarne così le fondamenta con le ultime gocce di un sangue tutto consacrato al servizio di Dio. Così furon fondate le Chiese d’Oriente, così quelle delle Gallie.

Ma con il tempo il ministero pastorale divenne sempre più difficile: i vescovi si trovarono sovraccarichi di una moltitudine di affari, quali l’assistere ai concili generali e particolari, le relazioni con le autorità civili, gli arbitrati, la cura del dominio temporale della Chiesa; e parallela a questo immenso sviluppo di azione esteriore, progrediva a grandi passi la scienza cattolica. Non più ristretta al solo Vangelo ed alla tradizione, i suoi libri, causa le controversie, si accumulavano ogni giorno più. Quindi la necessità di conoscere ciò che avevano scritto i dottori precedenti, le decisioni dei concill, la storia delle eresie, le dottrine dei filosofi passati e presenti, le antichità cristiane e profane, in una parola tutto quel cumulo immenso di fatti e di controversie che costituiscono la scienza ecclesiastica. Anche le difficoltà dell’apostolato erano cresciute dietro i moltiplicati bisogni del ministero pastorale, che, limitato dapprima alle grandi città, doveva in seguito occuparsi ancora di tutte le chiese regolarmente costituite e sparse per le campagne. Così vasto governo assorbiva tutto le energie del vescovo, il quale, più clíe pensare a mandare operai evangelici in paesi lontani, doveva occuparsi di provvederne il proprio gregge. Per ovviare a tutte le necessità dell’insegnamento cattolico non rimaneva quindi che la divisione di tanto lavoro.

Questa però non fu cosa, che venne fuori ad un tratto, per una decisione a priori: la Chiesa non agisce mai in questo modo; in lei tutto si svolge naturalmente. I provvedimenti nascono accanto ai bisogni, con una gradazione lenta e quasi insensibile; cosa che in questo movimento generale delle cose e dei tempi, fa scomparir sempre la mano dell’uomo e comparire quella di Dio.

San Benedetto stabilì nel secolo VI la vita monastica. in Occidente. Il suo scopo non fu né l’apostolato, né la scienza divina; ma la santificazione delle anime per mezzo della preghiera, del lavoro, della solitudine. Tuttavia i Papi in diverse occasioni si servirono dei Benedettini per la propagazione del Vangelo, come S. Gregorio Magno, che inviò nell’Inghilterra il monaco Agostino per convertirla al cristianesimo e fondarvi l’arcivescovado dì Cantorbèry.

In seguito poi alle Invasioni barbariche, i monasteri rimasero il solo asilo delle lettere e delle scienze, essendo stati gli unici a salvarne gli avanzi. Ma anche questi due grandi fatti non valsero a creare l’idea di applicare gli Ordini religiosi, dietro una nuova organizzazione, all’insegnamento apostolico e scientifico: si lasciarono quali erano, salvo a servirsene per eccezione a scopo diverso dal proprio.

Al principio del secolo XIII però la Chiesa d’Occidente si vide per la prima volta minacciata da serie eresie. Non si trattava più delle eresie opposte alla fede cattolica dall’immaginazione leggera e sottile dei Greci, tutti errori speculativi, i quali non si risolvevano altro che in una specie di smarrimento o di epilessia in presenza dell’infinito. Il carattere pratico degli Occidentali si manifestò fin dai primi passi verso il male: essi andarono diritti allo scopo, attaccando la Chiesa, cioè la società religiosa. E da seicento anni in qua abbiano avuto per loro organo Valdo o Wycliff, Giovanni Huss o Lutero, non hanno cambiato affatto da una rotta così bene indovinata, e la questione del secolo XIII è ancora la nostra. Centro di tali agitazioni sociali era allora il mezzogiorno della Francia, sia che i nemici della Chiesa si fossero trovati là per caso, sia che di proposito avessero eletto quel luogo.

Occupava la cattedra di S. Pietro Innocenzo III, il quale, da pastore vigilante, aveva inviato contro gli eretici tre legati apostolici, tratti da quel famoso Ordine, dei Cistercensi, che S. Bernardo illustrava ancora dalla sua tomba. L’ambasciata o la missione, come piaccia chiamarla, era composta di bravissima gente, ma circondata da tutti gli splendori di una religione vittoriosa: non era questo il disegno della Provvidenza, che conosceva l’avvenire.

Al principio del 1205 i legati apostolici si trovavano a Montpellier stanchi e scoraggiati per i loro scarsi successi, quando venne a passare di là un vescovo spagnolo, di ritorno in patria dopo lungo viaggio. Il vescovo andò a far visita ai legati. Il discorso cadde subito sugli eretici e sulle difficoltà della missione; ed il vescovo disse allora ai legati che, ove si desiderasse riuscire, conveniva metter da parte il lusso, andare a piedi, ed unire alla predicazione l’esempio di una vita austera e povera. Per quanto inaspettato, tal consiglio penetrò diritto nel cuore dei presenti, cristiani di vera tempra. Quando un’anima è cristiana ogni parola magnanima la scuote. D’altronde era troppo manifesto che per far colpo su quelle popolazioni profondamente guaste e che mai cessavano di rinfacciare alla Chiesa i suoi onori e la sua potenza, non restava miglior mezzo di un apostolato che offrisse lo spettacolo di un’abnegazione senza misura. I legati seguirono il consiglio del vescovo spagnolo, Don Diego d’Azevedo, il quale, rimandato il suo seguito in Spagna, si unì loro, come fecero pure alcuni Abati di Citeaux, arrivati poco dopo. Percorsero allora a piedi le città e i villaggi, chiedendo l’elemosina, predicando, conversando, disputando, sostenuti nelle loro predicazioni e nelle loro sofferenze dalla sola verità, sorgente di ogni forza e di ogni consolazione.

Tuttavia i successi, sebbene maggiori che per il passato, non corrisposero al loro zelo; per cui in capo a due anni, stanchi o richiamati dai loro doveri, abbandonarono quel suolo invano bagnato da tanti sudori. Un solo uomo vi restò, nato in Spagna da illustre famiglia, condotto in Francia dal vescovo Diego di cui era l’amico, e dal quale era stato creato canonico della cattedrale di Osma: si chiamava Domenico di Gusman.

E’ degno di nota come i fondatori dei grandi Ordini religiosi, quantunque non Francesi, siano spesso capitati in Francia. San Colombano difatti, autore di una celeberrima regola monastica, passò dall’Irlanda in Francia e si stabilì a Luxeuil; San Brunone lasciò le sponde del Reno per domandare alle montagne del Delfinato un luogo solitario che dette poi il nome ai Certosini, dei quali egli fu padre. S. Norberto, un altro alemanno, ottiene del vescovo di Laon una palude, dove stabilire l’abbazia e l’ordine dei Premonstratensi. Più tardi la collina di Montmartre in alto di Parigi, vede uno stuolo di studenti spagnoli cominciarvi con un voto quella compagnia di Gesù, che di là si è diffusa per tutta la terra.

Anche Domenico fu spinto in Francia da quella stessa forza che vi trasse i suoi antecessori e successori, senza sapere neppur lui perché vi fosse venuto. Ben presto il rumor delle armi turbò le sue pacifiche predicazioni; perché, pubblicata che fu la crociata contro gli Albigesi, fu un accorrere in folla di baroni cristiani intorno alla bandiera del loro generale, Simone di Montfort. Stante il buon giudizio da formarsi intorno a questa guerra, Domenico ebbe la gloria di farne il ruolo di guerriero spirituale, al cospetto di Dio e degli uomini. Mai la religione accanto al cavaliere armato per la difesa della fede e che insieme all’unzione del cristiano porta in petto l’asprezza dell’uomo, ebbe un rappresentante più puro di Domenico. La storia contemporanea lo mostra così prossimo a questa guerra, così estraneo ai concili dei vescovi, che il lettore, prevenuto com’è da ciò che ha sentito dire, ne rimane fortemente meravigliato. Domenico non oppose mai all’eresia altre armi fuorchè la preghiera, la pazienza e l’istruzione. E la preghiera, la pazienza, l’istituzione furono le sole armi che Domenico continuò ad usare in ogni sua guerra.

Predicava e teneva conferenze senza posa; insensibile agli oltraggi di cui era fatto oggetto perfino nelle pubbliche vie, non curante della sua vita, minacciata assai spesso. Un giorno che aveva scampato il pericolo, uno degli eretici gli domandò per millanteria che cosa avrebbe mai fatto, se fosse caduto nelle loro mani: “Vi avrei pregato, rispose, di non uccidermi di un sol colpo, ma di tagliarmi pezzo a pezzo le membra e dopo avermi lasciato per qualche tempo nuotare nel mio sangue, troncarmi per ultimo il capo”.

I suoi viaggi apostolici non gli impedirono di aver cura anche di un monastero di donzelle, da lui fondato a Prouille, non lontano da Carcassona. Aveva egli notato che causa, in buona parte, della distruzione della fede cattolica in quelle regioni erano i matrimoni contratti tra eretici e giovani povere; e per non lasciare queste ultime nell’alternativa della miseria o dell’apostasia, aveva loro aperto un asilo a Prouille. Di quando in quando si portava colà a prendere qualche ora di riposo, e riguardava con amore quella casa sorta in mezzo alla guerra, come nido di colombe in luoghi dominati da formidabili aquile.

Passarono così altri sette anni della vita di Domenico, senza che il servo laborioso, nonostante tanti sudori, si stancasse. In questo frattempo qualche zelante sacerdote si era unito volontariamente a lui; ed egli vedendosi omai giunto a quello stadio della vita in cui la giovinezza è già trascorsa e sta per cominciare la rapida china verso il sepolcro, cominciò allora a pensare di proposito alla fondazione di un Ordine apostolico, che avesse per fine la difesa della Chiesa con la predicazione e con la scienza. Si racconta che la sua madre, quando ancora lo portava nel seno, sognò che avrebbe dato alla luce un cane con in bocca una fiaccola accesa; vero simbolo di un Ordine, mai da altri sorpassato in eloquenza e in dottrina.

Domenico, affermatosi in questo suo proposito nel 1217 partì a piedi per Roma, affine di comunicarlo al Sommo Pontefice: tanto il grande uomo, benché al colmo della maturità, diffidava di se, tanto riteneva necessaria la benedizione della S. Sede, per la solidità di ogni buon progetto! Occupava tuttora la cattedra di S. Pietro Innocenzo III. Questi non accolse con grande favore il pensiero dell’uomo apostolico e negò la sua approvazione; ma la notte, divina consigliera degli uomini, lo indusse a miglior partito. Mentre era immerso nel sonno, gli sembrò di vedere la chiesa di S. Giovanni in Laterano che stava per rovinare, e Domenico lì con le spalle a sorreggerne le mura cadenti. Innocenzo fece allora richiamare l’uomo di Dio, e gli ordinò di tornare in Francia dai suoi compagni, di scegliere insieme con loro la regola, che poi gli avrebbe dato ogni soddisfazione.

Fino allora, come abbiamo già detto, gli Ordini religiosi non avevano avuto per fine né l’apostolato né la scienza divina. Erano sante repubbliche, dove le anime che avevano fame e sete della giustizia, di qualunque condizione fossero, andavano a cercare nella solitudine il lavoro, la preghiera, l’obbedienza, virtù troppo pure per il mondo. Il mondo li osservava da lontano, come si fa di quei castelli che, viaggiando in pianura, si vedono sulla cima delle montagne. Molto di rado il cenobita prendeva in mano il bastone per recarsi fra gli uomini. Sant’Antonio non lasciò che una sola volta il deserto di Kolsim per difendere in Alessandria la fede cattolica. San Bernardo, regolati appena e gemendo, gli affari d’Europa, non vedeva il momento di rientrare a Clairvaux. Fu il primo Domenico, eletto da Dio a dare alla Chiesa una nuova milizia, a concepire l’idea di unire insieme la vita del chiostro e la vita del secolo, il monaco e il prete: disegno chimerico a prima vista; ma per quante virtù si richiedono dagli uomini, non bisogna mai disperare di essi. La natura umana non è come il Nilo: non si è scoperto ancora il punto più alto della sua elevazione. E S. Vincenzo de Paoli fece certo cosa più ardita di S. Domenico, quando, sotto il nome di Suore di Carità, destinò liberamente alcune giovani donzelle alla ricerca della miseria, alla cura dei malati di ogni età e di ogni sesso negli ospedali, rispondendo a chi si meravigliava che non avesse dato loro neppure il velo, queste semplici e divine parole: “Serviranno da velo le loro virtù”.

L’Ordine creato da S. Domenico non è dunque un Ordine monastico, ma un’associazione di Fratelli, i quali uniscono la forza della vita comune alla libertà dell’azione esteriore, l’apostolato alla personale santificazione. La salvezza delle anime, ecco il loro scopo principale, l’insegnamento vero, il principale mezzo! Andate e insegnate aveva detto Gesù Cristo ai suoi apostoli; andate e insegnate ripetè Domenico. Dopo un anno di noviziato tutto spirituale, otto anni continui di studi filosofici e teologici preparano i discepoli di S. Domenico a salire degnamente il pulpito nelle chiese, o la cattedra nelle università. Per quanto però la predicazione e la scienza siano le loro armi favorite, niente che possa tornare utile al prossimo è alieno dalla loro vocazione. Nell’Ordine di S. Domenico, come nella repubblica romana, la salute del prossimo è la legge suprema. Ed è appunto per questo che, salvo i tre voti di povertà, castità ed obbedienza, legami indispensabili in ogni associazione religiosa, tutte le altre regole non obbligano sotto pena di peccato, ed è sempre in facoltà del superiore poterle dispensare, affinché il giogo della vita comune non sia mai d’impedimento alla libertà del bene.

Un Superiore unico, chiamato Maestro Generale, governa tutto l’Ordine, che è diviso in Provincie. Ciascuna Provincia, composta di più conventi, ha a capo un Priore Provinciale, e ciascun convento un Priore Conventuale. Il Priore conventuale viene eletto dai membri stessi del convento, e confermato poi dal Priore Provinciale; il Priore Provinciale viene eletto dai Priori conventuali della Provincia e dai Compagni dei Priori che manda ciascun convento; spetta poi al Maestro Generale darne la conferma. Il Maestro Generale è eletto dai Priori Provinciali e da due altri deputati da ciascuna Provincia. L’elezione viene temperata così dalla necessità di aspettare la conferma, e l’autorità della gerarchia è temperata a sua volta dalla libertà del voto. Analoga conciliazione esiste pure fra il principio dell’unità, tanto necessaria al comando, è l’elemento della molteplicità, necessario anch’esso per un’altra ragione. Perché il Capitolo Generale, che si raduna ogni tre anni, fa da controllo al Maestro Generale, come il Capitolo Provinciale, che si raccoglie ogni due anni fa da controllo al Priore Provinciale. Ed il comando stesso, oltre che temperato dall’elezione e dalle assemblee, è commesso per tempo assai limitato, fatta eccezione per il Maestro Generale che una volta era a vita, e presentemente dura in ufficio sei anni.

Queste le Costituzioni che un credente del secolo XIII dava ad altri credenti; le Carte moderne comparate con quelle apparirebbero senza dubbio stranamente dispotiche! Migliaia e migliaia di uomini, disseminati per tutta la terra, hanno vissuto per più di seicento anni sotto questo regime di unione e di pace, come i più laboriosi, i più obbedienti, i più liberi degli uomini.

Restava a sapersi come questi nuovi fratelli avrebbero provveduto al loro sostentamento; ed anche qui si manifestò tutto il genio di San Domenico. Gli Ordini religiosi allora esistenti erano padroni di ricchi possedimenti, per esser liberi cosi dalle molteplici cure, che richiamano continuamente verso la terra il provvido padre di famiglia. E veramente per un Ordine monastico, non destinato affatto all’azione, è difficile trovare modo migliore di sostentamento all’infuori della proprietà. Ma Domenico creava apostoli e non contemplativi; e gli pareva sentirsi ripetere internamente quelle parole dette dal Signore quando inviava alle nazioni i suoi primi discepoli: né oro, né argento, né moneta sia nelle vostre cinture; non portate bisacce per via, né due tonache, né calzari, né bastone, perché l’operaio è degno del suo nutrimento; e quelle altre parole: Cercate prima di tutto il regno di Dio e la sua giustizia, e tutto il resto vi sarà dato per soprappiù; e queste ancora: Le volpi hanno le loro tane, gli uccelli del cielo i loro nidi; solo il Figliolo dell’Uomo non ha dove riposare il suo capo; e finalmente le parole dell’apostolo S. Paolo: Voi sapete che queste mani mi hanno bastato.

Per il cristiano, e diciamo ancora per l’uomo non accecato dall’orgoglio, il principale dovere è guadagnarsi la vita, vale a dire dare per ricevere. Chiunque riceve senza dare è fuori della legge di amore e di sacrificio, per la quale gli esseri si generano, si conservano e si perpetuano: al contrario, chi dà molto e riceve poco, come fa il soldato, rende il più bell’onore all’umanità, ravvicinandosi sempre più a Dio, il quale dà tutto e non riceve nulla. Guadagnarsi la vita e guadagnarsela giornalmente, dare in cambio del pane quotidiano la parola e l’esempio evangelico costantemente ripetuto, ecco il pensiero che seduceva Domenico, il quale in questa privazione del diritto di possedere, sia pure in comune, scopriva anche altri vantaggi. Perché quando un Ordine religioso non ha rendite fisse, non vive che in ragione di essere utile; è al soldo del popolo di Dio, il quale non paga mai volontariamente se non chi lo serve bene. Un convento perde di stima? All’istante, senza chiasso, senza rivoluzioni sarà assalito dalla morte. Domenico dunque nel primo Capitolo generale tenutosi a Bologna nel 1220 si dichiarò mendicante per se e per i suoi; ebbe fede nella virtù dei suoi successori non meno che nell’equità del popolo cristiano, e legò senza timore alle generazioni future questo perpetuo scambio di reciproco aiuto. Per ben duecentocinquanta anni da ambedue le parti si rimase fedeli, finché sulla fine del secolo XV il Papa Sisto IV permise, sia di chi si vuole la colpa, di potere acquistare e ritenere possessioni.

Domenico non era ancora tornato a Roma per portarvi le sue costituzioni affinché fossero approvate, come il Sommo Pontefice gli aveva detto, che questi, cioè Innocenzo III, ebbe occasione di scrivergli. Chiamato un segretario, gli disse: “Sedetevi, e scrivete le tali e tali cose a Fra Domenico e ai suoi compagni”. Soffermatosi un poco, soggiunse: “No, non scrivete in tal modo, ma così: A Fra Domenico ed a coloro che predicano con lui nella provincia di Tolosa”. Riflettendoci ancora sopra, disse: “Scrivete in questa maniera: Al Maestro Domenico e ai Frati Predicatori”. Fu così che lo Spirito Santo rivelò il nome da darsi al nuovo Ordine; a Roma infatti e dovunque, si principiò a chiamarlo Ordine dei Frati Predicatori.

Il 22 dicembre 1216, l’indomani della Festa dell’Apostolo S. Tommaso, l’Ordine dei Frati Predicatori poté ottenere finalmente l’approvazione da Roma, sotto il Papa Onorio III, con due bolle datate dal palazzo di S. Sabina, la più breve delle quali è di questo tenore: “Onorio, vescovo, servo dei servi di Dio, al nostro caro figlio fra Domenico, priore di S. Romano di Tolosa, e ai suoi fratelli che hanno fatto e faranno professione di vita regolare, salute ed Apostolica benedizione. Considerando che i fratelli del vostro Ordine saranno i campioni della fede e la luce del mondo, noi confermiamo il vostro Ordine con tutte le sue terre e possessioni presenti e future, e prendiamo sotto la nostra cura e sotto la nostra protezione l’Ordine stesso, con i suoi possedimenti e i suoi diritti. Data a Roma, presso S. Sabina, ai 22 dicembre, anno primo del nostro Pontificato”.

Cinque anni dopo, cioè nel 1221, il 6 del mese di Agosto, Domenico morì, lasciando il suo Ordine diviso in otto provincie, costituite da sessanta conventi. Aveva cinquantuno anni.

Così avvenne nella Chiesa cattolica la divisione dei tre grandi rami dell’insegnamento. Ai vescovi ed al clero rimase l’insegnamento pastorale con tutti gli uffici che vi sono annessi: ai religiosi fu affidato, sotto la giurisdizione dei vescovi, il ministero della predicazione e della scienza divina. Ai Frati Predicatori si unirono i Frati Minori di S. Francesco e più tardi altre congregazioni, secondo i tempi e i bisogni. La storia racconta le loro fatiche. Sorsero formidabili eresie, nuovi mondi furono scoperti; ma nelle regioni del pensiero come sui flutti del mare nessun esploratore poté andare più avanti dell’abnegazione e della scienza degli Ordini religiosi. Ogni piaga della terra, ha conservato le tracce del loro sangue, ed ogni eco il suono della loro voce. L’indiano, inseguito prima come una bestia feroce, trovò un asilo sotto il loro mantello; l’africano conserva ancora sul suo collo il segno dei loro amplessi; il giapponese, il cinese, separati dal resto della terra poi loro differenti costumi e per il loro orgoglio, più ancora che per la lontananza, si sono avvicinati ad ascoltare questi meravigliosi stranieri. Il Gange li ha visti comunicare ai paria la sapienza divina; le rovine di Babilonia hanno loro offerto una pietra per riposarsi e ripensare, mentre si asciugavano la fronte, ai giorni antichi. Quali deserti o quali foreste non li hanno conosciuti? E c’è lingua che essi non abbiano parlato? Qual piaga dell’anima o del corpo la loro mano non ha curato? E mentre essi facevano e rifacevano il giro del mondo sotto ogni tenda, i loro fratelli parlavano nei Concili e nelle pubbliche piazze d’Europa; scrivevano di Dio, avvicinando fra loro il genio dei Padri della Chiesa a quello di Aristotele e di Platone, il pennello alla penna, lo scalpello dello scultore al compasso dell’architetto, dando alla luce in ogni ramo quelle famose Summe teologiche, diverse fra loro nella materia, identiche nel pensiero, che il nostro secolo è tornato a leggere e ad amare. Da qualunque lato si guardino, gli Ordini religiosi hanno riempito della loro azione gli ultimi sei secoli della Chiesa e ne hanno salvata la sua potenza, fatta bersaglio a continui assalti, a cui i vescovi da soli non avrebbero potuto resistere.

Ma non è la storia sola a proclamare la necessità degli Ordini religiosi; basta, per convincersene, dare uno sguardo intorno a noi stessi. Quali mezzi ha la Chiesa in Francia oggi per formare i predicatori e i dottori di cui abbisogna? Per quanto raro sia il talento che un giovane prete ha ricevuto da Dio, non c’è vescovo in Francia che gli possa dare il tempo per farlo sviluppare, quel tempo necessario in ogni genere di progresso. Appena sortito dal seminario, il bisogno di provvedere al suo sostentamento costringe il giovane prete a ritirarsi in una parrocchia, dove fa quel che può, tormentato sempre dal segreto istinto della sua vera vocazione, incerto fra quello che fa e quello che vorrebbe fare, finché sopraggiunta l’età matura si rassegna alla volontà di Dio, e non pensa più che a quelle opere buone che sono in suo potere. Se al contrario si abbandona al suo slancio, per giunta non sempre sicuro, e si allontana dalla via comune, comincia per lui una carriera tutta irta di difficoltà. Il bisogno l’obbliga a mostrarsi, quando sarebbe ancora troppo presto; non ha maestri che lo formino e l’incoraggino; basta un’avversità per abbatterlo, un successo gli crea dei nemici. E’ in balìa continuamente della malinconia e della presunzione, simile a un povero fanciullo senza famiglia, il quale ora corre di bottega in bottega, ora si ferma all’angolo di una strada per ascoltare se alcuno pronunzi il suo nome.

Quanto è diversa la condizione di un giovane, il quale ha sinceramente consacrato a Dio il suo cuore e il suo talento in un Ordine religioso! Egli è povero, ma la povertà stessa lo mette al sicuro dalla miseria; la miseria è un’infelicità, la povertà una benedizione. Egli sottomette il corpo a dura disciplina, ma tutto con vantaggio immenso della libertà dello spirito. Egli ha dei maestri che lo hanno preceduto nella carriera senza esser suoi rivali, egli si manifesterà a tempo, quando il suo pensiero, senza aver perduto ancora lo slancio della giovinezza, pure è più maturo. Nelle contrarietà avrà chi lo consoli; nei trionfi chi ne attutisca l’orgoglio; la sua vita scorrerà come un fiume tranquillo fra le sue sponde e che punto s’inquieta del suo corso. Quante volte nei duri anni che ormai sono trascorsi noi abbiamo abitato con il desiderio quei tranquilli recinti che hanno calmate tante passioni e protette tante vite! L’età delle tempeste è per noi ormai passata; dunque è più per gli altri che per noi stessi, che vogliamo preparare un asilo. La nostra esistenza è ormai definita; abbiamo pressoché raggiunta la riva; coloro, che noi lasciamo in alto mare in balia dei venti, essi comprenderanno i nostri voti, e forse vi aderiranno.

Che se ci venisse domandato perché noi abbiamo data la preferenza all’Ordine dei Frati Predicatori, risponderemmo esserci sembrato il più confacente alla nostra natura, al nostro spirito, al nostro fine: alla nostra natura, per il suo governo; al nostro spirito, per la sua dottrina; al nostro fine, per i suoi mezzi d’azione, che sono principalmente la predicazione e la scienza divina. Del resto non intendiamo con questa scelta fare alcun rimprovero a qualsiasi altro Ordine; abbiamo di tutti somma stima, e ricordiamo quella lettera scritta da Clemente IV ad un cavaliere che l’aveva consultato per sapere se sarebbe, stato meglio che vestisse l’abito dei Frati Predicatori o quello dei Frati Minori:

Clemente, vescovo, servo dei servi di Dio, al nostro caro figlio e cavaliere, salute ed apostolica benedizione. Il consiglio che richiedete da noi, potevate ugualmente richiederlo a voi stesso. Perché se il Signore vi ha ispirato di lasciare il mondo per abbracciare vita migliore, non vorremmo noi, né potremmo mettere ostacolo alcuno allo spirito di Dio, considerando ancora che voi avete un figlio già grande, il quale, come crediamo, potrà benissimo pensare alla vostra famiglia. Che se, perseverando sempre in questa vostra risoluzione, volete sapere quale dei due Ordini, o dei Frati Predicatori, o dei Frati Minori voi dobbiate abbracciare, lasciamo la scelta alla vostra Coscienza. Da voi stesso potrete conoscere le regole dei due Ordini, non in tutto eguali, e che scambievolmente in diversi punti si sorpassano. Di fatti, in uno dei detti Ordini, il letto è più duro, la nudità più incomoda, e, secondo pensano alcuni, la povertà più rigorosa; nell’altro il nutrimento è più frugale, i digiuni più lunghi, e come molti credono, la disciplina più santa. Noi non abbiamo dunque preferenza né per l’uno né per l’altro, persuasi come siamo che ambedue, stabiliti sopra una stretta povertà, tendano al medesimo fine, che è la salute delle anime. Quindi sia che entriate nell’uno o nell’altro, sempre vi incamminerete per quella via stretta e valicherete la piccola porta che introduce nella terra delle dolcezze e dello spazio. Ponderate dunque attentamente, esaminate con cura quale convenga meglio al vostro spirito, e dove crederete di profittare di più, in quello entrate, e rimanetevi costante, senza ritrarre il vostro amore dall’altro. Perché il Frate Predicatore che non amasse i Minori sarebbe esecrabile, ed il Frate Minore, che odiasse o disprezzasse l’Ordine dei Predicatori sarebbe parimenti esecrabile e degno di condanna. Data in Perugia, i giorno 13 Aprile, l’anno secondo del nostro Pontificato”.

Questi sentimenti del Papa Clemente IV sono anche i nostri. Noi abbiamo scelto l’Ordine che maggiormente si confà al nostro spirito e nel quale speriamo fare maggior bene, senza menomare ad alcun altro Ordine l’amore e il rispetto che a tutti è dovuto.

San Domenico e S. Ignazio applicando i loro istituti alla propagazione del Vangelo per mezzo dell’insegnamento, hanno esaurite tutte le combinazioni fondamentali di questa trasformazione. Si potrà cambiare l’abito e il nome, non già la reale natura di queste famose società. Se la storia dei Frati Predicatori va soggetta ad obiezioni nello spirito dei nostri contemporanei, avviene lo stesso anche della storia della Chiesa. Basta avere attraversate due epoche per divenire bersaglio a tal sorta di attacchi; poiché ciò che non dura domanderà sempre conto a ciò che dura di una infinità di cose, per le quali la miglior risposta sarà continuare ad esistere. Non si continua infatti ad esistere, se non a condizione di tacite modificazioni, che lasciano il passato nel passato, e si protendono verso l’avvenire in virtù della loro armonia con il presente. Succede della Chiesa e degli Ordini religiosi come di ogni corpo vivente, che conserva una immutabile identità, nonostante sia soggetto, per il progresso stesso della vita, ad un moto che incessantemente lo rinnovella. La Chiesa di oggi è identica nella sua gerarchia, nei suoi domini, nel suo culto, nella sua morale alla Chiesa del medio evo; eppure quanti cambiamenti! Lo stesso dicasi degli Ordini religiosi, e, nel nostro caso, dell’Ordine dei Frati Predicatori: rinfacciare a chiunque si sia il passato è rinfacciare all’uomo la culla, la vita alla vita.

IV Azione dei Frati Predicatori come Dottori Tommaso d’Aquino

All’estremità occidentale di Bologna, da quella parte dove finiscono gli ultimi pendii degli Appennini, in una piazza solitaria il viaggiatore trova una chiesa. Io vi entrai come chi ansiosamente vada in cerca di qualche cosa; ed accostumato alle tombe gigantesche dell’arte moderna, rimasi commosso alla vista del dolce monumento che mi apparve innanzi. Là, sotto puro alabastro, riposa il corpo di S. Domenico, presso quella famosa università di Bologna, che non aveva uguale nell’università di Parigi, ambedue grandemente amate dal Santo, ambedue scelte dal medesimo per essere il principale centro dei suoi frati. L’università di Parigi gli diede, riconoscente, una parte del convento di S. Giacomo, Bologna 1a tomba. Fu conveniente infatti che una dotta città fosse l’ultima e suprema dimora sulla terra dell’uomo meraviglioso che aveva saputo riunire insieme in uno stesso pensiero l’apostolato e la scienza divina, confidando ad un solo Ordine tale duplice missione. I fatti giustificarono l’arditezza dell’impresa e provarono, senza dubbio, che non poteva essere stata ispirata altro che da Dio. Abbiamo visto con quanta fedeltà i Frati Predicatori realizzassero nell’apostolato le speranze del loro santo Patriarca: resta a vedere il loro successo in fatto di scienza, il quale fu ancor più meraviglioso. Perché l’abnegazione di se basta a formare un missionario; ma la scienza, oltre l’abnegazione, esige l’intelligenza, sempre rara in ogni tempo.

La scienza è la conoscenza delle relazioni che costituiscono e collegano tutti gli esseri, da Dio fino all’atomo, dall’infinitamente piccolo all’infinitamente grande Ogni grado di questa vasta scala serve a chiarificare quello che precede e quello che segue, perché ogni relazione che si scopre, in qualunque modo si scopra, o dall’alto in basso, o dal basso in alto, è sempre una rivelazione dell’essere. In altre parole, l’effetto indica la causa, perché ne è l’immagine; la causa spiega l’effetto, perché ne è il principio; quantunque questa reciprocità non sia uguale, perché la luce vera scende sempre dall’alto. Il basso non può darne che un semplice riflesso.

Ora, dice S. Paolo, noi vediamo per riflesso ed in enigma; un giorno noi vedremo faccia a faccia. La scienza dunque nel presente stato è necessariamente imperfetta, non potendo noi riuscire a vedere faccia a faccia né il punto di partenza, né quello di arrivo, che è Dio. Ma per velato che egli sia, possiamo però fin da quaggiù conoscerlo per altre vie che non siano il riflesso delle cose create. Prima di mostrarsi, Dio si è affermato; prima di comparire, ha rivelato il suo nome. L’accettazione volontaria di questa parola divina è ciò che si chiama fede. La fede fa il cristiano; e quando il cristiano è in possesso di questo nuovo mezzo di conoscenza, di questa visuale elevata, può egli ridiscendere fino all’estremità dell’universo, scoprire per mezzo delle relazioni che costituiscono l’essenza divina, quelle che costituiscono l’uomo e la natura, e riscontrare poi, con movimento opposto, le leggi dell’essere infinito con le leggi degli esseri finiti.

Questo raffronto dei due mondi, l’illustrazione del secondo, che è effetto, per opera del primo, che ne è causa, la controprova del primo, che è causa, per mezzo del secondo, che ne è effetto, questo flusso e riflusso di luce, questa marea che va dall’oceano alla riva per ritornare dalla riva all’oceano, la fede nella scienza e la scienza nella fede è ciò appunto che fa del cristiano un teologo. Ed è questa la ragione per cui il dottore cattolico è un essere quasi impossibile, dovendo egli conoscere da un lato tutto il deposito della fede, la Scrittura, la tradizione scritta e non scritta, i concili, gli atti dei Pontefici; e dall’altro lato ciò che S. Paolo chiama gli elementi del mondo, vale a dire tutto e tutti.

Si apra il primo Padre della Chiesa che capita per mano, la preparazione Evangelica di S. Eusebio, la spiegazione dell’opera dei sei giorni di S. Basilio, gli Stromata di Clemente Alessandrino, la Città di Dio di S. Agostino, subito apparirà come tutti passano continuamente dal cielo alla terra, dalle scoperte della natura alla rivelazione, mettendo sempre innanzi e congiungendo Dio con l’universo, per giungere alla conoscenza dell’uno e dell’altro. Ciò nondimeno nessuno dei Padri giunse ad ultimare l’edificio della cristiana teologia, ed i loro scritti dispersi qua e là, non rappresentavano dopo dodici secoli di lavoro, che parti, per quanto sublimi, di un tempio non ancora edificato, aspettanti, con la pazienza dell’immortalità, la mano dell’architetto. L’architetto doveva sorgere dalle ceneri di S. Domenico; e l’uomo eletto dalla Provvidenza a quest’opera incomparabile nacque, ciò che nessuno avrebbe mai pensato, illustre signore.

Nell’anno 1245 viveva in Colonia un licenziato domenicano, dotato d’ingegno così straordinario che i contemporanei lo chiamarono per antonomasia il Grande. Sebbene versato in modo speciale nelle matematiche, nella fisica e nella medicina, insegnava allora la teologia; ed elevato in seguito alle più alte dignità, rinunciò a tutte per ritornare alla scuola, dalla quale si ritirò al fine in modo singolare. Un giorno, mentre teneva pubblica lezione, ad un tratto si fermò, come chi abbia perduto il filo del ragionamento; e dopo breve silenzio, che meravigliò e turbò tutti, così riprese:

Da giovane tanta era per me la difficoltà di apprendere, che disperava ormai di imparare alcunché; onde, per risparmiarmi la vergogna di trovarmi continuamente a confronto con altri di me più istruiti, risolsi di lasciare l’Ordine di S. Domenico. Mentre giorno e notte stavo rimescolando con me stesso tale divisamento, mi parve di vedere in sogno la Madre di Dio, e mi parve ancora che mi interrogasse in quale scienza avessi voluto divenire capace, nella teologia o nelle scienze naturali; e che io rispondessi: nelle scienze naturali. Ed Ella allora: Tu sarai, come desideri, il più grande dei filosofi; ma perché non hai preferito la scienza del mio Figlio, verrà un giorno in cui, perdendo anche la scienza della natura, ritornerai quale sei oggi. Miei figlioli, il giorno preannunciatomi è giunto. D’ora innanzi non vi insegnerò più; confesso però ancora un’ultima volta dinanzi a tutti voi di credere tutti gli articoli del Simbolo, e supplico che, giunta l’ora, mi siano amministrati i Santi Sacramenti della Chiesa. Se mai avessi detto alcuna cosa contraria alla fede, la ritratto, e sottopongo ogni mia dottrina alla mia santa Madre, la Chiesa romana”.

Ciò detto, scese di cattedra; i discepoli lo abbracciarono, e piangenti lo accompagnarono fino al convento, dove visse ancora per tre anni nella più grande semplicità, egli che era stato chiamato il miracolo della natura, lo stupore del suo secolo, e che la posterità conosce sotto il nome di Alberto Magno.

Non fu però Alberto Magno il prescelto ad innalzare l’edificio della cristiana teologia: egli preferì la scienza della natura alla scienza del Figliolo di Dio.

Verso la fine del 1244 o al principio del 1245, Giovanni Teutonico, quarto Maestro Generale dell’Ordine dei Frati Predicatori, giunse a Colonia accompagnato da un giovanetto napoletano che consegnò a Fra Alberto in qualità di discepolo. L’Europa era in quei tempi un paese di libertà; ciascuno andava ad istruirsi dove più gli piaceva, e le nazioni tutte si davano la mano nelle università. Il giovane portato da Giovanni Teutonico alla scuola di Alberto Magno, era in linea paterna, pronipote dell’imperatore Federico I, cugino dell’imperatore Arrigo VI, biscugino dell’imperatore Federico II allora regnante; in linea materna poi discendeva da quei principi di Normandia, che, cacciati gli Arabi ed i Greci dall’Italia, erano rimasti padroni del regno delle due Sicilie. Aveva soli diciassette anni. Si raccontava di lui che i parenti, per distoglierlo dalla sua vocazione, l’avevano preso e chiuso in un castello, senza però riuscire nell’intento; che introdottasi nella sua prigione una femmina, l’aveva cacciata, armato di un tizzone ardente; che due sue sorelle messesi attorno a lui a bella posta per distoglierlo dal suo proposito, erano invece attratte da lui medesimo alla vita religiosa; che Il Papa Innocenzo IV, supplicato di rompere i vincoli che legavano il giovane all’Ordine di S. Domenico, gli aveva offerto, dopo averlo ascoltato con ammirazione, l’abbazia di Montecassino. Prevenuto da tale fama, il giovane conte di Aquino, ora Fra Tommaso, fu subito tenuto d’occhio dai compagni, i quali però nulla vi riscontrarono che corrispondesse alla loro aspettativa: un sempliciotto dallo sguardo insignificante, che non parlava quasi mai, e nulla più. Si finì anzi per credere che di nobile non ci fossero che i natali, tanto che i compagni giunsero a chiamarlo per scherzo, il bue muto delle due Sicilie.

Il suo maestro Fra Alberto, non sapendo lui stesso che pensarne, colse l’occasione di una grande adunanza per interrogarlo sopra una serie di questioni spinosissime; il discepolo vi rispose con tanta saggezza, che Alberto fu come invaso da quella gioia rara e divina che provano i veri grandi uomini nel riscontrare un altro uomo che dovrà eguagliarli ed anche sorpassarli; e rivolto a tutta la scolaresca, disse commosso: “ Noi chiamiamo fra Tommaso il bue muto; ma un giorno i muggiti della sua dottrina si ripercuoteranno nel mondo intero”. La profezia non tardò ad avverarsi. Tommaso d’Aquino divenne in brevissimo tempo il dottore più celebre della Chiesa cattolica; ed i suoi natali, per quanto regali, rimasero eclissati dalla magnificenza della sua gloria personale.

A quarantun’anno, e non glie ne restavano che altri nove di vita, S. Tommaso ideò il monumento, per il quale, senza che lo sapesse, era stato destinato. Si propose cioè di riunire in un sol corpo i materiali sparsi della teologia; e ciò che poteva sembrare una semplice compilazione, riuscì invece sotto le sue mani un capolavoro, di cui tutti ne parlano, anche quelli che non l’hanno mai letta, come il mondo intero parla delle piramidi d’Egitto, che quasi nessuno ha vedute. Questa popolarità che la può sopra l’ignoranza stessa, è il più alto grado di gloria quaggiù a Dio solo è dato elevarsi ancora al di sopra, perché egli solo è alla portata di tutti che lo adorano.

La teologia, come abbiamo già detto, è la scienza delle affermazioni divine. Quando l’uomo accetta semplicemente queste affermazioni è allo stato di pura fede; quando invece stabilisce le relazioni di queste affermazioni fra loro e con tutti i fatti interni ed esterni dell’universo, la sua fede passa allo stato teologico o scientifico. In conseguenza la teologia risulta da un assieme di umano e di divino; e se è vero che serve a rischiarare la fede, non è meno vero che espone spesso a gravi pericoli. Perché per poco che un uomo si permetta d’indagare l’ordine delle cose visibili, giunge ben presto al limite estremo della certezza che può aversi in tale ordine; e qualora si spinga più oltre, lo spirito da quelle regioni male esplorate non riporta che opinioni, capaci talvolta di alterare la purezza e la solidità della fede. Una delle prime doti del dottore cattolico dunque è lo spirito di discernimento nell’uso dell’elemento umano; e S. Tommaso possedette questo spirito al più alto grado.

La scienza del suo tempo, era tutta compendiata negli scritti di Aristotele: logica, metafisica, morale, politica, fisica, storia naturale. Aristotele insegnava tutto, e si riteneva da tutti che sulle cose della natura avesse detto l’ultima parola. Eppure sarebbe bastata una semplice scorsa su qualcuna delle sue opere per persuadersi quanto poco un tal filosofo avesse di genio cristiano; lo studio assiduo difatti che di lui si faceva, aveva già apportati i suoi funesti effetti. Era cosa la più ordinaria, per esempio, sentire difendere anche dai maestri che una proposizione può esser vera secondo il Vangelo e falsa secondo la filosofia: e Stefano II, vescovo di Parigi, fu costretto a condannare nel 1277 duecento ventidue proposizioni, fondate, nei loro errori, sui libri di Aristotile. Questi gli elementi scientifici di cui disponeva anche S. Tommaso. Conveniva inoltre creare una psicologia, un’antologia, una morale ed una politica degna di armonizzare con i dogmi della fede. San Tommaso vi riuscì. Lasciando da parte le chi. mere e le aberrazioni dello Stagirita, raccolse dal suoi scritti ciò che poté spigolare di vero, e trasformando e nobilitando questo materiale, senza abbattere né adorare l’idolo del suo secolo, compilò una filosofia,.che aveva ancora nelle vene alcunché del sangue di Aristotile, ma purificato dal suo e da quello se’ suoi predecessori nell’insegnamento cattolico.

Allo spirito di discernimento nell’impiego dell’elemento umano o finito, S. Tommaso accoppiò il gusto e quasi la penetrazione dell’elemento divino. Egli considerò i misteri di Dio con quello sguardo intuitivo simboleggiato dall’aquila di S. Giovanni, sguardo difficile a definirsi, ma che si comprende molto bene quando, dopo aver meditato da sè sopra una verità del cristianesimo, se ne domanda spiegazione ad un altro che sia penetrato più addentro in tali abissi, o abbia percepito meglio il suono dell’infinito. Avviene d’un grande teologo come d’un grande artista, l’uno e l’altro vedono ciò che l’occhio volgare non vede; sentono ciò che l’orecchio della moltitudine neppure sospetta; e quando con i deboli mezzi di cui l’uomo dispone riescono a riprodurre negli altri un riflesso o un’eco di ciò che hanno visto o sentito, il pastore stesso si sveglia e crede di essere un genio. Questa potenza di intuire nell’infinito meraviglierà coloro che tengono il mistero in conto di un’affermazione qualsiasi, di cui anche i termini siano affatto sconosciuti. Ma coloro i quali sanno che l’incomprensibile non è altro che una luce senza limiti, la quale farà sì che anche quando vedremo Iddio faccia a faccia, pure non arriveremo a comprenderlo, costoro si persuaderanno facilmente che più l’orizzonte è vasto, più la vivacità dello sguardo trova dove spaziare. E la teologia ha proprio questo vantaggio: le affermazioni divine che le aprono l’infinito da un lato all’altro, sono ad un tempo per lei una bussola ed un mare. La parola di Dio traccia nell’infinito alcune linee che determinano il pensiero senza restringerlo, e che, pur trasportandolo con loro, rifuggono di stargli dinanzi,

L’uomo che è trattenuto dai lacci e dalle tenebre del finito non potrà avere mai neppure l’idea della felicità del teologo, che nuota nello spazio illimitato che nuota nello spazio illimitato del vero, e trova nella causa stessa che lo rattiene l’estensione che lo rapisce. Questa unione di una sicurezza la più grande unita al volo il più ardito cagiona nell’anima un contento ineffabile, che fa disprezzare, una volta gustato, ogni altra cosa. Ora niente altro fa provare e gustare un tal contento, più della lettura di S. Tommaso. Dopo studiata una questione negli scritti dei grandi uomini, se si passa poi a questo sommo, provasi un senso come se si fossero trasvolati ad un tratto più mondi e come se il pensiero non pesasse più.

Converrebbe ancora parlare della forza di collega, mento con cui S. Tommaso congiunge l’elemento naturale coll’elemento divino, subordinando sempre il primo al secondo. Converrebbe esporre quell’unità, mirabile, che in un’opera poderosissima raccoglie, senza mai smentirsi, a diritta e a manca tutte le acque del cielo e della terra, e le spinge innanzi con quello stesso movimento che hanno dalla loro sorgente, accresciuto sì, ma non alterato. Converrebbe infine dare un’idea del suo stile che fa penetrare fino ai più profondi abissi della verità, come si v4-, dono i pesci in profondi ma limpidi laghi, come si vedono le stelle attraverso un aere puro; stile così calmo che traspare, in cui l’immaginazione non è più forte della passione, e che nondimeno rapisce l’intelligenza. Ma il tempo stringe; S. Tommaso d’altronde non ha più bisogno di lodi. I Sommi Pontefici, i Concili, gli Ordini religiosi, le università, mille scrittori lo hanno elevato a tale altezza, che la nostra lode non potrebbe raggiungerlo. Quando gli ambasciatori del regno di Napoli si presentarono a Giovanni XXII per supplicare il Pontefice di canonizzarlo, il papa in pieno concistoro disse loro: “Ha più illustrato la Chiesa S. Tommaso che tutti gli altri dottori presi insieme; e fa più profitto studiare Per un anno i suoi libri, che per tutta la vita i libri degli altri”. Ed avendo opposto qualcheduno durante il processo di canonizzazione, che Tommaso non aveva operato miracoli, il Sommo Pontefice rispose: “Tanti sono i miracoli, quanti sono gli articoli che ha scritto”. Nel Concilio di Trento sulla medesima tavola posta in mezzo alla sala dove convenivano i Padri furono posto i libri delle S. Scritture, i decreti dei Pontefici, e la Somma di S. Tommaso. Dopo tutto questo, Dio solo potrà onorare ancora di più questo grande uomo nel concilio eterno dei Santi.

San Tommaso morì nel convento dei Cistercensi di Fossanova, quasi a metà di strada fra Napoli e Roma, fra la sua patria naturale e quella spirituale, non lontano dal castello di Roccasecca, dove pare che sia nato, e vicino a Montecassino, dove aveva passato parte della sua infanzia. Lo sorprese la morte mentre, ossequente agli ordini del Papa Gregorio X, era in viaggio, per recarsi al secondo concilio generale di Lione, In cui doveva trattarsi della riunione della Chiesa greca con la latina. I religiosi, raccolti intorno al suo letto,, lo pregarono di fare loro una breve esposizione della Cantica, l’idillio dell’amore divino, e fu quella l’ultima lezione. Di ricambio egli chiese al religiosi di esser posto sopra la cenere, per ricevere il santo viatico; e quando vide l’ostia fra le ffiani del sacerdote, disse piangendo: “ Io credo fermamente che Gesù Cristo, vero Dio e vero uomo, figlio unico dell’eterno Padre e d’una madre Vergine, è realmente in questo augusto Sacramento. lo ti ricevo, o prezzo della mia redenzione; io ti ricevo, viatico del pellegrinaggio dell’anima mia; per te ho studiato, vegliato, lavorato, predicato, insegnato. Niente credo di aver detto mai contro di te, ma se anche senza saperlo avessi detto qualche cosa contro, io mi ritratto; sottometto tutto al giudizio della santa romana Chiesa, nell’obbedienza della quale lo me ne parto da questa vita ”. S. Tommaso d’Aquino, in età di cin. quantun’anno, il giorno 7 Marzo 1274, alcuno ore dopo la mezzanotte, verso lo spuntare dell’aurora.

L’Ordine che fin dal suo nascere aveva dato così illustre luminare alla Chiesa, non cessò di coltivare sempre sapienti scrittori di merito. Enumerarli qui sarebbe fastidioso; se ne contano da quattro a cinquemila. Basterà ricordare che avanti ancora che passasse un secolo dalla morte di San Domenico, il suo istituto fu onorato dai contemporanei dello specialissimo titolo di Ordine della Verità. I due grandi pensieri che avevano presieduto alla sua fondazione, apparvero così realizzati in tutta la loro estensione. Intere generazioni di apostoli e di sapienti, sorti da uno stesso germe, hanno portata la verità anche in mondi sconosciuti da S. Domenico; e dopo seicento anni finiti, i loro rampolli rifioriscono ancora da Manila a Roma, da Pietroburgo a Lima. Quando il giovane Gusmano in compagnia del vescovo Don Diego valicava a piedi i Pirenei, niente esisteva di tutto questo, né era previsto, né si sarebbe creduto possibile: ma il pensiero che scopre un bisogno, la virtù che vi si consacra, il bisogno che viene in aiuto al pensiero ed alla virtù, queste tre cose possono tutto. Felice il secolo in cui esse vengono ad incontrarsi! DOCUMENTI PRIMITIVI

riguardanti la Vita di S. Domenico.

Primi tempi dell’Ordine dei Frati Predicatori. Opera del Beato Giordano di Sassonia, secondo Generale dell’Ordine.

E’ questa la prima fra le “leggende” di S. Domenico; e fu scritta avanti la translazione e canonizzazione del Santo, come chiaramente risulta dal silenzio dell’autore sopra ambedue questi fatti. Perciò è anteriore all’anno 1233. Il Padre Giacomo Echard, domenicano, ne pubblicò il testo con note, nell’opera intitolata: Scrittori dell’Ordine dei Frati Predicatori, Parigi 1719; fu ripubblicata nel 1733 dai Bollandisti negli Atti dei Santi, primo volume del mese di Agosto.

II Lettera Enciclica ai Frati sulla translazione del Beato Domenico, scritta dal Beato Giordano di Sassonia.

Di questa lettera si ignora la data precisa, ma certamente fu scritta fra la translazione e la canonizzazione di S. Domenico, cioè, fra il 24 maggio 1233 e il 3 luglio del 1234; ed è il compimento della precedente leggenda. Fu pubblicata dai Bollandisti nel Commentario preliminare agli atti di S. Domenico.

II Atti di Bologna.

Questi atti contengono le testimonianze di nove discepoli di S. Domenico sulle virtù ed i miracoli del Santo Patriarca. La loro data è dal 6 al 30 agosto 1233, nel qual, tempo fu fatta l’inchiesta. Furono pubblicati da Giacomo Echard nell’opera sopra citata; dai Bollandisti negli Atti dei Santi, e dal domenicano Mamachi nell’Appendice al primo volume degli Annali dell’Ordine dei Frati Predicatori, stampato nel 1756.

IV Atti di Tolosa.

Questi atti, di cui s’ignora la data precisa, ma che sono necessariamente anteriori alla canonizzazione di S. Domenico, racchiudono le testimonianze di 26 persone, ecclesiastiche e laiche, sulle virtù ed i miracoli del Santo durane i dodici anni del suo apostolato nella Linguadoca. Sono stati pubblicati uniti a quei di Bologna nelle tre opere suddette.

. Vita del Beato Domenico, primo fondatore dell’Ordine dei Frati Predicatori, scritta da Costantino Medici, vescovo d’Orvieto, del medesimo Ordine.

Questa seconda “leggenda”, che fu pubblicata fra il 1242 ed il 1247, serve di compimento a quella del B. Giordano di Sassonia. Essa infatti contiene nuove particolarità; ma è molto inferiore alla prima per lo stile, e meno importante. Fu pubblicata da Giacomo Echard.

  1. Vita del Beato Domenico, composta dal Beato Umberto, quinto Maestro Generale dell’Ordine dei Frati Predicatori.

Fu pubblicata prima della sua elevazione al Generalato, avvenuta nel 1254, e fu chiamata la terza “leggenda”. Molto più completa delle altre due, superiore assai sia per l’ordine che per lo stile a quella di Costantino Medici. I contemporanei di S. Domenico cominciavano ad invecchiare e a diminuire; in questa vita si sente che il Beato ha voluto raccogliere quanto aveva da loro saputo, affinché nessuna di tali memorie andasse perduta. Il suo lavoro è stato pubblicato dal Mamachi

VII. Cronaca dell’Ordine dei Frati Predicatori del B. Umberto.

Questa cronaca breve, ma molto notevole per la distribuzione dei fatti, va dal 1202 al 1254. Può vedersi nel Mamachi.

VIII. Vita di S. Domenico di Bartolomeo di Trento, dell’Ordine dei Frati Predicatori.

E’ una relazione brevissima, la cui data può stabilirsi fra il 1234 e il 1251; ma non fu annoverata fra le tre grandi “leggende” scritte fra il 1233 e il 1254. I Bollandisti l’hanno pubblicata nel primo tomo d’agosto della loro collezione.

  1. Vite dei Frati dell’ Ordine dei Predicatori di Gerardo di Frachet, dello stesso Ordine.

A questa opera fu dato mano per ordine del Capitolo generale riunito a Parigi nel 1256, coll’intendimento di salvare dall’oblio buon numero di fatti eroici che avevano illustrato i primi tempi dell’Ordine, e che erano tuttavia nella memoria dei vecchi. Il Beato Umberto, allora Generale, incaricò di questo lavoro Fra Gerardo di Frachet, francese di nascita, e celebre predicatore. Egli corrispose ai voti del suo Ordine con un’opera di squisita semplicità, sulla quale non potresti porre mano senza guastarla. La intitolò: Vite dei Frati, e la divise in quattro parti, la seconda delle quali si riferisce a S. Domenico, ma non contiene che alcuni fatti, sfuggiti alle leggendo anteriori. L’opera intera è stata stampata a Donai nel 1619.

  1. Relazione di Suor Cecilia.

Suor Cecilia della famiglia Cesarini, fu una delle religiose che S. Domenico trasferì dal monastero di Santa Maria in Trastevere a quello di S. Sisto. Ella aveva allora 17 anni. Di 22 anni fu mandata priora nel monastero di Sant’Agnese di Bologna, dove visse fino al 1290 in concetto di santità. Fra le religiose dello stesso monastero di Sant’Agnese ve n’era una chiamata Suor Angelica, a cui Suor Cecilia confidò particolarmente tutto ciò che ella aveva veduto di S. Domenico, nel tempo che il Santo dimorò a S. Sisto e a Santa Sabina. Suor Angelica ne scrisse la relazione sotto gli occhi stessi di Suor Cecilia; relazione ammirabile per la semplicità della narrazione, e che meglio d’ogni altra storia ci introduce nella vita intima del Santo. Questa relazione finisce così: “Quanto è stato qui riferito intorno al Beato Domenico, lo ha raccontato Suor Cecilia la quale afferma che tutto è così vero, che ella è pronta, ove fosse necessario, a confermarlo con giuramento. Ma questa precauzione è inutile; tanta è la santità e la devozione di questa religiosa, che non si dura fatica a credere ai suoi detti. Onde Suor Angelica, del monastero di Sant’Agnese, ha scritto ciò che da Cecilia ha sentito dire sul nostro Beato Padre Domenico, a gloria del nostro Signor Gesù Cristo, ed a consolazione dei Frati. Voi che leggete, perdonate allo stile, poiché essa non sa di grammatica”. Questa relazione e le leggende del Beato Giordano di Sassonia, di Costantino Medici, e del Beato Umberto, sono i quattro principali e primitivi documenti intorno alla vita di S. Domenico. La sua data è da fissarsi al tempo in cui Suor Angelica viveva in Bologna, nel monastero di Sant’Agnese, cioè verso il 1240; ma non fu conosciuta che più tardi, cioè negli ultimi 30 anni del secolo tredicesimo. Il Mamachi ne, ha pubblicato il testo.

  1. Cronaca Vaticana.

Questa cronaca è anonima, e dal tempo di S. Domenico va fino al 1263. Si trova anche questa nel Mamachi.

XII. Dei sette doni dello Spirito Santo, di Stefano di Borbone, dell’Ordine dei Frati Predicatori.

Stefano di Borbone entrò nell’Ordine nel 1219, e morì nel 1261. Il suo libro dei Sette doni dello Spirito Santo contiene molte cose relative alla vita di S. Domenico, raccolte dalle leggende che correvano in quel tempo.

XIII. Il bene universale delle Api di Tomaso da Catimprè, dell’Ordine dei Frati Predicatori.

Questo libro pubblicato verso l’anno 1261, tratta in vari luoghi di S. Domenico e del suo Ordine.

XIV. Specchio istorico di Vincenzo Beauvais, dell’Ordine dei Frati Predicatori.

Molti capitoli di questa opera sono consacrati a S. Domenico, e fu scritta quasi contemporaneamente alla precedente.

  1. Vita del Beato Domenico di Rodrigo di Cerrat, dell’Ordine dei Frati Predicatori.

Rodrigo di Cerrat, nato in Spagna nella valle di Cerrat, presso Palenza, fiorì negli ultimi trent’anni del tredicesimo secolo. La sua leggenda è una imperfetta compilazione tratta dalle precedenti. Non se ne sa la data precisa, ma certamente è posteriore all’anno 1265, perché vi si parla del convento fatto edificare da Alfonso il Savio a Calaruega nella casa ove nacque S. Domenico. Si trova anche questa nel Mamachi.

XVI. Vita di S. Domenico di Teodoro d’Apolda, dell’Ordine dei Frati Predicatori.

Il tredicesimo secolo era prossimo a finire. Munione di Zamora, settimo Generale dell’Ordine dei Frati Predicatori, stimò opportuno riunire come in un grande quadro tutto ciò che precedentemente era stato scritto sulla vita di S. Domenico, e di inserirvi anche quei minimi frammenti sfuggiti alle pie cure degli agiografi. Ne diede l’incarico a Teodoro d’Apolda, Domenicano tedesco, della borgata d’Apolda, tra Iena e Weimar. Questi, conforme agli ordini del suo Generale, pubblicò verso il 1288 una nuova vita di S. Domenico, molto più ampia di tutte le altre, nella compilazione della quale fu adoperata per la prima volta la relazione di Suor Cecilia, rimasta fino allora nell’ombra del monastero di Sant’Agnese a Bologna. Questa Vita è fatta con amore, ma con poco ordine, ed in uno stile che troppo si allontana dalla semplicità dei primi storici, quantunque non manchi di forza, né di unzione. Teodoro d’Apolda chiude, la serie degli scrittori che avevano comunicato con lo stesso S Domenico, e con i discepoli che gli sopravvissero. Tutto ciò che si poteva sapere intorno all’eroe, egli lo seppe; raggranellò anche gli ultimi avanzi della messe; e malgrado il volger dei tempi, malgrado l’enorme differenza che corre fra il suo stile e quello del B. Giordano di Sassonia, trovasi nel suo libro il carattere di S. Domenico senz’alcuna alterazione. Siamo debitori ai Bollandisti della pubblicazione di questa lunga, ed ultima “leggenda”.

XVII. Cronaca dell’Ordine dei Frati Predicatori, di Galvano Fiamma.

Galvano Fiamma, nato nel 12831 entrò nell’Ordine nel 1298. La sua cronaca utile per alcune particolarità, non è stata stampata. Ne esiste una copia manoscritta nella Biblioteca Casanatense, nel convento della Minerva a Roma.

XVIII. Delle quattro cose, di cui Dio ha onorato l’Ordine dei Frati Predicatori, di Stefano di Salanhac del medesimo Ordine.

Stando al tempo in cui visse, e nel quale scrisse Stefano di Salanhac, dovremmo riporlo fra gli agiografi del tredicesimo secolo, immediatamente avanti a Teodoro d’Apolda. Perché egli nacque nell’anno 1210, ricevette l’abito di Frate Predicatore nel 1230 dalle mani di Pietro Cellani, e finì il suo trattato verso il 1278. Disgraziatamente non abbiamo questo trattato quale usci dalla sua penna: ecco come ci è pervenuto. Nel 1304 il Padre Almerico di Piacenza essendo stato eletto Maestro Generale dell’Ordine nel Capitolo Generale riunito a Tolosa, comandò a Bernardo Guidonis, domenicano già noto per il suo zelo e la sua scienza, di riunire insieme quanto potesse trovare d’inedito sulla storia dell’Ordine. Bernardo Guidonia gli rese conto delle sue ricerche in una lettera del medesimo anno 1304, nella quale prima di tutto fa menzione del trattato di Salanhac ch’egli dice di avere scoperto, e di avervi aggiunte diverse cose tralasciate dall’Autore; come avverte premurosamente al principio e alla fine del trattato; facendo anche sapere che per lo più le sue giunte le aveva poste in margine, ma non sempre. Perciò quando anche avessimo oggi il trattato di Salanhac quale lo pubblicò Bernardo Guidonis, non avremmo che un’opera mista, nella quale sarebbe impossibile discernere la prima mano dalla seconda. Ma la negligenza dei copisti ha grandemente cresciuta questa confusione; perché nei manoscritti di Salanhac, che tuttavia esistono, le note marginali destinate ad indicare la maggior parte delle aggiunte, sono del tutto sparse. Il trattato di Salanhac non ha dunque la sua originaria importanza, e non ha altra autorità se non quella del tempo in cui il Guidonis lo mise in ordine, facendone un’opera. Così è che vi sono parecchie cose che non concordano con i documenti del secolo decimoterzo. Questo trattato non è stato mai stampato. Se ne conserva il manoscritto nella Biblioteca Casanatense del convento della Minerva in Roma.

XIX. Vita di S. Domenico, di Pietro Cali.

Questa “leggenda” è una specie di raccolta. I suoi dodici primi numeri o paragrafi sono presi dal trattato di Stefano di Salanhac, ed il resto non è che un’accozzaglia di aneddoti senza ordine. Nella parte copiata da Stefano di Salanhac, l’autore ha anche accresciute le aggiunte che avevano di già corrotto l’opera di Stefano. Pietro Cali scrisse nel 1324, più di un secolo dopo la morte di S. Domenico, come risulta dal paragrafo dodicesimo della sua leggenda, in cui parla della promozione di Bornardo Guidonis al vescovado di Lodève; promozione che ebbe luogo nel 1324 sotto il papa Giovanni XXII. Sino alla fine del XV secolo S. Domenico non ebbe più storici se non in piccolissimo numero; e questi si restrinsero a copiare le leggende del secolo decimoterzo, eccettuato il domenicano Bretone Alano de la Roche, che corruppe tutte le tradizioni scrupolosamente rispettate fin allora, e pretese scrivere la Vita di S. Domenico per mezzo di rivelazioni particolari, fondandosi su autori, di cui nessuno aveva mai sentito parlare, né trovasi traccia in alcun luogo. Sant’Antonino Arcivescovo di Firenze, morto nel 1459 è il contrapposto di Alano de la Roche per il suo esemplare rispetto ai monumenti primitivi.

NOTA (1)

J’espère mourir en religieus pénitent et en libéral impénitent

Padre Jean Baptiste Henri Dominique Lacordaire (1802-1861) ebbe molti meriti, primo tra tutti quello di far rinascere l’Ordine dei Frati Predicatori (domenicani) in Francia. Tuttavia, egli aderì a quell’ideologia condannata da più pontefici detta cattolicesimo liberale (cfr. Voce dell’Enciclopedia Cattolica in: http://www.newadvent.org/cathen/08733a.htm), il tentativo di conciliare il cattolicesimo con le idee della Rivoluzione francese.

Perché, allora, una rete di siti che fa della fedeltà al papato il proprio distintivo ripropone oggi un testo di questo autore?

Non certo perché egli ritrattò le proprie posizioni espresse nel periodico Avvenire, condannato nel 1832 da Gregorio XVI: una caratteristica dei cattolici liberali – come prima dei giansenisti e poi dei modernisti – fu, appunto, quella di “ritrattare” e continuare a dire le stesse cose di prima: la classica frase dei cattolici liberali “Spero di morire come religioso penitente e come liberale impenitente” è stata proprio coniata dal Lacordaire.

I motivi sono altri. Il primo: il testo qui proposto ha carattere apologetico, intende cioè difendere la fede e la Chiesa, e Lacordaire “nacque” apologista e, nonostante “scivoloni” e ambiguità, restò tale fino alla fine. Secondo: un cattolico liberale dell’Ottocento, nell’attuale contesto storico ed ecclesiale, è ordinariamente più ortodosso della media di noi, cattolici del XXI secolo. Infine, inutile dirlo, il testo è stato sottoposto ad attenta lettura ed alle necessarie, piccolissime sistemazioni soprattutto semantiche e grammaticali.