VENERDI’ 25^ SETTIMANA T.O. – Lc 9,18-22 – Il Cristo di Dio

… il VECCHIO FARISEO COMMENTA….

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Dal Vangelo secondo Lc 9,18-22

Un giorno Gesù si trovava in un luogo solitario A PREGARE. I discepoli erano con lui ed egli pose loro questa domanda «Le folle, chi dicono che io sia?». Essi risposero: «Giovanni il Battista; altri dicono Elìa; altri uno degli antichi profeti che è risorto». Allora domandò loro «Ma voi, chi dite che io sia?». Pietro rispose «Il Cristo di Dio». Egli ordinò loro severamente di non riferirlo ad alcuno. «Il Figlio dell’uomo – disse – deve soffrire molto, essere rifiutato dagli anziani, dai capi dei sacerdoti e dagli scribi, venire ucciso e risorgere il terzo giorno». Parola del Signore

 

Mediti…AMO

Il famoso episodio di Luca non permette alcun tipo di contestualizzazione geografica.

Mentre Marco ha voluto trasmettere la collocazione precisa in Capernhaum, a Cafarnào, il terzo vangelo preferisce evidenziare il tratto esistenziale e relazionale da cui sorge e si anima questo particolare dialogo tra il Maestro e i suoi discepoli: LA PREGHIERA.

Il primo versetto della pericope sottolinea la centralità della preghiera di Gesù.

Più volte il vangelo ribadisce questa singolare ed accorata relazione tra Gesù e il Padre, ancor più forte nei momenti maggiormente significativi (prima del battesimo, prima di scegliere i Dodici, nella trasfigurazione, nel Getsemani).

La preghiera viene presentata come momento di intimità, di ricarica, di dialogo, di obbedienza che il Maestro vive spesso in luoghi solitari (5,16).

Soprattutto Matteo ribadisce la condanna del Maestro verso tutti coloro che usano la preghiera come occasione per farsi lodare dagli uomini.

La condanna diretta è sul mostrarsi oranti e religiosi, in una società dove la pratica di fede era centrale.

Forse oggi le cose sono un po’ cambiate, dal momento che spesso si prova quasi vergogna a farsi il segno della croce in strada davanti ad una chiesa o in un locale pubblico prima di iniziare i pasti.

Tuttavia, rimane assolutamente significativo lo stile di Gesù nel ritirarsi a pregare come esperienza di familiarità e confidenza, in cui vivere uno scorcio di rapporto filiale con il Padre.

Ci capita spesso di dover correre dietro ai tanti impegni e sentire la fatica del tanto affannarci (proprio come Marta in 10,40), dimenticando spesso che il carburante delle nostre azioni pastorali e catechetiche non può essere che la preghiera.

Il riferimento alla preghiera è tipicamente lucano e vuole sottolineare che i passaggi decisivi della Rivelazione avvengono nel contesto di quel dialogo misterioso che immerge l’uomo nella luce di Dio.

Stando a Luca è solo Gesù che prega ma i discepoli “sono con lui”, essi perciò sono coinvolti, vengono chiamati in causa. LA PREGHIERA DIVENTA PERCIÒ LA CORNICE IN CUI DIO INTERPELLA E PROVOCA L’UOMO.

È lo spazio in cui la Parola non risuona come una dottrina accademica o un insegnamento impersonale ma come una sfida che manda in crisi le nostre certezze. Non possiamo essere placidi spettatori.

La domanda che Gesù aveva rivolto ai discepoli, voleva evidenziare il modo con cui la figura del Maestro veniva interpretata.

Egli non accetta ciò che riferiscono i discepoli, ma neppure lo nega con decisione, forse perché rappresentano i desideri e gli aneliti che il popolo aveva «Giovanni Battista, Elia e uno dei profeti».

Tre personaggi molto significativi nella religiosità giudaica del tempo. Le attese delle molte fazioni religiose si concentravano su alcune figure di riferimento che potevano rispondere alla voglia di riscatto politico, sociale, economico e religioso.

In questo senso è bene accogliere anche la prima domanda del Signore, relativa alle folle “…Le folle, chi dicono che io sia?”.

Le risposte date non sono la risposta giusta, ma ci aiutano a cogliere come la domanda sia decisiva e raccolga tutta la storia della preparazione e della profezia di Israele.

Certamente gli antichi profeti, fino ad Elia, e Giovanni Battista in modo eminente, hanno “profetizzato” il Cristo di Dio, ma Gesù, come risponde Pietro al ver.20, è “il Cristo di Dio” che appunto il Popolo di Dio, e con lui tutta l’umanità, attende per la sua salvezza.

Ebbene, la domanda di Gesù e la risposta, nostra e di ciascuno di noi, dobbiamo porcela, oggi e sempre, con sempre più grande insistenza, supplica e speranza.

È Lui infatti ad unificare e a illuminare tutta la Parola che Dio ha donato fino a Lui.

Ed è Lui che unifica e illumina tutta la creazione e tutta la storia di tutta l’umanità.

E il senso profondo di ogni esistenza, e centralmente l’esistenza di ogni uomo e donna di ogni tempo e di ogni luogo, come tensione, attesa e misteriosa speranza verso di Lui, il Salvatore del mondo.

Senza di Lui tutto è ancora sospeso nell’a precarietà e nell’incertezza. Con Lui e in Lui tutto entra nel mistero di Dio.

Ma tutto questo “Egli ordinò severamente di non riferirlo ad alcuno” (ver.21).

Dopo la sua Pasqua di morte e risurrezione lo si annuncerà. È CHE PROPRIO LA SUA PASQUA, DA GESÙ VIVIDAMENTE DESCRITTA AL VER.22, È LA RIVELAZIONE E LA PIENEZZA DEL CRISTO DI DIO.

Quando il mondo lo rifiuterà e lo ucciderà, allora finalmente sarà piena e pienamente data la GRAZIA DELLA PRESENZA E DELLA POTENZA DEL CRISTO DI DIO NELLA STORIA E NELLA VITA DELL’INTERA UMANITÀ.

Nella sua Pasqua d’amore sta tutta la sua potenza.

Un’altra piccola analisi…

Mentre la prima domanda non interpella direttamente i discepoli, la seconda non lascia loro via d’uscita diplomatica.

Devono schierarsi e prendere responsabilità. Pietro, come al suo solito, risponde d’impeto attribuendo a Gesù il titolo supremo dell’unto del Signore, cioè di colui che è stato scelto da Dio per portare la salvezza definitiva ad Israele. Non «un cristo» qualsiasi, ma «il Cristo di Dio».

A quella domanda di Gesù non sono interpellati solamente i Dodici, ma ogni credente «…Chi sono io?» e ancor più «…chi sono per te?».

Gesù stesso sollecita questo interrogativo, proprio perché tutti noi lo dobbiamo affrontare in modo serio e decisivo. Importante è anche vedere in che occasione e in che modo Gesù pone la questione.

Egli ha mandato gli apostoli in missione ad annunciare il regno ed al ritorno pone loro la domanda: prima in modo indiretto «…Chi sono io secondo la gente?» e poi in modo diretto è rivolto agli apostoli.

Gesù vuol ancora far capire loro che i successi che gli apostoli hanno avuto nel loro apostolato dipendono senz’altro dalla loro generosità e donazione ma soprattutto dalla fedeltà al mandato ricevuto e dal riconoscere che lo stesso Gesù è il vero mandante, la fonte inesauribile di tutte le grazie.

Il contesto nel quale Gesù rivolge la sua domanda è quindi nella missione della Chiesa dell’annuncio del Regno. È questa la cornice, ma Gesù comincia a tratteggiare anche il quadro che sarà completato poi con il suo mistero pasquale.

L’annuncio del regno non può essere dissociato dal mistero della Morte-Resurrezione-Ascensione e mandato pentecostale di Gesù Cristo stesso.

È difficile adesso accettare per i discepoli questo disegno: e lo è ancora oggi per tutti i cristiani che sentono in modo autentico la responsabilità completa del mandato di Gesù stesso «…se qualcuno vuol venire dietro a me prenda la sua croce ogni giorno e mi segua».

E veniamo all’ultima affermazione del brano di oggi.

Gesù dice di sé “…Il Figlio dell’uomo deve soffrire molto, essere rifiutato dagli anziani, dai capi dei sacerdoti e dagli scribi, venire ucciso e risorgere il terzo giorno”.

Non si attribuisce quindi il titolo di Cristo. Preferisce usare il titolo di FIGLIO DELL’UOMO.

E poi Gesù esplicita come sarà declinato quel titolo, quando arriveranno a Gerusalemme: sofferenza, rifiuto dei capi, morte e risurrezione, ma dopo tutte queste cose.

E vuole che i suoi discepoli apprendano e si adeguino. E qui sorge una domanda: Gesù da dove ha tratto questa comprensione di sé e della sua missione?

La risposta sta nelle prime righe del nostro passo evangelico: “…Il Signore Gesù si trovava in un luogo solitario a pregare…” IL PADRE. Sì, Gesù cercava la comprensione di sé e della sua missione presso il Padre, confrontandosi con la sua volontà, consegnandosi poi con fiducia totale, assoluta a questa volontà d’amore. Anche passando sopra alla tentazione di preferire altre strade, magari quelle, che gli venivano prospettate dalle aspettative della gente.

Nel caso di Pietro, invece, il contesto, che precede immediatamente le sue splendide parole, qual è?

Non è un rifarsi al Padre, alla sua volontà, ai suoi piani, mediante una esperienza di preghiera intensa.

Per Pietro il contesto, che precede immediatamente le sue splendide parole, è costituito dalle aspettative delle folle.

A questo rischio siamo continuamente esposti anche noi: interpretare le grandi affermazioni del nostro bagaglio dottrinale, affidandoci alle nostre logiche umane e ignorando la logica di Dio.

Quante volte usiamo nei confronti di Gesù titoli altisonanti e sacrosanti: Cristo, Signore, Dio.

Ma ci guardiamo bene dal tenerli agganciati alla strada pasquale, percorsa da Gesù: infatti ci guardiamo bene dal dire: “Siccome riconosco che Tu sei il Cristo di Dio, il mio Signore e il mio Dio, sono disposto a seguirti ovunque Tu vada, sono disposto a perdermi per amore tuo come fai Tu per noi!”.

No, ci piace molto di più applicare a quei titoli le nostre logiche di grandezza, di successo, di forza, di onore, spinte alla misura massima possibile.

Dobbiamo allora imparare da Gesù l’unico metodo adeguato per comprenderlo e seguirlo come si deve: rifarsi costantemente al Padre nella preghiera.

Impariamo da Gesù anche il test, che certifica la giusta interpretazione: il test è fare spazio anche noi nella nostra vita alla logica della croce per amore.

Ma voi, chi dite che io sia?

Non possiamo far finta di nulla né restare dietro le quinte.

La Parola ci costringe a prendere posizione e ci chiede di riconoscere Gesù come l’Inviato di Dio, Colui che compie le antiche promesse e risponde alle attese dell’uomo.

QUESTA FEDE È SOLO LA PREMESSA DI UN DIALOGO ORANTE CHE, POCO ALLA VOLTA, CI CONDUCE A CAPIRE CHE LA STORIA DI DIO PASSA ATTRAVERSO L’ESPERIENZA DELLA CROCE.

La preghiera appare, dunque, come un passaggio essenziale in cui Dio si fa riconoscere come il Signore e ci fa conoscere i passi che dobbiamo compiere per vivere fedelmente la nostra vocazione.

È la premessa e la cornice in cui si svolge la nostra vita.

Ci riporta al principio e dona la GRAZIA di ricominciare e il coraggio di andare fino in fondo.

Tutto questo, però, è bene dirlo avviene solo se impariamo a stare dinanzi al Signore, in umiltà e con piena disponibilità ad accogliere la luce.

Dovremmo riprendere tra le mani un meraviglioso documento conciliare, la GAUDIUM ET SPES, che al n.10 dice:

«Tu sei il Cristo di Dio». E la fede a cui la nostra vita si afferra, a cui si orienta il nostro cuore e con cui confrontiamo le scelte quotidiane.

Per questo il concilio Vaticano II dice «…La chiesa crede che Cristo, per tutti morto e risorto, dà all’uomo, mediante il suo Spirito, luce e forza perché l’uomo possa rispondere alla sua suprema vocazione; né è dato in terra un altro nome agli uomini in cui possano salvarsi. E crede ugualmente che trova nel suo Signore la chiave, il centro e il fine di tutta la storia umana»”

«Pietro rispose: il Cristo di Dio»

Pietro non immagina certo che proprio la croce, grave scandalo per Israele, impedirà di riconoscere in Gesù «il Cristo di Dio»: la ripetizione dell’identica espressione non è casuale.

Intanto, come tutti gli altri, Pietro viene sorpreso dalla dolorosa rivelazione di Gesù, senza riuscire a capirla.

Eppure sarà proprio l’amara esperienza della croce a maturare in lui il futuro capo della comunità di Gesù, sicuro punto di riferimento per la fede della chiesa.

Per lui soprattutto la croce sarà una prova decisiva, nella quale quasi soccomberà; ma, sostenuta dalla preghiera di Gesù, nonostante tutto la sua fede rimarrà, e sarà forza per il piccolo gruppo dei discepoli. Gli dirà Gesù: «Simone, Simone, ecco Satana vi ha cercato per vagliarvi come il grano.

 

Ma io ho pregato per te, che non venga meno la tua fede. E tu, una volta ravveduto, conferma i tuoi fratelli» (22,31-32). Sarà lo sguardo di Gesù, proprio nel corso degli avvenimenti dolorosi, a riconquistare per sempre il discepolo (22, 61-62).

Non è senza motivo che Luca gli dedichi questi passi stupendi del suo Vangelo: nella storia della chiesa primitiva raccontata nel libro degli Atti sarà infatti lui il sostegno della prima comunità, il portavoce di fronte al mondo del messaggio evangelico della croce e della risurrezione.

«Il Figlio dell’uomo deve soffrire molto’.

In quel «deve», detto in modo impersonale, ci sta tutto il misterioso piano divino.

È il Padre che è presente e sostiene il Figlio in quell’ora» di oscurità e di dolore.

È il mistero del venerdì santo, quelle tenebre del Calvario in cui sembra che «la luce del mondo» venga spenta e rifiutata completamente.

E il mistero d’un nuovo parto divino, in cui l’umanità nuova nasce nel dolore da Dio, nella persona del suo Figlio, in quel dolore salvifico che genera una famiglia nuova.

Nei Padri della Chiesa è diffusa la meditazione sulla croce come nuova creazione, nuovo parto, momento in cui passano le cose vecchie, i veli che si squarciano e nascono quelle nuove.

Il soldato squarcia il corpo di Gesù con la lancia e da Cristo nuovo Adamo (Rm.5,13-14 e 1Cor.15,45) prorompe sulla terra il fiume della grazia divina, ed escono sangue ed acqua, simboli dei sacramenti (eucaristia e battesimo) della nuova Eva, la chiesa, cioè l’umanità dei riconciliati.

Il piano di Dio, dunque, si realizza nella sofferenza che conduce ad una morte assunta liberamente per amore, e chi crede in essa ed è immerso in questa stessa morte (nella pasqua, nel battesimo, nell’eucaristia) è già umanità nuova.

Nella croce Cristo si rivela come l’immagine del Dio invisibile (Col.1,15), come l’uomo capace di amore concreto che può mostrare il volto di Dio che ama.

Di fronte alle reazioni umane istintive per l’assurdità e l’inutilità del dolore, la croce è il silenzio con cui Gesù vive il dolore ingiusto, facendone anzi offerta «in favore delle moltitudini’ (Is 53, 11-12; Mt 26,28; Me 14,24; Le 22,20).

Gesù ci ricorda che la vita non è solo quella visibile che appare agli occhi della carne, ma è anche segreta, invisibile e soprattutto trascendente. Essa è soprattutto maturazione spirituale, crescita interiore percepibile unicamente alla luce della fede.

Non lasciamoci sedurre da falsi messianismi che oggi offuscano le nostre mente e le gettano in preda al guadagno, all’edonismo e alla superficialità. Gesù ci dice non di portare la croce, ma di prenderla, abbracciarla come il seno della nostra gloria, della fedeltà e dell’amore.

Egli rivela, così, un volto «inedito» ma profondamente vero di Dio. Il Padre è il primo ad amare follemente fino al sacrificarsi totalmente in Cristo suo figlio.

Chi segue Gesù, chi vuol davvero riconoscerlo con la vita (e non solo con le parole) come «il Cristo di Dio>>, non può evitare la sua via. Ognuno deve prendere questa «croce»; «ogni giorno>>, sottolinea Luca, per convincerci ancor più della concretezza dell’insegnamento.

Che significa «prendere la propria croce»?

«Portare la propria croce, è accettare di vivere come Gesù, di seguirlo sulla via dell’umiltà, della mitezza, della semplicità.

La croce è soprattutto l’amore donativo assoluto, che accetta anche la morte, il perdere sé stessi per amore.

Ed è anche quella sofferenza, piccola o grande, che, toccando nel vivo la nostra carne, ci fa capire, talvolta brutalmente, che non siamo noi il centro dell’universo e che noi non siamo onnipotenti.

E poi anche quello «smettere di pensare continuamente a noi stessi» («rinnegarsi») e arrivare invece a donare il nostro tempo, a dare una parola, un gesto, una presenza, un sorriso o anche una rinuncia difficile, un impegno per la dignità di qualcuno, una parola di giustizia che ci rivela e ci scomoda, o una fedeltà che ci costa profondamente.

«Prendere la propria croce» è per noi, in sintesi, vivere come Gesù; detto con parole di S.Paolo, è «avere in noi gli stessi atteggiamenti che furono in Cristo Gesù» (Fil 2,5).

Ragioniamoci sopra…

Sia Lodato Gesù, il Cristo!