SPIEGAZIONE DELLA MESSA TRIDENTINA

Spiegazione della messa tridentina

1. Due riti distinti

2. La santa messa

3. Le principali differenze

4. Il sacrificio eucaristico

5. Un solo sacerdote

6. L’altare

7. Il latino e la partecipazione

8. Il sacerdote e i fedeli

9. Profonda umiltà

10. Ricchezza e bellezza

11. Le letture

12. L’Offertorio sacrificale

13. La conclusione

14. Riti e simboli

15. Un recupero pastorale

 

  1. Due riti distinti

È sentita la necessità di spiegare la messa c.d. tridentina, dove questa viene celebrata, nelle sue principali differenze dalla messa “nuova”, postconciliare, perché non tutti ne percepiscono chiaramente le ragioni. Lo faremo in alcune brevissime puntate distribuite lungo l’arco dell’anno liturgico.

Prima di tutto ricordiamo che la santa messa tradizionale, di rito romano antico, in uso nella Chiesa da secoli, viene celebrata per concessione dei vescovi in base all’indulto pontificio del 3 ottobre 1984 (EV 9,1034-1035), confermato con la lettera motu proprio del Papa Ecclesia Dei del 2 luglio 1988 (EV 11,1197-1205).

Si tratta di due riti distinti, come esistono nella Chiesa cattolica vari riti (SC 3: EV 1,3-4; can. 2 CIC) nei quali rimane identica la sostanza della santa messa, mentre essi differiscono in vari e molteplici particolari che ne mettono più o meno in luce vari aspetti; è proibita la commistione tra i due riti (EV 9,1035d).

Pertanto non viene messa in dubbio la validità della c.d. “nuova” messa – introdotta sotto il pontificato di Paolo VI nel 1969 con la Costituzione apostolica Missale Romanum (20 ottobre 1969: EV 3,1619-1640), con la decorrenza dal 30 novembre 1969 (ivi, 1621) – a condizione che il sacerdote celebrante abbia l’intenzione (attuale o virtuale) di consacrare.

Non può venir messa in dubbio, quindi, né la legittimità (a certe condizioni) della messa tridentina, né la validità (a certe condizioni) della “nuova messa”.

  1. La santa messa

La santa messa si può definire come atto supremo del culto di Dio Uno e Trino, mediante il sacrificio redentore di Gesù Cristo compiuto sulla croce, che si rinnova ossia rende presente sull’altare attraverso la ripetizione dell’Ultima Cena, sacramento del sacrificio di Cristo (la santa messa è un sacrificio sacramentale, applicativo).

La sua struttura fondamentale è data dalla c.d. liturgia della parola e dalla liturgia eucaristica che, a sua volta, consta di due parti: il sacrificio e la santa comunione. Essenziale è il sacrificio, nel quale mediante la consacrazione separata del pane e del vino si rinnova l’offerta al Padre del Corpo e del Sangue di Gesù Cristo: uno e identico ne è il sacerdote principale, una e identica la vittima, Gesù Cristo, soltanto il modo di fare l’offerta è differente, cruento sulla croce, incruento sull’altare (Pio XII, Enciclica Mediator Dei, II 1: EE 6,493-494). Esso si rinnova perché la Chiesa si unisca al sacrificio del suo Capo e s’inserisca in esso, partecipandovi, al fine di trarne i frutti salvifici. A tal fine è necessaria una partecipazione spirituale dei fedeli (cfr. ivi, 506-528), non è necessaria, invece, la santa comunione che è una parte integrante del sacrificio ed è obbligatoria soltanto per il sacerdote celebrante. Non è necessaria la presenza dei fedeli alla celebrazione, perché la santa messa è sempre un atto pubblico, a favore di tutta la Chiesa.

  1. Le principali differenze

Da quanto detto sulla struttura fondamentale della santa messa, sacrificio sacramentale di quello della croce, risultano le principali differenze tra la messa tridentina e quella “nuova”, assieme alle finalità della santa messa, ossia tra quello che la messa è e quello che la messa non è:

difatti, il fine della liturgia non è quello di costituire un’assemblea, di fare uno spettacolo, di fare una “festa”, di celebrare una semplice cena.

Ora, nella nuova messa si riscontrano alcune accentuazioni che potrebbero far travisare le finalità essenziali della santa messa:

1) nella “nuova messa” è accentuato l’aspetto di azione della Chiesa (intesa come?): il sacerdote celebrante in parecchi momenti si confonde in un certo qual modo con i fedeli (come risulterà meglio ancora); ma la santa messa non un’assemblea;

2) nella “nuova messa” è accentuata la liturgia della parola, comprese le varie “didascalie”, quindi l’aspetto didattico (anche se l’omelia è spesso impoverita); ma la messa non uno spettacolo, e tanto meno TV (?).

3) nella “nuova messa” è ridotto l’aspetto sacrificale (un offertorio quasi inesistente, le preci eucaristiche più brevi e scarne); ma la messa non è (solo) una “festa” (l’accento posto sulla gioia della risurrezione);

4) nella “nuova messa” è accentuato l’aspetto conviviale (già nell’Offertorio): ma la messa non è una cena (soltanto), come per i protestanti.

  1. Il sacrificio eucaristico

Il sacrificio che è la parte centrale e del tutto essenziale della santa messa, sacrificio sacramentale, perché riferito a quello della croce, è atto supremo di culto divino, al fine di lodare e ringraziare Dio, dal quale riceviamo tutto (Es 22,29; 33,5.21; Lv 23,10; Pr 3,9).

Il sacrificio, dopo il peccato, ha anche una finalità propiziatoria, di riconciliazione con Dio (cfr. 2Cor 5,19), mediante l’atto supremo di obbedienza di Gesù Cristo, unico Mediatore tra Dio e gli uomini (1Tm 2,5), obbedienza fino alla morte di croce (Fil 2,8), per soddisfare (più che per “espiare”, ma vedi anche 1Gv 2,2) per i nostri peccati, in quanto il peccato è disobbedienza (cfr. Rm 5,19).

Conseguentemente, il sacrificio eucaristico è anche un sacrificio di impetrazione di tutte le grazie necessarie per la nostra salvezza (cfr. Rm 8,32), di impetrazione per i vivi e i defunti, per la Chiesa e per tutto il mondo, in particolare per chi viene celebrata la messa, per chi la celebra, per chi vi partecipa (“assiste”).

Ne risulta l’assoluta necessità della santa messa per la salvezza eterna, in quanto in essa si rinnova e rende presente il sacrificio redentore di Gesù Cristo. La sua obbligatorietà scaturisce dalla virtù della religione (giustizia verso Dio) e dal suo valore salvifico del tutto fondamentale.

  1. Un solo sacerdote

Il sacrificio della croce, e quindi quello sacramentale, per anticipazione, dell’Ultima Cena, e quello sacramentale “per commemorazione” (nel senso forte della parola) dell’eucaristia (“rendimento di grazie”), è compiuto dall’unico ed eterno Sommo Sacerdote, Gesù Cristo (Eb 7,24; 9,26).

Nella messa tridentina, celebrata da un solo sacerdote, risalta chiaramente questo aspetto cristologico della santa messa. Il sacerdote è mediatore tra Dio e gli uomini, ministro di Cristo: è lui che offre i doni (vittima), che consacra, che compie il sacrificio; solo grazie alla sua azione il sacerdozio, essenzialmente distinto (LG 10b: EV 1,312), viene attuato ed esercitato ed è reso efficace.

Pertanto, il Canone (romano) è la preghiera esclusivamente sacerdotale e viene recitato, per la maggior parte, a bassa voce, eccetto il canto (o recita ad alta voce) del Prefazio e del Pater noster.

La concelebrazione, limitata dal Concilio Vaticano II ad alcuni casi e che non può venire mai imposta ai singoli sacerdoti (SC 57: EV 1, 97-106; can. 902 CIC), non aiuta a percepire l’unicità del sacerdote il quale non è mai soltanto un “presidente” (dell’assemblea). Essa fa risaltare l’unicità del sacerdozio intorno al Vescovo, specialmente il Giovedì santo, ma non deve diventare una comoda abitudine che peraltro priva i fedeli del beneficio della santa messa distribuita in più luoghi e orari.

  1. L’altare

Il sacerdote non si pone “contro” i fedeli, chiudendosi in un cerchio (cfr. Ratzinger, Introduzione allo spirito della liturgia³, Cinisello Balsamo, 2001, p. 76), ma sta a capo del “popolo di Dio”, quale condottiero, e con esso si rivolge a Dio, verso l’oriente, verso l’altare, il quale non deve essere mai una tavola (per una specie di Cena di tipo protestante) e che non è prescritta, resa obbligatoria, anzi, la duplicità di “altari” dovuti a quelli posticci deve col tempo scomparire (cfr. doc. sulla riforma liturgica del 25 gennaio 1966: EV 2,610).

Sull’altare deve essere collocato un crocifisso, perché vi si rinnova il sacrificio della croce; vi si trova, in mezzo, il tabernacolo, sede di Cristo, presente realmente sotto le specie eucaristiche e la cui presenza, prodotta dalla transustanziazione avvenuta nella consacrazione, è durevole; vi sono i candelieri con le candele per significare la presenza di Cristo, “luce del mondo” (Gv 8,12; Lc 2,32; 1,78); nella sua pietra si conservano le reliquie dei santi, nostri intercessori presso Dio (Canone romano), con i quali siamo uniti nella grande comunione dei santi e della liturgia celeste (cfr. Ap 6,9).

L’altare, con il ministero del sacerdote (cfr. 1Cor 4,1), rende la Chiesa aperta verso il mistero redentivo di Cristo e verso la patria celeste (Fil 3,20), verso la quale il popolo di Dio è incamminato.

  1. Il latino e la partecipazione

Il latino è la caratteristica della messa tridentina, che più risalta. Anche la “nuova messa” si può celebrare in latino, ma resta un rito distinto. La lingua latina che il Concilio Vaticano II ha deciso di conservare (SC 36; can. 928 CIC) è una lingua sacra, precisa garanzia dell’ortodossia e della universalità o cattolicità della Chiesa, dell’immutabilità del dogma (cfr. Eb 13,8-9), compromessa dalle molteplici e non sempre felici traduzioni, peraltro bisognose di continui aggiornamenti.

Già si è detto che il canone è una preghiera esclusivamente sacerdotale che viene recitata dal sacerdote per la maggior parte a bassa voce. Per partecipare “attivamente”, cioè spiritualmente, alla santa messa, la cui prima parte, la c.d. liturgia della parola (letture, omelia) è pienamente “comprensibile” perché svolta in lingua volgare, non è necessario capire materialmente ogni singola parola. Della liturgia bisogna afferrare lo spirito, la sostanza che è quella di un mistero ossia evento salvifico della redenzione dai peccati, operata da Cristo, di cui dobbiamo appropriarci, e quindi della salvezza finale.

Si può ricorrere a un paragone tratto dall’opera: anche in essa non sempre vengono percepite e capite le singole parole, ma se ne capisce l’essenza, la sostanza dell’azione o l’azione complessiva, e se ne percepisce la bellezza. Le parole a volte possono disturbare; è necessario anche e soprattutto il silenzio (esteriore). E come il sacerdote si serve del messale, così possono fare i fedeli (con l’ausilio dei messalini o dei foglietti, come per il libretto dell’opera).

  1. Il sacerdote e i fedeli

Mentre nella “nuova messa” le parti del sacerdote celebrante e del popolo dei fedeli spesso si confondono, nella messa tradizionale esse rimangono distinte, in ossequio al principio che la messa è l’atto di Cristo che lo compie mediante il ministero del sacerdote.

Rimangono distinti il Confiteor ai piedi dell’altare, l’Agnus Dei, il Domine non sum dignus; la distinzione tra il sacerdote-mediatore e i fedeli ricorre anche nel Canone, almeno tre volte: l’adorazione del santissimo Sacramento dopo la consacrazione è doppia, distinta; è separato il canto o la recita del Pater noster, pronunciato dal solo sacerdote, anche se a nome di tutta la Chiesa; ritorna spesso la distinzione nella seconda persona plurale quando il sacerdote si rivolge ai fedeli, come nei frequenti Dominus vobiscum – segno ed espressione dell’unione di Cristo con i fedeli e insieme l’esortazione al raccoglimento alla presenza di Cristo; non si dà luogo ad abusi e travisamenti come quando oggi alcuni sacerdoti si esprimono nella prima persona plurale, non consentito neppure dalla nuova liturgia, come: “questo nostro sacrificio”, “lavaci, purificaci”; “ci custodisca”; “ci benedica”; un abuso analogo a quello di trasporre all’indicativo quel che è all’imperativo, meglio sarebbe dire “implorativo”: “Dio ha misericordia di noi, ci perdona i nostri peccati ecc.”, invece di “Dio abbia misericordia di noi, perdoni i nostri peccati ecc.” – è una preghiera di intercessione richiesta alla fine del Confiteor.

  1. Profonda umiltà

Tutta la messa tradizionale è pervasa da un afflato di profonda umiltà, insegnataci da Gesù nella parabola del superbo fariseo e dell’umile pubblicano (Lc 18,9-14): così nelle preghiere ai piedi dell’altare, prima di salire verso di esso; così in tutte le orazioni in cui non vengono evitate espressioni eliminate dalla nuova liturgia perché suonerebbero offensive al delicato orecchio dell’odierno cristiano che si ritiene maturo, adulto, come: peccato, riparazione, inferno, le insidie del male, avversità, nemici, tribolazioni, afflizioni, infermità dell’anima, durezza del cuore, concupiscenza, indegnità, tentazione, cattivi pensieri, gravi offese, perdita del cielo, morte eterna, punizione eterna, frutti proibiti, colpa, eterno riposo, vera fede, meriti, intercessione, comunione dei santi ecc., al posto delle quali oggi si vuole sentire solo gioia, festa ed espressioni anche di tipo sociale o terrestre o vago, come senso cristiano della vita, guarigione dagli egoismi, conforto della protezione divina, coerenza di vita, spirito rinnovato, tua amicizia (con Dio), servizio dei fratelli, fraternità e pace, mondo più umano e giusto, impegno al servizio del prossimo, desiderio di intesa e di collaborazione, messaggio di bontà e di gioia, impegno civile, progresso nella libertà e nella pace, e così via (cfr. Bianchi, Liturgia: memoria o istruzioni per l’uso? Studi sulla trasformazione della lingua dei testi liturgici nell’attuazione della riforma, Casale Monferrato, 2002). Le orazioni tradizionali latine sono, inoltre, molto concise e profonde nella loro semplicità, quindi pregnanti, e invitano alla riflessione.

  1. Ricchezza e bellezza

La messa tridentina non solo non pecca di eccessiva brevità, ma è anche ricca nei suoi vari elementi. La nuova messa risulta accorciata di circa un terzo ed sproporzionata tra una liturgia della parola a volte eccessivamente lunga, pur essendo le omelie oggi assai ridotte, e la liturgia eucaristica, specialmente quando viene usata, come accade di preferenza, la Prece eucaristica seconda. Ma la nuova messa è anche povera rispetto a quella tradizionale dove abbondano le orazioni che possono essere anche doppie o triple, le bellissime sequenze, ispirate dalla sacra scrittura, come Dies irae, Stabat mater, Veni Sancte Spiritus, Lauda Sion Salvatorem, Victimae paschali laudes, ecc. È ricca di feste di santi, di colori, di paramenti, nelle chiese architettonicamente e artisticamente belle che favoriscono il raccoglimento e l’orazione quale elevazione della mente a Dio, nella partecipazione alla perenne liturgia celeste, con frequenti invocazioni degli angeli e dei santi, anche nello stesso canone romano. Nella messa tridentina si sente la traccia della bellezza di Dio e del suo regno celeste. Anche grazie al suono dell’organo e al canto gregoriano, entrambi raccomandati dal Concilio Vaticano II (SC 116,120). Dio è Verità, Bontà e Bellezza e la liturgia deve riflettere tali sue proprietà che illuminano la nostra esistenza. Il Santo Padre, nella carechesi del 26 febbraio 2003, ha insistito sulla necessità della bellezza nella liturgia e nei canti e nella musica sacra, invitando la Chiesa a farne oggetto di un esame di coscienza.

  1. Le letture

Il Concilio Vaticano II aveva raccomandato una maggiore ricchezza biblica nella messa, letture più abbondanti, in modo che in un determinato numero di anni si legga al popolo la parte migliore della sacra scrittura (SC 51). Sono nati così dei cicli triennali di letture bibliche che comprendono anche quelle tratte dall’Antico Testamento; nelle domeniche e nelle feste si hanno tre letture, delle quali la prima è presa dal Vecchio Testamento.

A questo proposito bisogna dire che le scelte dei brani scritturistici non sono sempre felici né con tagli appropriati e che specialmente le letture dell’Antico Testamento non sono sempre ben comprensibili. Inoltre, per parola di Dio non è intendersi soltanto la sacra scrittura o la Bibbia, bensì anche e in primo luogo la predicazione della Chiesa (cfr. 1Ts 2,13), nella quale l’omelia non consiste soltanto nel commentare la Bibbia come per i protestanti. Quel che deve essere esauriente è questa predicazione che deve esporre gli argomenti principali del Credo, dei sacramenti, della morale cristiana e della preghiera cristiana, come si ha nei catechismi (cfr. Catechismo della Chiesa cattolica), mentre un limitarsi ai temi immediatamente proposti (quando vengono colti) dalle letture bibliche risulta a volte dispersivo e incompleto, con il danno di una minore fissazione nella memoria dei punti principali o capitali della dottrina cattolica (cfr. R. Amerio, Iota unum, Milano-Napoli, Ricciardi, 1985, p. 541). A voler dare un panorama completo (non lo sarà mai) della sacra scrittura ci si imbatte anche in brani poveri di contenuto o ripetitivi, mentre nella messa tridentina le letture bibliche, specialmente in certi tempi, come quello della Quaresima, sono più ampie.

  1. L’Offertorio sacrificale

La parte più ridotta della “nuova messa” rispetto a quella precedente è l’Offertorio, nel quale iniziava il sacrificio con la presentazione a Dio dei doni sacrificali da parte della Chiesa; questi doni passavano nella sfera divina e il sacrificio veniva compiuto mediante la transustanziazione, ossia mediante il cambiamento del pane e del vino in Corpo e Sangue di Gesù Cristo; in tale maniera il sacrificio da parte della Chiesa viene a identificarsi con quello del nostro Signore, diventa tutt’uno con questo e acquista la sua efficacia. Oggi, invece, nella “nuova messa” l’Offertorio è stato sostituito con una specie di benedizione della tavola, di tipo ebraico, quasi fosse soltanto un preludio alla Cena, sulla quale oggi si pone un accento esagerato quasi nella messa fosse obbligatoria per tutti e sempre la santa comunione eucaristica. Questa è, però, soltanto un elemento integrante, obbligatorio per il solo sacerdote, mentre ai fedeli è vivamente raccomandata, ma sempre a certe condizioni, tra le quali al primo posto quella dello stato di grazia. Oggi, invece, si hanno comunioni di massa, in piedi, anche sulla mano, di molte persone che non si trovano in stato di grazia, ma commettono un sacrilegio. La messa non è soltanto o principalmente una Cena, di tipo protestante.

  1. La conclusione

A conclusione della messa tridentina si ha la lettura del c.d. “ultimo Vangelo”, di solito tratto dal prologo del vangelo secondo san Giovanni, che serve a elevare potentemente l’animo verso il mistero di Dio Uno e Trino e del Verbo Incarnato, offerto, sacrificatosi per noi e donatosi a noi nella santa messa, di modo che esso serve di primo ringraziamento. Nelle messe c.d. lette seguono anche le preghiere, di nuovo ai piedi dell’altare, in ginocchio, per la libertà e l’esaltazione della santa Madre Chiesa e contro il demonio che insidia le anime e la loro salvezza eterna, prescritte dal grande pontefice Leone XIII. La loro necessità risulta sempre più chiara dallo svolgersi della storia contemporanea.

Nelle sagrestie si trovavano nel passato delle tabelle con una serie di preghiere, fatte di salmi e di altre composte dai santi, che servivano di preparazione e di ringraziamento al sacerdote celebrante, comprese le intenzioni di consacrare e di applicare il sacrificio eucaristico; la preparazione e il ringraziamento sono prescritti tuttora ai sacerdoti (can. 909 CIC) e servono di esempio anche ai fedeli; i ritardi nell’arrivare alla santa messa e la dissipazione subito alla fine compromettono i suoi frutti spirituali.

  1. Riti e simboli

Nelle messe solenni il sacerdote celebrante viene assistito dal diacono e dal “suddiacono” (ordine maggiore non più esistente, ma ne rimangono le funzioni nella santa messa solenne); questi, tra l’altro, cantano il Vangelo e l’Epistola. Si usa anche l’incenso, per incensare i doni sacrificali, l’altare e le persone. L’incenso simboleggia il sacrificio perfetto, quello dell’olocausto, in cui veniva bruciata la vittima (offerta a Dio) e ne saliva verso Dio il fumo; vengono incensate anche le persone (del celebrante, degli assistenti, dei fedeli), in quanto si offrono a Dio come vittime spirituali in odorem suavitatis (Gn 8,21; Ef 5,2); anche le orazioni dei santi vengono considerate come profumi che salgono verso Dio (Ap 5,8), come pure le virtù dei cristiani (2Cor 2,15; cfr. Gv 2,3).

Una caratteristica tipica della messa tridentina è il massimo rispetto verso il SS.mo sacrificio e il SS.mo Sacramento dell’altare; ciò si manifesta nelle frequenti genuflessioni e nella massima cura dei frammenti eucaristici secondo il precetto del Signore: “Raccogliete i pezzi avanzati, perché nulla vada perduto” (Gv 6,12), poiché anche nel minimo frammento eucaristico è presente il Corpo Ss.mo del divin Redentore.

Il bacio dell’altare che rappresenta Cristo è il bacio riverente in segno di adorazione (cfr. Mt 28,9; Gv 20,17) e di comunione con Gesù.

Il tabernacolo occupa il posto centrale ed elevato, quale si addice al trono di Dio.

  1. Un recupero pastorale

Se ci domandiamo, a questo punto, perché la gente si è allontanata dalla santa messa, possiamo ritenere che il motivo ne è la sua banalizzazione come risulta da quanto esposto fin qui. Manca anche il senso di Dio (la fede), il senso del peccato (il pentimento), il senso della redenzione (la ricerca della grazia); per colpa anche di una predicazione monca, difettosa, a volte da “falsi profeti” che addormentano le coscienze, tentando di parlare solo “al positivo”, solo di feste, gioia, risurrezione, trascurando la realtà del peccato, la necessità della redenzione, il rinnovamento del sacrificio della croce sull’altare. Non si insiste più abbastanza sull’obbligo della santa messa (vedi invece il can. 1247 CIC), né sulle disposizioni necessarie per parteciparvi (cfr. CCC 1387). C’è un grande rilassamento nella morale cristiana e nelle celebrazioni liturgiche. Le chiese sono diventate spesso musei, pinacoteche, sale da concerto. Le modalità con cui vengono celebrati i sacramenti, in particolare i matrimoni, ne degradano la sacralità. C’è poco silenzio e raccoglimento nelle chiese, anche durante o prima o dopo la santa messa.

In tutto ciò prevale lo spirito dei tempi che è uno spirito antropocentrico: al centro di tutto è posto l’uomo, la “comunità”.

La messa tridentina, invece, favorisce il ricupero del senso di Dio, del sacro, tributando il retto culto a Dio e arricchendo lo spirito umano di grazia divina, di bellezza, quindi di felicità.