SAN LORENZO -MARTEDI’ 19′ SETTIMANA T.O. – Giovanni 12,24-26 Se il chicco di grano muore, produce molto frutto.

… il VECCHIO FARISEO COMMENTA….

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Dal Vangelo secondo Giovanni 12,24-26

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli «In verità, in verità io vi dico: se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto. Chi ama la propria vita, la perde e chi odia la propria vita in questo mondo, la conserverà per la vita eterna. Se uno mi vuole servire, mi segua, e dove sono io, là sarà anche il mio servitore. Se uno serve me, il Padre lo onorerà». Parola del Signore

 

Mediti…AMO

Oggi la Chiesa celebra la santità di Lorenzo, diacono della Chiesa di Roma, luminoso esempio di martirio e di amore per i poveri. Pur così distante da noi nel tempo, ci è vicino per la sua appassionata carità.

Sappiamo poco di Lorenzo. Ma quel poco ci basta. Lorenzo vive in un momento di grande persecuzione della Chiesa, sotto l’imperatore Valeriano, che vieta le assemblee di cristiani, blocca gli accessi alle catacombe, anche se non obbliga a rinnegare la fede cristiana.

Nel 258, Valeriano ordina però la morte di vescovi e preti: fra i tanti muore papa Sisto II, ai primi di agosto del 258.

Lo segue subito Lorenzo che, come diacono, amministra i beni della comunità di Roma. Il prefetto imperiale lo arresta intimandogli di consegnare i tesori della Chiesa.

Lorenzo chiede del tempo, si affretta a distribuire ai poveri le offerte di cui è amministratore. Infine compare davanti al prefetto e gli mostra una gran numero di malati, storpi, poveri che lo accompagnano, dicendo: ECCO, I TESORI DELLA CHIESA.

Sarà ucciso ustionato sulla graticola. Ma lo ricordiamo per quel gesto, quella provocazione che ancora oggi ci interroga ancora: i tesori della Chiesa non sono gli ori, le opere d’arte, le meravigliose basiliche, MA I POVERI CHE SERVIAMO, SERVENDO IN LORO CRISTO.

Ma vediamo il testo evangelico. Oggi dalla liturgia ci presenta una riflessione sulla passione e morte di Gesù.

Il contesto è quello della terza e ultima Pasqua vissuta da Gesù a Gerusalemme, quando ormai i sommi sacerdoti hanno preso la decisione di condannarlo a morte, e dopo il suo ingresso messianico nella città santa acclamato dà molta folla.

La sua vita sta volgendo alla fine, la morte è decretata dalle legittime autorità della comunità religiosa, della sua “chiesa”, ma Gesù riesce a vedere oltre la morte. Sa che ormai “…è venuta l’ora che il Figlio dell’uomo sia glorificato”.

Questa è l’ora decisiva, che inaugura un nuovo tempo per la fede, per l’adorazione di Dio, per la salvezza dei morti e dei vivi.

C’è una realtà di morte che deve essere affrontata ed accettata, senza la quale non vi sarà vita nuova.

Per fare chiarezza Gesù ricorre a una breve similitudine, pronunciata con grande autorità “Amen, amen io vi dico: se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto”.

Ecco la necessità della passione e morte, della croce. La sua morte, per prima, ma poi anche la nostra È UNA SEMINA, NELLA QUALE IL SEME DEVE CADERE A TERRA, ESSERE SOTTERRATO, MORIRE COME SEME E DARE ORIGINE A UNA NUOVA PIANTA CHE MOLTIPLICA I SEMI NELLA SPIGA.

Gesù, parlando di quel seme, parla di sé e della propria morte e resurrezione. Così Gesù legge la sua morte e così la rivela che anche a noi, uomini e donne che siamo chiamati alla sua sequela. Anche per noi è necessario morire, cadere a terra e anche scomparire per poter poi dare frutto. Quello che Gesù dice per sé stesso lo dice per ognuno di noi.

A NULLA VALE IL SACRIFICIO DEL FIGLIO PER NOI, SE NON S’INCONTRA CON IL NOSTRO SACRIFICIO PER LUI.

Chi vuol salvare la propria anima la manda in perdizione, invece, chi la odia la propria anima per amore di Cristo la mette a dimora per la vita eterna.

Dice Cristo “Se qualcuno mi serve, mi segua, e dove sono io là sarà anche il servo mio; se qualcuno mi serve il Padre onorerà lui”. Ovvero se qualcuno di voi mi serve e mi segue sulla strada della croce, io lo porterò con me, nella mia eterna gloria. Avrà tutti gli onori di casa e sarà tenuto in grande considerazione dal Padre.

Tutti noi siamo chiamati a fare una scelta FRA LA GLORIA DEL CIELO E LA GLORIA DI QUESTO MONDO: insieme non possono stare.

E dobbiamo anche schiarirci ben bene le idee sulla morte. Essa certamente è una legge biologica, certamente UN LIMITE UMANO, ma è anche il segno di una vicenda spirituale:

  • la vera morte eterna è la sterilità di chi non dà, di chi non spende la propria vita ma vuole conservarla gelosamente,
  • mentre IL DARE LA VITA FINO A MORIRE, È LA VIA DELLA VITA CHE DA’ FRUTTO a noi e per gli altri. Il cristiano che vuole essere servo del Signore, che dice di amare il Signore, deve semplicemente accogliere questa caduta, abbracciare questo nascondimento e morire… come il chicco di frumento.

Se ognuno di noi farà questo, allora non sarà MAI PIU’ solo, ma avrà Gesù accanto a sé, CHE LO PORTERÀ DOVE EGLI È, cioè nel grembo di Dio, nella vita eterna.

Questo brano non è triste, come sembra. E Gesù non vuole che lo sia. Egli vuole che da questa similitudine nasca un insegnamento alto: la morte va intesa come capacità di trasformazione in vista di un fine capace di dare senso a tutta la nostra vita.

La morte di cui parla Gesù non richiede «alcuna fuga dall’umano», e anzi è premessa di un pieno compimento degli uomini e delle donne che siamo chiamati ad essere fin dalla nostra nascita. Certo, il punto di vista rispetto al martirio di SANT’IGNAZIO DI ANTIOCHIA ci inquieta: DIVENTARE PIENAMENTE UOMO PER LUI SIGNIFICÒ DAVVERO LA MORTE FISICA, E UNA MORTE VIOLENTA.

Sant’Ignazio concepisce la sua morte come un parto «…Bello per me morire in Gesù Cristo. Lui cerco che per noi è morto; lui voglio, che per noi è risorto. Il parto per me è vicino».

Con straordinaria intuizione, Ignazio specifica in che consiste il parto della morte attraverso il martirio, cioè seguendo Gesù fino a perdere la propria vita per poter essere là dove lui stesso è «Non impeditemi di vivere, né vogliate il mio morire. Lasciatemi ricevere la pura luce. Là giunto, sarò uomo» (Lettera ai Romani 6,1-2).

Per Ignazio Gesù è il “nuovo uomo” (Lettera agli Efesini 20,1), “il perfetto uomo” (Lettera agli Smirnesi 4,2): ormai vicino al martirio, egli afferma che sta per diventare pienamente uomo grazie all’uomo nuovo e perfetto che è Gesù.

Con Sant’Ignazio possiamo dire che «Dio si è fatto uomo perfetto perché l’uomo impari a diventare uomo in Lui.

Si tratta di portare alla pienezza dell’unità l’Uomo, senza rifiutare la sua umanità, perché essa non viene mai annullata, ma unificata in Dio.

C’è un dinamismo di morte che dà vita. E c’è una morte più triste della morte fisica: la solitudine, l’abbandono.

C’è una morte vivificante perché fa crescere il seme e lo fa diventare spiga, poi pianta, poi capace di frutto.

Noi possiamo temere questo divenire, scambiandolo per una morte, e in certo modo lo è perché non siamo più quelli di prima, e allora, per paura, possiamo decidere di restare come e dove siamo.

Possiamo scegliere di non crescere, di vivere una vita che è un lento morire. C’è infatti un abbandonarci, un fidarci, sentito così rischioso che ci induce a preferire la solitudine, a restare nella morte mortifera della solitudine, dell’isolamento.

Abbiamo qui due forme di morte: la paura del cambiamento di sé che fa restare nella solitudine è la vera morte, la sterilità; l’accettazione del cambiamento di sé è la morte feconda di chi, scegliendo di cambiare, si apre alla vita e porta frutto.

Il frutto di questa morte è un dare: si diventa capaci di dare in abbondanza. La sofferenza del perdere diventa la gioiosa offerta di sé nel dare. Si diventa cioè pienamente umani, si cresce alla statura di Cristo diventando capaci di donare fino a dare la vita.

L’abbondanza del frutto dell’amore è nel dono della vita «Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici» (Gv 15,13).

E i martiri ci ricordano che proprio qui è racchiuso il senso della vita cristiana: dare la vita, perdendola per amore, per ritrovarla in una pienezza nuova, inaspettata, moltiplicata.

Come da un seme ne nascono molti, così dalla vita donata nasceranno frutti abbondanti capaci di essere cibo, gioia, futuro per molti.

È la grande alternativa davanti a cui Gesù ci pone nel Vangelo di oggi: se scegliere di smettere di vivere solo difendendo la compattezza del seme fino al punto di rimanere soli, o rischiare di mettere in discussione la compattezza della forma per far emergere la misteriosa novità che contiene.

Molta parte della nostra vita la passiamo cercando di difenderci. Abbiamo paura di metterci in gioco, perché abbiamo paura di metterci in discussione, di perdere le certezze compatte che abbiamo nella nostra testa. Ma è solo a partire da una simile perdita che potremmo vedere la nascita di qualcosa di nuovo. Gesù ci invita continuamente a morire a noi stessi, ma non perché la morte sia una cosa bella ma semplicemente perché è l’unico modo per diventare davvero se stessi.

Un seme è solo potenzialmente una spiga, ma solo quando muore lo diventa realmente. Ognuno di noi è potenzialmente felice, ma solo quando accetta di morire a sé stesso lo può anche diventare realmente “Chi ama la sua vita la perde e chi odia la sua vita in questo mondo la conserverà per la vita eterna”.

Che è un po’ come dire che chi fissa sempre lo sguardo su sé stesso non vede mai la strada e va a sbattere, ma chi sa guardare la strada arriva sempre da qualche parte e proprio per questo si ama veramente. “Se uno mi vuol servire mi segua, e dove sono io, là sarà anche il mio servo. Se uno mi serve, il Padre lo onorerà”. In fondo non è difficile quello che ci dona Gesù: non cerchiamo forse tutti qualcuno che ci indichi la strada?

Non abbiamo forse tutti bisogno di seguire le orme di qualcuno? Diversamente lasciati al caso molto spesso girovaghiamo senza mai arrivare veramente da nessuna parte. Ecco perché Gesù chiede di seguirlo: non per toglierci la libertà ma per renderla possibile, perché solo sapendo la strada si può anche sperare di arrivare alla meta.

Riprendendo, per concludere, il tema del servizio vorrei precisare che bisogna servire liberamente e per amore. Non dimenticate, Fratelli e Sorelle, CHE SERVIRE PERCHÉ SI È COSTRETTI NON GENERA GIOIA, MA SOLO TANTA TRISTEZZA.

GESÙ SI OFFRÌ AL PADRE PER LA NOSTRA SALVEZZA LIBERAMENTE E PER AMORE.

E la nostra Fede ci dice che Dio si compiace di colui che si mette al suo servizio e a servizio del prossimo con gioia.

Il cristiano che vive IN E PER GESÙ esclama “Io vivo non per essere servito, ma per servire”.

Servire è veramente dare la vita, cioè morire alle proprie comodità.

Ragioniamoci sopra……

Sia Lodato Gesù, il Cristo!