San GIOVANNI DELLA CROCE

Fra i santi ci sono molte differenze. Cioè, ci sono molti modi di essere santi anche se tutti sono accomunati dal desiderio bruciante di seguire Dio con tutte le loro forze.

La santità è un fiume che ha tanti affluenti, con tantissime inimmaginabili ramificazioni.

Alcuni santi sono più popolari di altri per ragioni storiche o devozionali che possono anche sfuggire ad una comprensione immediata, pensiamo a sant’Antonio da Padova, san Pio da Pietrelcina, santa Rita da Cascia e via dicendo.

Altri, malgrado la loro evidente grandezza, sono forse meno presenti nella devozione popolare, come quel carmelitano spagnolo che la Chiesa festeggia il 14 dicembre, San Giovanni della Croce (1540-1591), del quale oggi la Chiesa fa memoria.

Fu insieme a santa Teresa d’Avila, altra grande carmelitana spagnola, uno dei riformatori dell’ordine carmelitano. Per la profondità dei suoi scritti mistici e poetici verrà anche dichiarato Dottore della Chiesa.

«L’anima che vuole salire sul monte della perfezione deve rinunciare a tutte le cose»(Giovanni della Croce, Salita del Monte Carmelo, 1579-1585)
San Giovanni della Croce
Presbitero e dottore della Chiesa
Nascita 24 giugno 1542
Morte 14 dicembre 1591
Venerato da Chiesa cattolica e Chiesa anglicana
Beatificazione 1675
Canonizzazione 27 dicembre 1726
Ricorrenza 14 dicembre24 novembre (Forma straordinaria)
Patrono di Mistici, poeti

Giovanni della Croce, al secolo Juan de Yepes Álvarez (in spagnolo: Juan de la Cruz; Fontiveros, 24 giugno 1542Úbeda, 14 dicembre 1591), è stato un presbitero e santo spagnolo, cofondatore dell’Ordine dei Carmelitani Scalzi.

I suoi scritti vennero pubblicati per la prima volta nel 1618. Fu beatificato nel 1675 da Clemente X, proclamato santo da Benedetto XIII nel 1726 e dichiarato dottore della Chiesa da Pio XI nel 1926. La sua memoria è celebrata il 14 dicembre o il 24 novembre.

La Chiesa cattolica lo ha definito Doctor Mysticus, mentre la Chiesa anglicana lo ricorda come un “Maestro della fede“.

Pensiero

Fu poeta e teologo, autore di svariati trattati teologici riguardanti soprattutto la preghiera e il «cammino spirituale dell’anima verso Dio e in Dio».

La sua opera sintetizza la tradizione spirituale cristiana precedente.

La sua dottrina vuole che l’uomo, attraverso il passaggio nelle tre fasi («purgativa, illuminativa e unitiva») si liberi progressivamente da ogni attaccamento e da ogni senso del possesso per essere del tutto puro e libero di unirsi a Dio.

Porta il paragone per cui, se si fissa di fronte e senza schermo il sole, per la troppa luminosità l’occhio avrà l’impressione di vedere una macchia nera.

Un suo detto era: «Dio umilia grandemente l’anima per innalzarla poi molto».

Nell’immaginario collettivo la grandezza di un uomo viene misurata e ammirata non solo per come ha saputo vivere la propria avventura umana, ma anche per il modo in cui ha affrontato le ore del supremo transito dagli affanni della vita mortale “all’altra riva” quella di Dio.

Il momento della propria morte: quello delle scelte definitive, cioè della “crisi” finale, che fa paura a tutti.

Giovanni della Croce sul letto di morte, ai suoi confratelli che gli leggevano le preghiere dei moribondi, chiese qualcosa di più “allegro”: domandò espressamente qualche versetto del Cantico dei Cantici, un bellissimo e travolgente poema d’amore dell’Antico Testamento (che lui ben conosceva).

Non andava forse incontro all’Amore?

Allora ci voleva qualcosa di più appropriato. Dopo la lettura Giovanni finì il cammino terreno pregando le parole “Nelle tue mani, Signore, affido, il mio spirito”.

Cioè nelle mani di Dio Amore, per il quale era vissuto, aveva lavorato e sofferto, per quel Dio che lui aveva amato, predicato e cantato.

Alcuni anni prima aveva scritto la poesia “Rompi la tela ormai al dolce incontro”. Ecco che cosa era la morte per lui: un “dolce incontro” con Dio Amore. Aveva 49 anni tutti spesi per Dio.

Numerosi sono i riconoscimenti avuti dai posteri. Prima cosa, e non è poco, è un Santo. Ma non solo: è Dottore della Chiesa (Dottore Mistico), cioè Maestro riconosciuto nelle cose di Dio.

È un grande maestro di spiritualità valido ancora oggi.

Ha anche il merito di essere stato un valido collaboratore di Teresa d’Avila (anch’essa Santa e Dottore della Chiesa) nella Riforma Carmelitana.

Ma non basta.

Per le sue poesie si è guadagnato un posto nella letteratura spagnola. È stato riconosciuto come “il più santo dei poeti spagnoli, e il più poeta dei Santi”.

L’incontro con Teresa

Proprio per la sua intelligenza e la serietà di vita, i superiori lo inviarono a Salamanca, nella famosa Università. Qui Giovanni non solo crebbe nella conoscenza della filosofia e teologia, ma intensificò anche la propria vita spirituale, fatta di preghiera, di lunghe ore di contemplazione davanti al tabernacolo e di ascesi pratica. Si sentiva portato alla vita contemplativa ed è per questo che stava meditando di cambiare Ordine ed entrare tra i Certosini.

Ma poco prima di essere ordinato sacerdote, ecco l’incontro provvidenziale con una monaca carmelitana di nome Teresa di Gesù, di quasi trent’anni più di lui.

Questa era una donna dalla forte personalità arrivata ormai alla piena maturità spirituale.

Vi era giunta attraverso un lungo travaglio vocazionale e spirituale e proprio in quegli anni stava lavorando con successo alla riforma delle Carmelitane.

In quel periodo stava anche pensando di estendere la riforma al ramo maschile dell’Ordine.

Questo era molto importante per Teresa, perché gli uomini potevano legare la contemplazione del mistero di Dio alla missione.

Potevano lavorare cioè non solo alla propria santificazione nel chiuso del convento ma anche per quella degli altri.

Teresa espose a Giovanni il proprio progetto di riforma e gli chiese nello stesso tempo di soprassedere alla decisione di cambiare ordine. E questi accettò.

Giovanni (che da questo momento si chiamerà Giovanni della Croce) iniziava così una forma di vita religiosa, condividendo con Teresa l’ideale di riforma della vita carmelitana. Anzi fu lei stessa a cucirgli il primo saio di lana grezza.

Nascevano così i Carmelitani Scalzi.

In prigione a pane e acqua

Nel 1572, Teresa venne nominata priora del grande convento di Avila (non riformato), con 130 monache, alcune delle quali erano poco sante e molto turbolente.

E volle accanto a sé per la loro rieducazione spirituale proprio Giovanni della Croce: confessore e direttore spirituale delle monache.

I risultati spirituali furono brillanti grazie all’opera congiunta dei due santi riformatori.

Ma nello stesso tempo, erano cresciuti anche i rancori e l’opposizione di alcuni carmelitani non riformati, che remavano contro questa riforma.

E ben presto si fecero sentire, duramente e dolorosamente, attraverso un tragico intreccio fatto di incomprensioni, giochi di potere, dispute sulla giurisdizione religiosa, ambizioni personali mascherate da argomenti teologici e difficoltà di comunicazione (lettere in ritardo).

Ma mentre Teresa (che aveva protettori molto in alto, addirittura in Filippo II) non venne toccata, la cattiveria umana si scatenò contro il povero Giovanni.

Per ordine superiore, sotto l’accusa di essere un frate ribelle e disobbediente, fu arrestato e incarcerato in un convento a Toledo.

Gli lasciarono in mano solo il breviario.

Fu maltrattato, umiliato e segregato in un’angusta prigione, con poca luce e molto freddo.

Nove mesi di prigione: a pane e acqua (e qualche sardina), con una sola tonaca che gli marciva addosso, con il supplemento della flagellazione ogni venerdì nel refettorio davanti a tutti.

Divorato dalla fame e dai pidocchi, consumato dalla febbre e dalla debolezza, dimenticato da tutti.

Ma non da Teresa (che protestò vigorosamente anche in alto, ma invano) e tanto meno da Dio.

Sì Dio non solo non lo aveva dimenticato, anzi era sempre stato con lui, con la sua grazia.

Giovanni sapeva che anche nella notte della prigione Dio era nel suo cuore, presentissimo in ogni istante.

E il miracolo avvenne. In una situazione che per molti versi e per molte persone poteva essere di collasso psico-fisico e di naufragio spirituale, Giovanni della Croce compose, con materiale biblico, le più calde e trascinanti poesie d’amore, ricche di sentimenti, di immagini e di simboli.

Vivendo in Dio e di Dio anche in quelle circostanze, egli attingeva così a Lui, fonte perenne di ogni novità e creatività, “anche se attorno era notte”.

Maestro di vita spirituale

Alla vigilia dell’Assunta del 1578, fuggì coraggiosamente dal carcere, rischiando seriamente la vita, qualora fosse stato preso.

Le sofferenze inaudite di 9 mesi di carcere non furono vane.

Infatti, due anni dopo, i Carmelitani Scalzi ottennero il riconoscimento da Roma, che significava autonomia.

Giovanni della Croce era finalmente libero di espletare il suo ministero con tutte le sue qualità di cui era dotato, influendo positivamente tutti: confratelli e monache Carmelitane (e molti laici) che lo conobbero o che lo ebbero come superiore o come confessore e direttore spirituale, negli anni seguenti fino alla morte.

Fu inviato anche al sud della Spagna, in Andalusia, dove il clima, la natura, l’assenza di contrasti e il successo della riforma di Teresa di Gesù (e sua) gli diedero il tempo e l’ispirazione per comporre la maggior parte delle opere di spiritualità, tanto da farne uno dei grandi maestri nella Chiesa.

Tra i suoi scritti ricordiamo, oltre il già citato Cantico Spirituale in poesia, la Salita al Monte Carmelo e la Notte Oscura.

Pur avendo una solida formazione filosofica e teologica (il che lo aiutava certamente), ciò che Giovanni ha scritto non è tanto il risultato di sistematiche ricerche in biblioteca quanto il frutto della propria esperienza ascetica e spirituale.

Due tappe per crescere

È stato ed è un maestro di mistica perché fu lui stesso, nelle vicende gioiose e tristi della sua vita, un mistico.

La fatica della salita del monte del Signore e la notte oscura delle difficoltà spirituali in questa aspra ascesa Giovanni le conosceva per esperienza.

Ora, da essa arricchito e maturato, la proponeva agli altri, a noi.

Per Giovanni della Croce l’uomo è essenzialmente un essere in cammino, in perenne ricerca: di Dio naturalmente, essendo stato fatto da Lui e per Lui.

Questo ritorno verso Dio egli lo immagina come la salita di una montagna, il Monte Carmelo, che rappresenta simbolicamente la vetta mistica, cioè Dio stesso nel suo amore e nella sua gloria.

Per arrivare alla meta che è l’unione d’amore trasformante con Dio (o santità cristiana) l’uomo deve affrontare con coraggio e pazienza due tappe:

  1. della educazione dei sensi (notte dei sensi)
  2. e del rinnovamento del proprio spirito (notte dello spirito)

ambedue esperienze misteriose e dolorose di spoliazione interiore.

Con la notte dei sensi (attraverso un duro ed esigente impegno ascetico) l’anima si libera:

  • dall’attaccamento disordinato catturante e spiritualmente paralizzante delle cose sensibili,
  • dal modo di giudicare e di scegliere basati sul proprio egoismo e sul proprio interesse immediato, sull’utilitarismo quotidiano nei rapporti interpersonali, sulle comodità di ogni genere e sull’abbondanza superba e gaudente.

L’uomo dei sensi è quello totalmente prigioniero di un’unica prospettiva, quella terrena, difficilmente capirà le esigenze di Dio e del Vangelo.

Con la notte dello spirito invece ci si affranca dalle false certezze e dai falsi assoluti della propria intelligenza, affidandosi così totalmente e liberamente a Dio, attraverso l’esercizio delle virtù teologali, quali la fede e la speranza in Cristo, e la carità verso Dio e il prossimo.

Si tratta del passaggio doloroso e lungo tanto che può durare tutta la vita dall’uomo “vecchio” all’uomo “nuovo”, da quello “terreno” a quello “spirituale”, da quello mosso dall’egoismo (la carne) a quello sospinto e motivato dallo Spirito, di cui parla San Paolo: un morire per rinascere in Cristo.

Farsi nulla per Dio per essere tutto in Lui

Giovanni della Croce parla:

  • di rinunce, di lasciare tutto, di nulla (quali sono le cose rispetto a Dio),
  • di salita,
  • di notte oscura,
  • tutta una terminologia che caratterizza la vita spirituale secondo lui come un lavoro (di auto correzione e autocontrollo nelle proprie azioni e decisioni),
  • un impegno serio, una fatica dura, una ascesi costosa, graduale e continua… che non si può realizzare dall’oggi al domani.

Giovanni della Croce non comprende (e scoraggia) quelli che “scalpitano tanto… che vorrebbero essere santi in un giorno”.

Non è possibile. Allora come oggi.

Egli afferma che se l’anima vuole il Tutto (Dio), deve impegnarsi a lasciare tutto e a voler essere niente: “Per giungere dove non sei, devi passare per dove non sei. Per giungere a possedere tutto, non volere possedere niente. Per giungere ad essere tutto, non volere che essere niente”.

Naturalmente per Giovanni la parola più importante in questo discorso spirituale non è rinuncia ma amore.

Per lui non si tratta tanto di lasciare o rinunciare a qualcosa ma di amare Qualcuno.

Egli invita a lasciare amori piccoli per un amore più grande anzi per l’Amore Totale che è Dio Trinità.

Amore è la parola decisiva: amore di Dio per noi, amore della creatura per Dio, visto come risposta alla nostra ricerca di amore, fino a consumarsi nel Dio Amore (unione sponsale o mistica).

E Giovanni della Croce si è consumato nell’amore per Dio Amore fino alla fine che arrivò il 14 dicembre 1591 in Andalusia, a Ubeda.

Ad una monaca che gli aveva scritto accennando alle difficoltà che egli aveva sofferto rispose: “Non pensi ad altro se non che tutto è disposto da Dio. E dove non c’è amore, metta amore e ne riceverà amore”.

Un consiglio decisamente valido ancora oggi, per tutti.

E ci avviamo alla conclusione…. Con una piccola riflessione…

Ci sembra difficile comprendere come si possa trovare gioia nelle avversità della vita, avversità che Giovanni conobbe, compreso un imprigionamento e torturata durati molti mesi.

Eppure bisogna comprendere che chi ascende alle vette della mistica come lui, come Teresa d’Avila e come un’altra grande carmelitana più vicina a noi, santa Teresa del Bambin Gesù e del Santo Volto, vive su un piano diverso rispetto al vivere comune, un piano in cui le prospettive sono diverse, a volte opposte, rispetto a quelle del mondo.

 

Nella sua “Salita al Monte Carmelo” Giovanni della Croce meditava:

«L’anima cerchi sempre di inclinarsi: non al più facile, ma al più difficile; non al più saporoso, ma al più insipido; non a quello che piace di più, ma a quello che piace di meno;

non al riposo, ma alla fatica;

non al conforto, ma a quello che non è conforto;

non al piú, ma al meno; non al piú alto e pregiato, ma al piú vile e disprezzato;

non alla ricerca di qualche cosa, ma a non desiderare niente;

non alla ricerca del lato migliore delle cose create, ma del peggiore e a desiderare nudità, privazioni e povertà di quanto v’è al mondo per amore di Gesù Cristo».

Non sembra tutto opposto rispetto a quello che il mondo ci suggerisce?

Eppure solo attraverso questo tipo di mortificazione, possiamo silenziare i sensi in modo che la voce di Dio possa essere udita cessato il frastuono delle nostre passioni.

Altri suoi avvisi nella stessa opera, che certamente possono sorprenderci se visti con gli occhi del mondo:

«Per giungere a gustare il tutto, non cercare il gusto in niente.

Per giungere al possesso del tutto, non voler possedere niente.

Per giungere ad essere tutto, non voler essere niente.

Per giungere alla conoscenza del tutto, non cercare di sapere qualche cosa in niente.

Per venire a ciò che ora non godi, devi passare per dove non godi.

Per giungere a ciò che non sai, devi passare per dove non sai.

Per giungere al possesso di ciò che non hai, devi passare per dove ora niente hai.

Per giungere a ciò che non sei, devi passare per dove ora non sei».

Certo, quali altezze vertiginose!

Ecco un sano relativismo, quello che mette tra parentesi le cose umane, le cose a cui non possiamo fare a meno di provare attaccamento, la nostra vita, salute, i piaceri.

In una omelia per la celebrazione della parola tenuta il 4 novembre 1982 in Segovia, papa Giovanni Paolo II così parlava di san Giovanni della Croce: «Con questa insistenza sulla purezza della fede, Giovanni della Croce non vuol negare che la conoscenza di Dio si possa raggiungere gradualmente partendo dalle creature, come insegna il libro della Sapienza e ripete san Paolo nella Lettera ai Romani (cf. Rm 1, 18-21; cf. S. Giovanni della Croce, Cantico spirituale, 4, 1).

Il dottore mistico insegna che nella fede è anche necessario privarsi delle creature, sia di quelle che si percepiscono per mezzo dei sensi che di quelle che si raggiungono con l’intelletto, per unirsi in una maniera conoscitiva con lo stesso Dio.

Questa via che conduce all’unione, passa attraverso la “notte oscura” della fede».

La notte oscura, questo concetto che dopo Giovanni della Croce ha attraversato la vita di tanti altri cristiani.

Dall’interpretazione di questa “notte oscura” dipendono i sentieri della nostra santità.

Lo stesso Giovanni Paolo II, nella sua Lettera Apostolica Maestro della fede (1990), così affermava: «Solo Gesù Cristo, Parola definitiva del Padre, può rivelare agli uomini il mistero del dolore e illuminare con i raggi della sua croce gloriosa le più tenebrose notti del cristiano.

Giovanni della Croce, conseguente con le sue affermazioni intorno a Cristo, ci dice che Dio, dopo la rivelazione del suo Figlio, “è rimasto quasi come muto non avendo altro da dire”.

Il silenzio di Dio ha la sua più eloquente parola rivelatrice di amore nel Cristo crocifisso.

Giovanni della Croce ci invita a contemplare il mistero della Croce di Cristo, come lui lo faceva abitualmente.

Sul mistero dell’abbandono di Cristo nella croce scrisse una delle pagine più sublimi della letteratura cristiana.

Cristo visse la sofferenza in tutto il suo rigore fino alla morte di croce. Su di lui si concentrarono negli ultimi momenti le forme più dure del dolore fisico, psicologico e spirituale: “Dio mio, Dio mio! perché mi hai abbandonato?” (Mt 27, 46).

Questa sofferenza atroce, causata dall’odio e dalla menzogna, ha un profondo valore redentore.

Era ordinata a che “semplicemente pagasse il debito e unisse l’uomo a Dio”.

Con la sua consegna amorosa al Padre, nel momento del più grande abbandono e dell’amore più grande, “compì l’opera più meravigliosa di quante ne avesse compiute in cielo e in terra durante la sua esistenza terrena ricca di miracoli e di prodigi, opera che consiste nell’aver riconciliato e unito a Dio, per grazia, il genere umano”.

Il mistero della Croce di Cristo svela così la gravità del peccato e la immensità dell’amore del Redentore dell’uomo».

Alla luce di queste parole e dell’insegnamento di san Giovanni della Croce si comprendono anche quelle – inaudite – di santa Teresa di Lisieux, che affermava di amare la sofferenza.

No, umanamente non possiamo e non dobbiamo amare la sofferenza, questo è possibile solo quando illuminata da una luce più grande.

Nelle sue opere, san Giovanni della Croce anche affermava: «Quando ti fermi su qualche cosa, tralasci di slanciarti verso il tutto.

E quando tu giunga ad avere il tutto, devi possederlo senza voler niente, poiché se tu vuoi possedere qualche cosa del tutto, non hai il tuo solo tesoro in Dio».

Fratelli e sorelle, impariamo allora a trascorrere il nostro tempo meditando questi grandi santi, piuttosto che a pensare a cose inutili. Questo ci aiuterà a camminare più speditamente nelle vie del bene e della santità, invece di stare sempre a lamentarci per cose futili e prive di senso.