SAN BERNARDO VENERDI’ XX^ SETTIMANA T.O.- Matteo 22,34-40 Amerai il Signore tuo Dio, e il tuo prossimo come te stesso

… il VECCHIO FARISEO COMMENTA….

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Dal Vangelo secondo Matteo 22,34-40

In quel tempo, i farisei, avendo udito che Gesù aveva chiuso la bocca ai sadducèi, si riunirono insieme e uno di loro, un dottore della Legge, lo interrogò per metterlo alla prova «…Maestro, nella Legge, qual è il grande comandamento?».
Gli rispose «“…Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente”. Questo è il grande e primo comandamento. Il secondo poi è simile a quello “…Amerai il tuo prossimo come te stesso”. Da questi due comandamenti dipendono tutta la Legge e i Profeti». Parola del Signore

 

Mediti…AMO

Oggi la Chiesa fa Memoria di Bernardo (Digione, Francia, 1090 – Chiaravalle-Clairvaux 20 agosto 1153), dopo Roberto, Alberico e Stefano, fu padre dell’Ordine Cistercense.

L’obbedienza e il bene della Chiesa lo spinsero spesso a lasciare la quiete monastica per dedicarsi alle più gravi questioni politico-religiose del suo tempo.

Maestro di guida spirituale ed educatore di generazioni di santi, lascia nei suoi sermoni di commento alla Bibbia e alla liturgia un eccezionale documento di teologia monastica tendente, più che alla scienza, all’esperienza del mistero. Ispirò un devoto affetto all’umanità di Cristo e alla Vergine Madre.

Per chi vuole conoscere la vita straordinaria di questo gigante della Fede, rimando al mio sito: www.insaeculasaeculorum.it

Ma veniamo al nostro testo matteano…

Gesù ha molti nemici, e anche di “alto rango”:

  • i farisei che si sentono giudicati e presi in giro per il loro eccessivo zelo e il loro senso di superiorità;
  • i sadducei, conservatori aristocratici, che temono disordini che possano dispiacere ai romani;
  • i sacerdoti, rinati grazie alla ricostruzione del tempio, che vedono con fastidio chiunque attenti alla loro autorità;
  • gli scribi, riconosciuti come interpreti autentici della Torah, che mal sopportano questo profeta che non ha studiato…
  • gli erodiani, partigiani di Erode… 

Si fa a gara per mettere in difficoltà Gesù. I sadducei sono stati ampiamente umiliati.

Tutti ora vogliono che la sua voce taccia, che le sue parole non siano ascoltate, che i suoi gesti siano puniti, e per questo saranno disposti a condannarlo e a procurargli la morte.

Ora tocca ai perushim, i puri, ovvero i farisei, che mandano a interrogare Gesù nientemeno che un dottore della Legge, uno che ha studiato la Legge di Dio. Un teologo, diremmo noi.

Ma occorre assolutamente vincere, umiliare l’ignorante Nazareno, attraverso il trucco più vecchio del mondo: una domanda, utile a metterlo in difficoltà, per misurare la sua supposta poca dimestichezza con le sottigliezze dottrinali.

Ma Gesù È IL VERBO DI DIO e noi tutti conosciamo la splendida risposta che darà, che non è affatto superficiale.

Però, Fratelli e Sorelle, che tristezza vedere utilizzare la Scrittura con il preciso intento di mettere in difficoltà, di umiliare, invece che di usarla per lo scopo che Dio ha in mente. Ovvero per illuminare e convertire.

Stiamo attenti a non commettere anche noi lo stesso madornale errore, usandola all’interno della Chiesa, solo per creare divisioni e malintesi, ma solo per unire e amare.

Comunque questo Dottore della Legge non è come il falegname di Nazareth, che senza “titoli ed esami” come –diremmo nel terzo millenniosi è improvvisato profeta, e, peggio ancora, senza appartenere ad uno dei movimenti AUTORIZZATI dell’epoca.

La domanda è una di quelle classiche, che servivano a sondare la preparazione dell’interrogando: degli oltre seicento precetti contenuti dell’ANTICO TESTAMENTO, qual è il principale?

Domanda trabocchetto, diremmo noi, PERCHÉ BEN SAPPIAMO CHE PER UN FARISEO ERANO TUTTI UGUALMENTE IMPORTANTI E CHI NON LI RISPETTAVA ERA DANNATO.

Diversa la posizione dei rabbini più illuminati, contemporanei di Gesù, che rispondevano, a grandi linee, quanto risposto dal Maestro. Due sono i comandi: AMARE DIO E AMARE IL PROSSIMO.

La domanda, però, oltreché essere insidiosa, è anche pertinente, perché nel giudaismo rabbinico la Legge aveva assunto un posto centrale all’interno della rivelazione scritta: infatti i primi cinque libri biblici erano i più studiati e meditati, con un primato su tutti gli altri, quelli dei profeti e dei sapienti.

E IN QUESTO STUDIO DELLA TORAH I RABBINI AVEVANO INDIVIDUATO, OLTRE ALLE DIECI PAROLE DATE DA DIO A MOSÈ (Es 20,2-17; Dt 5,6-22), 613 PRECETTI, come spiega un testo della tradizione ebraica:

Rabbi Simlaj disse

  • “…Sul monte Sinai a Mosè sono stati enunciati 613 comandamenti: 365 negativi, corrispondenti al numero dei giorni dell’anno solare, e 248 positivi, corrispondenti al numero degli organi del corpo umano … Poi venne David, che ridusse questi comandamenti a 11, come sta scritto [nel Sal 15] … Poi venne Isaia che li ridusse a 6, come sta scritto [in Is 33,15-16] … Poi venne Michea che li ridusse a 3, come sta scritto: ‘Che cosa ti chiede il Signore, se di non praticare la giustizia, amare la pietà, camminare umilmente con il tuo Dio?’ (Mi 6,8) … Poi venne ancora Isaia e li ridusse a 2, come sta scritto: ‘Così dice il Signore: Osservate il diritto e praticate la giustizia’ (Is 56,1) … Infine venne Abacuc e ridusse i comandamenti a uno solo, come sta scritto: ‘Il giusto vivrà per la sua fede’ (Ab 2,4; Rm 1,17; Gal 3,11)” (Talmud babilonese,Makkot 24a).

Questa la risposta rabbinica alla questione su come semplificare i precetti della Legge, su quale comandamento meritasse il primato.

La frantumazione della Legge aveva fatto degenerare in uno sterile formalismo fanatico la religiosità del popolo d’Israele.

Gesù non si pone all’interno di questa casistica, ma va al fondamento della vita del credente. Innanzitutto cita lo Shema‘ Jisra’el, il comandamento che il credente ebreo ripeteva e ripete tre volte al giorno “…Ascolta, Israele: il Signore è il nostro Dio, il Signore è uno solo. Tu amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua vita e con tutta la tua mente” (Dt 6,4-5). Poi chiosa “…Questo è il grande e primo comandamento”.

Ma subito va oltre, accostando al comandamento dell’amore per Dio quello dell’amore per il prossimo, dato senza paralleli nella letteratura giudaica antica “…Amerai il prossimo tuo come te stesso” (Lv 19,18).

Risalendo alla volontà del Legislatore, Gesù discerne che amore di Dio e del prossimo sono in una relazione inscindibile tra loro: la Legge e i Profeti sono riassunti e dipendono dall’amore di Dio e del prossimo, non l’uno senza l’altro.

Non a caso nel nostro testo il secondo comandamento è definito pari al primo, con la stessa importanza, lo stesso peso, mentre l’evangelista Luca li unisce addirittura in un solo grande comandamento “…Amerai il Signore Dio tuo … e il prossimo tuo” (Lc 10,27).

Gesù compie un’audace e decisiva innovazione, e lo fa con l’autorità di chi sa che non si può amare Dio senza amare il fratello, la sorella.

Lo esprimerà un suo discepolo, Giovanni, riprendendo l’insegnamento di Gesù “…Se uno dice: ‘Io amo Dio’ e odia suo fratello, è un bugiardo. Chi infatti non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede. E questo è il comandamento che abbiamo da lui: chi ama Dio, ami anche suo fratello” (1Gv 4,20-21).

MA GESU’ NON CI CASCA E FA FELICI E PIENI DI GIOIA GLI ULTIMI DELLA TERRA, I PERDENTI, I PECCATORI, LE FOLLE, GLI ANAWIM, PERCHÉ, PER LA PRIMA VOLTA, SI SENTONO ACCOLTI, CAPISCONO LA PAROLA, INTRAVVEDONO CHE IN QUESTO “FIGLIO DEL FALEGNAME” C’E’ MOLTO DI PIU’: C’E’ IL SORRISO DI DIO, C’E’ DIO STESSO.

Anche noi possiamo commettere l’errore di avvicinarci a Gesù col cuore colmo di pregiudizi, come i farisei, gli scribi, i sadducei, i sacerdoti, credendo di sapere già tutto E DI NON AVER BISOGNO DI NULLA DA DIO, perché in cuor comune diciamo “… in fondo, io mi sono fatto da solo”.

E peggio ancora succede quando, nei confronti della Chiesa e dei cristiani, che consideriamo semplicemente “impresentabili“, abbiamo lo stesso atteggiamento e non riconosciamo in essa IL LUOGO PRIVILEGIATO NELL’INCONTRO COL CRISTO, CHE IN OGNI CELEBRAZIONE LITURGICA SI OFFRE ANCORA SULL’ALTARE DEL GOLGOTA, PER NOI.

E così facendo, col cuore serrato, non sentiamo la voce del Signore che ci parla di amore…

Egli è amore nella sua essenza, egli è il nostro Creatore e Signore, ci ha creati per sé, per amore legandoci a sé con vincoli indissolubili da vivere, sperimentare e godere nel tempo e nell’eternità.

E ci ha insegnato che il Creatore e la SUA creatura, come genitore e figlio, istintivamente, salvo TRISTI DEVIAZIONI, sono uniti dall’amore.

Quando poi prendiamo coscienza che quell’amore si spinge fino all’immolazione, al dono della vita fino alla morte, il bisogno di ricambiare quell’immenso dono diventa urgenza insopprimibile. E questo avviene grazie allo Spirito Santo che vive in noi.

E così facendo, passiamo dalla somiglianza connaturale con Dio, impressa in noi con la creazione, a quella soprannaturale scaturita dalla redenzione.

Non siamo quindi più schivi nè estranei di Dio, ma FIGLI ed EREDI e come tali abbiamo l’onore e il PRIVILEGIO di chiamarlo con l’appellativo di PADRE. E ne discende che in LUI ci scopriamo anche FRATELLI, ESSENDO FIGLI DELL’UNICO SIGNORE CHE STA NEI CIELI.

Accomunati dall’unica fede, amati dall’unico Padre, in cammino verso di LUI, INSIEME, COME UMANITÀ E COME CHIESA, LA NOSTRA FRATERNITÀ NON PUÒ NON ESSERE VISSUTA CHE NELL’AMORE, IN DIO, NOSTRO PADRE, PADRE DI TUTTI.

Mi rendo conto che questo fatto dell’immagine e somiglianza non è facile da capire…

Proviamo a far chiarezza:

Nell’ultimo giorno della creazione, Dio disse “…Facciamo l’uomo a nostra immagine, conforme alla nostra somiglianza” (Genesi 1,26).

In tal modo, Egli completò la Sua opera con un “tocco personale”. Dio formò l’uomo dalla polvere e CON L’UOMO CONDIVISE IL SUO STESSO RESPIRO (Genesi 2,7). Solo con lui lo fece e quindi l’uomo è l’unico fra tutte le creature di Dio, che avendo sia una parte materiale (il corpo) sia una parte immateriale (l’anima/lo spirito), CONDIVIDE IL RESPIRO DI DIO.

Avere l’“immagine” o la “somiglianza” di Dio significa che siamo stati fatti per assomigliare a Dio. Ovvio… Adamo non assomigliava a Dio nel senso che Dio avesse carne e sangue.

La Scrittura dice che “Dio è Spirito” (Giovanni 4,24) e, pertanto, che esiste senza un corpo. Tuttavia, il corpo di Adamo rispecchiava davvero la vita di Dio, tanto che fu creato in perfetta salute e non era soggetto alla morte.
L’immagine di Dio si riferisce alla parte immateriale dell’uomo
. Separa l’uomo dal mondo animale, rendendolo idoneo al “dominio” voluto da Dio (Genesi 1,28) e dandogli la capacità di avere comunione col suo Creatore. Potremmo argomentare, con le nostre categorie, che è una somiglianza a livello mentale, morale e sociale.

A LIVELLO MENTALE, L’UOMO È UNA CREATURA RAZIONALE E VOLITIVA, CIOÈ PUÒ RAGIONARE E PUÒ SCEGLIERE. E QUESTO CERTAMENTE È UN RIFLESSO DELL’INTELLETTO E DELLA LIBERTÀ DI DIO.

Ogniqualvolta qualcuno inventi, scriva, dipinga, ascolti una sinfonia, calcoli o dia il nome, sta dichiarando, RENDENDO IMMEDIATAMENTE VISIBILE, IL FATTO CHE SIAMO STATI CREATI A IMMAGINE DI DIO.
A livello morale, l’uomo fu creato nella giustizia e nella perfetta innocenza: un riflesso della santità di Dio.

Dio vide che tutto quello che aveva fatto (l’umanità inclusa) era “molto buono” (Genesi 1,31). La nostra coscienza appartiene alle caratteristiche di quello stato originario.

Ogniqualvolta qualcuno emani una legge, rifugga dal male, lodi il buon comportamento o si senta colpevole, sta confermando il fatto che siamo stati creati alla stessa immagine di Dio.

A livello sociale, l’uomo fu creato per la comunione (erano due…).

Questo riflette la natura trinitaria di Dio e del Suo amore.

In Eden, la principale relazione dell’uomo era con Dio (Genesi 3,8 implica la comunione con Dio), e Dio creò la prima donna perché “non è bene che l’uomo sia solo” (Genesi 2:18).

Ogni qualvolta qualcuno si sposi, instauri un’amicizia, stringa fra le braccia un bambino o frequenti una chiesa, sta mostrando il fatto che siamo stati creati a somiglianza di Dio.

Parte dell’essere creati a immagine di Dio significa che Adamo aveva la capacità di fare libere scelte. Sebbene gli fosse stata data una natura giusta, Adamo fece la scelta malvagia di ribellarsi al suo Creatore.

Così facendo, Adamo rovinò l’immagine di Dio dentro di sé e tramandò quella somiglianza danneggiata a tutti i suoi discendenti, noi inclusi (lo scrive Paolo ai Romani 5,12). E nei secoli dei secoli, noi portiamo ancora l’immagine di Dio (Giacomo 3,9), e portiamo anche le cicatrici del peccato.

A livello mentale, morale, sociale e fisico, ne mostriamo gli effetti.

La buona notizia è che, quando Dio redime un individuo, comincia a restaurare l’immagine originaria di Dio, creando “l’uomo nuovo che è creato a immagine di Dio nella giustizia e nella santità” (Efesini 4,24 e anche Colossesi 3,10).

Certo Gesù chiarirà abbondantemente anche il concetto di “prossimoda amare, perché sa che l’uomo di ogni tempo tenta sempre di trovare alibi e scusanti per non amare (attraverso l’orgoglio, la superbia, l’invidia…).

Ai tempi di Gesù il prossimo era SOLO chi apparteneva al proprio popolo eletto. Si aggiungeva l’impegno a non maltrattare vedove e orfani (le categorie allora più deboli e indifese) e a non molestare gli stranieri. Ma da qui ad amare tutte queste categorie ce ne corre.

Gesù arriverà a togliere ogni confine e ogni scusante al concetto di “prossimo”:

  • la parabola del buon Samaritano che ci insegna che il prossimo è colui a cui noi ci facciamo vicini, solidali, attenti. Gesù arriverà a chiedere ciò che sembra impossibile “amare anche i nemici”, misura smisurata di un amore che non esclude nessuno, neanche chi ci fa del male.

Gesù lo ha fatto, i Santi lo hanno fatto.

Io ho una amarezza, Fratelli e Sorelle. Perché va detto con chiarezza: tutto va a rotoli perché il nostro rapporto con Dio è esposto al rischio dell’idolatria. Perché NOI Dio lo riduciamo a un oggetto del nostro amore.

E AMIAMO UN’IMMAGINE DI DIO CHE NOI ABBIAMO PLASMATO, e che rende Dio UN IDOLO, UNA NOSTRA IDEA “COSTRUITA” A TAVOLINO SU MISURA DEI NOSTRI DESIDERI, non il Dio vivente che si è rivelato a noi IN CRISTO!

Certo, in quanto esseri umani abbiamo bisogno di esprimere l’amore per Dio anche con il linguaggio del desiderio che abita IN NOI.

Dobbiamo però sempre ricordare l’essenziale: noi aneliamo all’abbraccio con il Signore, con il Dio vivente, ma egli entra in una relazione intima, penetrante, conoscitiva con noi, nella misura in cui lo ascoltiamo, e dunque facciamo la sua volontà.

INSOMMA, DIO VA AMATO AMANDO GLI ALTRI COME LUI LI AMA.

L’AMORE PER GLI ALTRI È CIÒ CHE RENDE VERO IL NOSTRO AMORE PER DIO, È L’UNICO LUOGO RIVELATIVO, L’UNICO SEGNO OGGETTIVO CHE NOI SIAMO DISCEPOLI DI GESÙ, E DUNQUE AMIAMO GESÙ E AMIAMO DIO.

Gesù stesso lo ha affermato in modo CHIARISSIMO “…Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri” (Gv 13,35).

E l’amore di Dio mette in pratica “il comandamento nuovo”, cioè quello ultimo e definitivo, lasciatoci da Gesù “Amatevi gli uni gli altri come io vi ho amati” (Gv 13,34; 15,12). La verità dell’amore di desiderio per Dio sta dunque nell’amore di chi realizza concretamente la sua volontà “Dio nessuno l’ha mai contemplato: se ci amiamo gli uni gli altri, Dio rimane in noi e in noi il suo amore è giunto a pienezza” (1Gv 4,12).

Ecco la “riduzione” che il Dottore della legge cercava, ma io credo che non abbia nemmeno intravvisto…

E concludo, chiedendovi perdono per avervi tediato così a lungo, abusando del vostro amore per me.

MA PERCHÉ AMARE, E CON TUTTO ME STESSO?

PERCHÉ L’AMORE È UNA SCHEGGIA INFUOCATA, IMPAZZITA, CHE PROMANA DALL’ESSENZA DI DIO.

Perché Dio-Amore è l’energia fondamentale del cosmo, “amor che muove il sole e l’altre stelle”, e amando entri nel motore caldo della vita, a fare le cose che Dio fa.

È il mio omaggio a San Bernardo, di cui oggi facciamo memoria e che compare nel CANTO XXXIII del PARADISO (ove Dante ha la VISIONE DI DIO). Aveva cominciato così nel primo canto, finisce così nell’ultimo: vuol capire, vuol conoscere; e perciò indaga la natura stessa di Dio, cioè la natura dell’essere, la natura dell’uomo e della realtà. Ha chiesto, ha fatto chiedere da Beatrice e da san Bernardo la grazia di poterlo fare, e la grazia gli viene concessa. […]

E io ch’al fine di tutt’ i disii
appropinquava, sì com’ io dovea,
l’ardor del desiderio in me finii.

E io che stavo per arrivare al compimento di tutti i miei desideri, così come era necessario che io facessi, «l’ardor del desiderio in me finii». Che non vuol dire che l’ardore del desiderio è finito, si è spento; al contrario, finire nel senso di portare a termine, compiere: l’ardore del desiderio arrivò al culmine, raggiunsi l’apice del desiderio.

Bernardo m’accennava, e sorridea,
perch’io guardassi suso; ma io era
già per me stesso tal qual ei volea:

Bernardo, che dagli sguardi di Maria ha capito che è andata bene, che la richiesta è stata accolta, fa un cenno a Dante con un sorriso come per dirgli: è andata, hai il permesso, tira su la testa e guarda. Ma io «era / già per me stesso tal qual ei volea», avevo già capito tutto anch’io e avevo già fatto quel che diceva

ché la mia vista, venendo sincera,
e più e più intrava per lo raggio
de l’alta luce che da sé è vera.

«L’alta luce che da se è vera» è Dio. E succede una cosa straordinaria: Dante alza la testa e guarda Dio, e più lo guarda e più l’oggetto dello sguardo cambia, si trasforma. O meglio, non è Dio che cambia, Lui è sempre lo stesso; ma è la vista di Dante che, «venendo sincera», purificandosi, diventando quel che deve essere, «più e più intrava», vede sempre più a fondo, scopre aspetti via via diversi. Si è compiuta la grazia che era stata chiesta: «perché tu ogne nube li disleghi» (v. 31), che tu liberi il suo sguardo da ogni nuvola aveva chiesto san Bernardo alla Madonna. Così la sua vista, diventando sempre più «sincera», cioè più acuta, più limpida, comprende aspetti del mistero di Dio sempre più profondi.

Da quinci innanzi il mio veder fu maggio
che ’l parlar mostra, ch’a tal vista cede,
e cede la memoria a tanto oltraggio.

Da qui in avanti «il mio veder», quel che ho visto, «fu maggio», è stato infinitamente maggiore «che ’lparlar mostra», di quel che riesco a dire con le parole: davanti a una vista simile la parola cede, e cede la memoria «a tanto oltraggio», colpita da una cosa tanto più grande della sua povera capacità umana. Insomma, Dante dice: abbiate pazienza, riesco a dire quel che riesco, provateci voi a vedere Dio e poi a raccontarlo…

E, io, Fratelli e Sorelle, nella mia infinita ignoranza, voglio provare, giorno dopo giorno, a raccontavi il nostro Dio…

Ragioniamoci sopra…

Sia Lodato Gesù, il Cristo!