SABATO 4^ SETTIMANA DI PASQUA SAN GIUSEPPE LAVORATORE – Mt 13,54-58 Non è costui il figlio del falegname?
… il VECCHIO FARISEO COMMENTA….
Dal Vangelo secondo Matteo 13,54-58
In quel tempo Gesù, venuto nella sua patria, insegnava nella loro sinagoga e la gente rimaneva stupita e diceva «Da dove gli vengono questa sapienza e i prodigi? Non è costui il figlio del falegname? E sua madre, non si chiama Maria? E i suoi fratelli, Giacomo, Giuseppe, Simone e Giuda? E le sue sorelle, non stanno tutte da noi? Da dove gli vengono allora tutte queste cose?». Ed era per loro motivo di scandalo. Ma Gesù disse loro «Un profeta non è disprezzato se non nella sua patria e in casa sua». E lì, a causa della loro incredulità, non fece molti prodigi. Parola del Signore
Mediti…AMO
Si ricorda oggi San Giuseppe, il padre terreno di Gesù, nella sua veste di falegname, a testimonianza del fatto che anche il lavoro umile può rendere l’uomo partecipe del progetto divino della salvezza.
La sua Festa fu istituita da Pio XII il Primo Maggio del 1955 per aiutare i lavoratori a non perdere il senso cristiano del lavoro.
Ma già Pio IX aveva in qualche modo riconosciuto l’importanza di San Giuseppe come lavoratore quando proclamò il santo, PATRONO UNIVERSALE DELLA CHIESA. Il principio del lavoro come mezzo per la salvezza eterna sarà ripreso anche da Giovanni Paolo II nella sua Enciclica Laborem Exercens, in cui lo chiama “il Vangelo del lavoro”.
Sembra, poi, che anche il cardinale Angelo Roncalli – futuro Papa Giovanni XXIII – eletto al soglio di Pietro avesse pensato di farsi chiamare Giuseppe, tanto era devoto al Santo padre terreno di Gesù.
I lavoratori cristiani lo venerano come Patrono. Come quei padri che insegnano il proprio lavoro ai figli, così fa anche Giuseppe con Gesù. Egli stesso, più volte, viene chiamato nei Vangeli “il figlio del carpentiere” oppure “del legnaiuolo”.
Più di tutti, quindi, San Giuseppe rappresenta la dignità del lavoro umano che è dovere e perfezionamento dell’uomo che così esercita il suo dominio sul Creato, prolunga l’opera del Creatore, offre il suo servizio alla comunità e contribuisce al piano della salvezza.
Giuseppe ama il suo lavoro. Non si lamenta mai della fatica, ma da uomo di fede la eleva a esercizio di virtù, sa essere sempre contento perché non ambisce alla ricchezza e non invidia i ricchi: per lui il lavoro non è un mezzo per soddisfare la propria cupidigia, ma solo strumento di sostentamento per la sua famiglia.
Poi, come viene prescritto agli ebrei, il sabato osserva il riposo settimanale e prende parte alle celebrazioni. Non deve stupire questa concezione nobile del lavoro più umile, quello manuale: già nell’Antico Testamento, infatti, Dio viene simboleggiato di volta in volta come vignaiolo, seminatore, pastore.
Stupisce il fatto che Dio abbia lavorato con le sue mani, scegliendo un’occupazione impegnativa, da artigiano appunto, che ha svolto per gran parte della sua vita. Nella Bibbia il lavoro dell’uomo aiuta Dio a completare la Creazione, diventa il modo che l’uomo ha di assomigliare AL DIO ARTIGIANO CHE COSTRUISCE IL COSMO.
Lavorare perciò, dona a noi la dimensione della dignità prima ancora che garantirci il sostentamento col guadagno.
Oggi, purtroppo, la dignità del lavoro e del lavoratore sono passate in secondo piano: è il profitto a determinare la validità di un lavoro. Un esasperato capitalismo che mette il profitto, cioè l’accumulo di denaro, al centro di tutto, ha svilito il lavoro e la dignità del lavoratore. I papi hanno riflettuto, attraverso la dottrina sociale della Chiesa, sul corretto rapporto fra lavoro e vita umana, proponendo una via evangelica innovativa e credibile. Allora siamo chiamati a riappropriamoci del lavoro così come l’ha voluto Dio!
Ma in questi tempi di pandemia e di disoccupazione, il lavoro è un bene sempre più prezioso e fonte di grandi sofferenze, per i milioni di persone che non ce l’hanno più.
Ma veniamo al testo evangelico odierno.
“Da dove gli vengono questa sapienza e i prodigi?” (13,54). Gesù torna a Nazareth, nella sua città, dove tutti lo conoscono. Si presenta come un Maestro che insegna con autorità. Ma lo stupore della e l’ammirazione non si traduce in un’adesione di FEDE.
E, peggio ancora, non solo non riconoscono la sua identità messianica, ma non lo accolgono neppure come un Profeta, cioè come un uomo che parla in nome e con l’autorità di Dio.
Lo conoscono come il figlio di Giuseppe, conoscono la Madre, i suoi familiari e la sua umile e poverissima condizione sociale. Ma la gelosia indurisce loro il cuore fino al punto che non possono sopportare che una persona, cresciuta sotto i propri occhi, possa essere il Messia. La presunzione che c’è nel loro cuore impedisce di vedere il buono o il bello in Gesù, validando il detto «Un profeta non è disprezzato se non nella sua patria e in casa sua».
Quando la Parola di Dio diventa scomoda, nel cuore delle persone che dovrebbero accoglierla con più entusiasmo, nasce insofferenza, disagio, e alla fine anche una reazione violenta.
La Fede ottiene miracoli, ma le persone incredule non saranno mai destinatarie di un miracolo del Signore PERCHÉ NON VOGLIONO RICONOSCERLO. Se manca la Fede infatti, la forza e l’amore di Gesù non possono guarire, non possono salvare.
Questa pagina evangelica è immagine di una storia che si ripete nei solchi dell’esperienza umana. La Rivelazione di Dio è sempre chiara ma non immediatamente comprensibile. L’uomo, che è già un mistero a sé stesso, come può comprendere Dio?
Non può pretendere di afferrare il MISTERO, perché tale rimane. Può solo disporsi a capire, avendo Fede in Colui che si rivela, perchè Dio non si fa conoscere da coloro che pretendono di possedere la verità. Ma solo da coloro che si riconoscono discepoli e HANNO L’UMILTA’ DI SEDERSI AI SUOI PIEDI PER LASCIARSI ISTRUIRE.
Solo chi si abbandonerà nella Fede, chi si interrogherà con stupore (l’atteggiamento più adeguato dinanzi alle manifestazioni di Dio), meraviglia e umiltà insieme.
Chi ascolterà senza preconcetti potrà notare come quanto dice è in continuità con le parole dei profeti, o addirittura ne è la pienezza.
Solo contemplando con cuore umile e disponibile quelle parole cariche di potenza, CHE DANNO VITA A QUEL CHE DICONO, quando cacciano i demoni o quando risanano gli infermi, come le parole del Padre nell’atto creativo, e fanno esplodere prodigi che non possono nascere dall’uomo, NASCERA’ LA FEDE.
Intanto RIMANE IL DURO CAMMINO DELLA CONVERSIONE, che ci concede, per Grazia, DI VEDERE LE COSE CON GLI OCCHI DI DIO.
L’incredulità ostinata rende ciechi, impedisce di riconoscere persino il miracolo e di leggervi la presenza di Dio.
Adoro lo stupore e la preghiera del tanto bis-trattato Tommaso: “Mio Signore e mio Dio!”?
E credo di chiudere oggi in bellezza, riportando le parole di San Cromazio, Arcivescovo di Aquileia, vissuto tra il 335 e il 407 d.C., grande amico di San Girolamo, scritte nel suo “APOFTEGMA”, “detto memorabile”:
“Non è questi il figlio di Giuseppe, il carpentiere? Questo appunto dicevano i Giudei increduli per diminuire il Figlio di Dio, perché lo credevano figlio di un carpentiere. Ma, talvolta, l’iniquità, a sua insaputa, suole riuscire profetica. Veramente il Signore e Salvatore nostro era figlio di un carpentiere, ma di quel carpentiere, cioè di Dio Padre, che per mezzo del medesimo Figlio si è degnato di creare il cielo e la terra e tutto l’universo. Questo è il figlio del carpentiere, che per piantare il ferro nel legno allo scopo di lavorare i cuori dei credenti, si degnò di essere appeso in croce. Senza dubbio, davvero figlio del carpentiere, perché col fuoco spirituale rammollì i cuori degli uomini come ferro, per chiamarli alla grazia della sua fede. Infatti il carpentiere suole rammollire il ferro col fuoco”.
Sia Lodato Gesù, il Cristo!