i… il VECCHIO FARISEO COMMENTA….
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Dal Vangelo secondo Luca 21,1-4
In quel tempo, Gesù, alzàti gli occhi, vide i ricchi che gettavano le loro offerte nel tesoro del tempio. Vide anche una vedova povera, che vi gettava due monetine, e disse «In verità vi dico: questa vedova, così povera, ha gettato più di tutti. Tutti costoro, infatti, hanno gettato come offerta parte del loro superfluo. Ella invece, nella sua miseria, ha gettato tutto quello che aveva per vivere». Parola del Signore
Mediti…AMO
LA VITA E IL PENSIERO DEL SANTO
Cecilia è una delle sette donne martiri di cui si fa menzione nel Canone Romano. Ad essa è dedicata una basilica in Trastevere a Roma (sec. IV).
Il suo culto si diffuse dovunque prendendo l’avvio da una «Passione» nella quale viene esaltata come modello di vergine cristiana.
Cecilia, nata da una nobile famiglia a Roma, sposò il nobile Valeriano. Si narra che il giorno delle nozze nella casa di Cecilia risuonassero organi e lieti canti ai quali la vergine, accompagnandosi, cantava nel suo cuore: “conserva o Signore immacolati il mio cuore e il mio corpo, affinché non resti confusa”.
Da questo particolare è stato tratto il vanto di protettrice dei musicanti. Confidato allo sposo il suo voto, egli si convertì al cristianesimo e nella prima notte di nozze ricevette il battesimo per mano del pontefice Urbano I.
Tornato nella propria casa, Valeriano vide Cecilia prostrata nella preghiera con un giovane: era l’angelo che da sempre vegliava su di lei. Insospettito, chiese una prova dell’effettiva natura angelica di quel giovinetto: questi, allora, fece apparire due corone di fiori e le pose sul capo dei due sposi. Ormai credente convinto, Valeriano pregò che anche il fratello Tiburzio ricevesse la stessa grazia e così fu.
Il giudice Almachio aveva proibito, tra le altre cose, di seppellire i cadaveri dei cristiani, ma i due fratelli convertiti alla fede si dedicavano alla sepoltura di tutti i poveri corpi che incontravano lungo la loro strada. Vennero così arrestati e dopo aver redento l’ufficiale Massimo che aveva il compito di condurli in carcere, sopportarono atroci torture piuttosto che rinnegare Dio e vennero poi decapitati.
Cecilia pregò sulla tomba del marito, del cognato e di Massimo, anch’egli ucciso perché divenuto cristiano, ma poco dopo venne chiamata davanti al giudice Almachio che ne ordinò la morte per bruciatura, ma si narra che “la Santa invece di morire cantava lodi al Signore“. C
onvertita la pena per asfissia in morte per decapitazione, il carnefice vibrò i tre colpi legali (era il “contratto” dei boia per ogni uccisione) ma Cecilia non morì, restando agonizzante per tre giorni. Fu papa Urbano I, sua guida spirituale, a renderle la degna sepoltura nelle catacombe di San Callisto.
La Legenda Aurea narra che papa Urbano I, che aveva convertito il marito di lei Valeriano ed era stato testimone del martirio, «seppellì il corpo di Cecilia tra quelli dei vescovi e consacrò la sua casa trasformandola in una chiesa, così come gli aveva chiesto».
Nell’821 le sue spoglie furono traslate da papa Pasquale I nella basilica di Santa Cecilia in Trastevere. Nel 1599, durante i restauri della basilica, ordinati dal cardinale Paolo Emilio Sfondrati in occasione dell’imminente giubileo del 1600, venne ritrovato un sarcofago con il corpo di Cecilia incorrotto ed emanante profumo di gigli e di rose.
Il cardinale allora commissionò a Stefano Maderno una statua che riproducesse quanto più fedelmente l’aspetto e la posizione del corpo di Cecilia così com’era stato ritrovato (la testa girata per la decapitazione, tre dita della mano destra a indicare la Trinità, un dito della sinistra a indicare Dio); questa è la statua che oggi si trova sotto l’altare centrale della chiesa.
ESAME DEL TESTO EVANGELICO
Giunge puntuale la voce di Gesù che riconosce nell’atteggiamento di minorità evangelica, a Lui tanto caro, la verità preziosa del dono totale e gratuito. Ciò che Dio attende da noi è il dono totale di noi stessi.
Stavolta Gesù parte dalla realtà, da quello che è sotto gli occhi di tutti, perché la vedova povera non è il personaggio di una parabola.
Infatti Gesù sta nel tempio. Sta parlando con la gente che gli è stata mandata dai capi dei sacerdoti, dagli scribi, dagli anziani del popolo che si doveva fingere giusta e che avrebbe dovuto far domande strumentalizzabili a Gesù, tali da poter essere considerate come bestemmie (Lc 20, 20).
Gesù ne è consapevole, ma non si sottrae al gioco perfido e risponde con decisione.
Nel frattempo, vicino alle bocche dove si infilavano le offerte che cadevano nel tesoro del tempo, una vedova aveva gettato due monetine, che costituivano tutto quello che aveva per vivere.
Gesù la nota e la indica come esempio a tutti noi. Perché il gesto che compie ha una caratteristica eccezionale: è autentico. Ciò che questa donna offre è donato a Dio, non alla crescita della sua fama.
L’abitudine a mettersi in mostra nel praticare l’elemosina, evidentemente è molto antica.
Purtroppo molti non hanno letto bene tutto il vangelo e pretendono di vedere il proprio nome in un bell’elenco, reso poi pubblico. E allora i notabili offrivano grandi elargizioni con grande clamore e pubblicità, incapaci di fare carità senza manifestarlo al mondo.
In perfetta assoluta e cattolica umiltà, che ben si sposava con gli usi e i costumi dell’epoca e con la tecnologia costruttiva delle canalizzazioni delle offerte del tempio.
Si versava l’offerta al tempio, in quanto era una tassa imposta a tutti gli ebrei per il mantenimento del ricostruito edificio sacro.
La stessa, grazie ad alcune “bocche” confluiva in un grande contenitore e dava l’occasione ai benestanti di Gerusalemme di manifestare pubblicamente e rumorosamente la loro generosa offerta.
La vedova, invece, viveva un momento drammatico, come tutte le donne rimaste sole nella sua epoca. Ella aveva perduto una persona cara e la voglia di vivere.
Viveva certamente uno di quei momenti faticosi, terribili, in cui si ha l’impressione di non sopravvivere.
Eppure la sua carità e il suo ringraziamento a Dio non era venuto meno, ed aveva conservato la capacità di diventare luce, dono, speranza.
La fede di questa donna, una fede semplice che sa compiere un gesto all’apparenza insignificante, è colto dal Signore Gesù come il più bel dono al tesoro del Tempio.
Donare è difficile, donare bene quasi impossibile. Questa donna è libera nella sua devozione e nella sua semplicità, non si ferma davanti all’uso che del denaro veniva fatto, non si scandalizza delle belle pietre che adornano il Tempio, né invoca presunti soldi dei Sommi Sacerdoti…
E Gesù guarda il cuore di questo dono di pochi spiccioli, dono dell’essenziale, dono sofferto e meditato. Costa fatica donare, ma Dio vede.
Ci dà una grande lezione e ci mostra che l’elemosina è finalizzata alla conversione di chi la fa, non di chi la riceve.
Paradossalmente possiamo spogliarci di tutto, coprire d’oro i poveri ma quel gesto, se fatto con arroganza, con ostentazione, con spirito di vanagloria finisce col diventare la nostra condanna.
Gesù stesso spiega la differenza: lei dà del necessario mentre loro danno del superfluo.
L’elemosina deve essere una scelta meditata, fatta per manifestare la vicinanza ai fratelli e, aggiungono i padri della Chiesa, “per ottenere il perdono dei peccati”.
E noi che diciamo con tanta facilità di essere alla sequela di Gesù, che invece siamo parte fragilissima del popolo di Dio, impariamo dalle vedove, dai poveri, a contare sull’Assoluto, ad abbandonarci nelle mani di Colui che tutto può.
Ma vediamo un’altra chiave di lettura.
Gesù oramai è arrivato nel Tempio di Gerusalemme e oltre a discutere, osserva ciò che accade.
La tentazione che abbiamo è quella di leggere il brano odierno in modo “devozionale”.
E commentare che Gesù stia lodando una vedova che con amore evangelico per gli altri, fa la sua offerta.
Questa lettura è SOLO in parte fondata.
Ma, Per capire il brano evangelico, dobbiamo risalire al suo contesto.
In Marco al capitolo 12,38, abbiamo visto Gesù che rimproverava gli scribi che si volevano mostrare migliori degli altri, ma che, in definitiva, «divoravano le case delle vedove».
Ecco ora Gesù parla di una vedova che non ha più un quattrino, perché tutto ciò che aveva, PER VIVERE, lo ha gettato nel tesoro del tempio.
E le parole di Gesù «…essa invece, nella sua povertà, vi ha messo tutto quello che aveva, tutto quanto aveva per vivere» sono un’accusa contro coloro che, come gli scribi che divorano le case delle vedove, danneggiano le categorie più deboli di Israele, tra le quali SI ANNOVERANO LE VEDOVE E GLI ORFANI, come anche gli stranieri residenti nella terra di Israele.
Le parole di Gesù, a commento di quanto la vedova ha fatto, non sono allora solo di lode, ma di dispiacere per quanto accade, per il fatto che una vedova ora, in Israele, non ha più nulla da mangiare.
Con esse Gesù accusa il sistema politico e religioso del suo tempo, di non essere sensibile alla povertà. Anzi, di sfruttarla.
Una società e un sistema che non tengono conto di questa, verranno giudicati severamente: ecco perché, nei prossimi capitoli del vangelo di Marco Gesù parlerà non solo della fine dei tempi, ma anche della fine del Tempio, quello dove ora gli scribi e sadducei esercitano il loro discutibile potere.
Chi commette peccati gravi come la mancata assistenza ai poveri, non può prestare un culto a Dio solo formale, esteriore, come quello che ormai avveniva nel Tempio, perché, come già diceva il profeta Geremia, nel suo Libro, al Capitolo 7,2-4, non serve a nulla:
- “2 «Fèrmati alla porta della casa del SIGNORE e là proclama questa parola: “Ascoltate la parola del SIGNORE, voi tutti, uomini di Giuda, che entrate per queste porte per prostrarvi davanti al SIGNORE! 3 Così parla il SIGNORE degli eserciti, Dio d’Israele: Cambiate le vostre vie e le vostre opere, e io vi farò abitare in questo luogo. 4 Non ponete la vostra fiducia in parole false, dicendo: ‘Questo è il tempio del SIGNORE, il tempio del SIGNORE, il tempio del SIGNORE!’”.
Questa lettura – che mostra la preoccupazione di Gesù per il suo popolo e il disappunto per suoi capi, che avrebbero dovuto guidare il “gregge” come pastori attenti, e invece non si curano di una vedova a cui d’ora in poi mancherà da mangiare – può essere accompagnata dalla lettura simbolica della figura della vedova.
Essa rappresenta davvero il modello dell’Israele scelto dal Signore:
- «Donando tutto a Dio, abbandonandosi completamente alla sua potenza come la vedova di Zarepta, che accetta di restare senza sostentamento per sfamare l’uomo di Dio credendo alla parola del profeta Elia (1Re 17,10), questa donna è l’esempio del resto di Israele e della vera religiosità giudaica che Gesù aveva cercato invano a Gerusalemme nel Tempio. […] Questa donna è l’immagine della comunità povera di Israele, comunità vedova perché lo sposo le sarà tolto (Mc 2,20) e comunità segnata dall’indigenza perché vedova come la Gerusalemme senza Tempio».
Così, nel Libro delle Lamentazioni, sempre il profeta Geremia, aveva descritto la città santa:
- «Ah! Come sta solitaria la città un tempo ricca di popolo! È divenuta come una vedova, la grande fra le nazioni; un tempo signora tra le province è sottoposta a tributo» (1,1).
E ancora.. Nelle parole di Gesù contro i comportamenti degli scribi sia nella riflessione del Maestro sull’offerta della vedova, traspare il tema fondamentale del testo biblico:
- altro è il “sembrare”
- altro è l’”essere“.
La FEDE si colloca nella dimensione dell’essere.
GLI SCRIBI VIVONO UNA FEDE NELL’ORIZZONTE DEL SEMBRARE.
Essi denunciano la propensione alla recita, come se la vita fosse un grande teatro. Gesù li chiama “ipocriti” (Mt 23,13-32), ovvero i commedianti (che in teatro usano le maschere).
Essi recitano la fede, non la vivono. Questa dicotomia tra mondo interiore e mondo esteriore è espressa dal vangelo di Marco in un modo più incisivo: essi vogliono solo farsi vedere.
Ciò li porta a “passeggiare in lunghe vesti, ricevere saluti nelle piazze, avere i primi seggi nelle sinagoghe e i primi posti nei banchetti”. Ma, poi, “divorano le case delle vedove“, cioè delle persone più povere e indifese della società ebraica.
LA VEDOVA, DIVERSAMENTE DAGLI SCRIBI, SI COLLOCA NELLA DIMENSIONE DELL’ESSERE.
Per lei l’offerta non è una recita, bensì una privazione che si traduce in un dono. La donna offre ben poco al tempio, ma ciò che offre se l’è tirato fuori di bocca per donarlo “nella sua miseria, vi ha gettato tutto quello che aveva, tutto quanto aveva per vivere“.
Lei non ha rubato come gli scribi per donarlo a Dio (Sir 34,24 “Sacrifica un figlio davanti al proprio padre chi offre un sacrificio con i beni dei poveri“).
Accanto alla vedova, nella logica dell’essere trova posto il credente, che è chiamato a dare il massimo che gli è possibile, mettendo in secondo piano il risultato oggettivo (e l’apparenza della santità). Egli sa che la giustizia di Dio non è “uguale” per tutti, ma è strettamente proporzionale, perché “a chiunque fu dato molto, molto sarà chiesto” (Lc 12,48).
La Chiesa ci esorta quindi ad esprimere la nostra fede con la carità della povera vedova del Tempio, umile a paragone degli scribi pieni di vanità, non con la tristezza di una povertà subita, ma tacitamente e gioiosamente, per amore di Dio.
Possiamo paragonare questa vedova a Cristo stesso, che ci ha donato tutto quanto aveva per vivere, donando la sua vita.
Nella carità è contenuta la richiesta più gradita a Dio, quella che mette in sintonia con Cristo Gesù.
Ragioniamoci sopra…
Sia Lodato Gesù, il Cristo!