LETTERA ENCICLICA DOCTOR MELLIFLUUS di Papa Pio XII°
PIO XII
LETTERA ENCICLICA
DOCTOR MELLIFLUUS (1)
NEL VIII CENTENARIO DELLA MORTE
DI SAN BERNARDO
Il dottore mellifluo «ultimo dei padri, ma non certo inferiore ai primi»,[2] si segnalò per tali doti di mente e di animo, cui Dio aggiunse abbondanza di doni celesti, da apparire dominatore sovrano nelle molteplici e troppo spesso turbolente vicende della sua epoca, per santità, saggezza e somma prudenza, consiglio nell’agire. Perciò grandi lodi gli vengono tributate non solo dai sommi pontefici e dagli scrittori della chiesa cattolica, ma non di rado persino dagli eretici. Il Nostro predecessore di f.m. Alessandro III, nell’atto di iscriverlo tra l’universale giubilo nell’albo dei santi, così scrisse con riverenza di lui: «Abbiamo rievocato alla nostra memoria la santa e venerabile vita di questo spirito eletto: come egli, sostenuto da una non comune prerogativa di grazia, non solo risplendesse per la sua vita pia e santa, ma anche irradiasse dappertutto nella chiesa di Dio la luce della sua fede e della sua dottrina. Quali frutti egli abbia recato nella casa di Dio con la sua parola e il suo esempio non c’è nessuno, si può dire, in tutta l’estensione della cristianità che lo ignori, avendo egli diffuso le istituzioni della nostra santa religione fino nelle terre straniere e barbare … e avendo revocato alla retta pratica della vita religiosa … una moltitudine infinita di peccatori».[3] «Egli fu infatti – scrive C. Baronio – uomo davvero apostolico, anzi vero apostolo inviato da Dio, potente per l’opera e per la parola, che ha reso illustre in ogni dove e fra tutti il suo apostolato con i prodigi che lo accompagnavano, sì da doversi dire che nulla ebbe in meno dei grandi apostoli … ornamento e sostegno a un tempo di tutta la chiesa cattolica».[4]
A queste testimonianze di somma lode, cui altre senza numero si potrebbero aggiungere, si rivolge il Nostro pensiero, mentre si compiono otto secoli dal giorno in cui il restauratore e propagatore del sacro ordine cistercense piamente passò da questa vita mortale, che egli aveva illustrata con tanto lume di dottrina e fulgore di santità, alla suprema vita. Ci è cosa assai grata meditare e scrivere sui suoi grandi meriti in modo che, non solo i suoi seguaci, ma altresì tutti coloro che pongono il loro diletto in ciò che è vero, bello, santo, ne traggano incitamento a seguire i suoi preclari esempi di virtù.
La sua dottrina fu attinta quasi interamente dalle pagine della sacra Scrittura e dei santi padri, che giorno e notte aveva tra mano e meditava a fondo; non già dalle sottili dispute dei dialettici e filosofi, che più di una volta mostra di stimar meno.[5] Si noti però che egli non rigetta l’umana filosofia che sia genuina filosofia, che conduca cioè a Dio, alla vita onesta e alla cristiana sapienza; ma quella che con vuota verbosità e col fallace prestigio dei cavilli presume con temeraria audacia di assurgere alle cose divine e penetrare interamente i misteri divini, sì da violare – come spesso accadeva anche allora – l’integrità della fede e miseramente sdrucciolare nell’eresia.
«Vedi … – egli scrive – come [san Paolo apostolo [cf. 1Cor 8,2]] fa dipendere il frutto e l’utilità della scienza dal modo di sapere? Ma che vuol dire modo di sapere, se non che tu sappia con quale ordine, con quale animo, a qual fine, che cosa si debba sapere? Con quale ordine: anzitutto, ciò che è più opportuno per la salvezza; con quale animo: più appassionatamente ciò che più accende l’amore; a qual fine: non per vana gloria o per curiosità o per qualcosa di simile, ma solo per tua edificazione o del prossimo. Vi sono infatti alcuni che amano di sapere solo per sapere; ed è turpe curiosità. Altri che desiderano di conoscere perché essi stessi siano conosciuti; ed è turpe vanità. Ci sono alcuni che desiderano di sapere per vendere la loro scienza, ad esempio, per denaro, per gli onori; ed è turpe mercimonio. Ma ci sono anche di quelli che vogliono sapere per edificare; ed è carità. Ci sono poi coloro che desiderano sapere per esser edificati; ed è prudenza».[6]
Qual sia la dottrina, o meglio la sapienza che egli segue ed intensamente ama, felicemente esprime con queste parole: «C’è lo spirito di sapienza e d’intelletto, il quale come un’ape che reca cera e miele, ben ha donde accendere il lume della scienza e infondere il sapore della grazia. Non speri dunque di ricevere il bacio, né colui che afferra la verità ma non ama, né colui che ama, ma non comprende».[7] «Che cosa produrrebbe la scienza senza l’amore? Gonfierebbe. Che cosa l’amore senza la scienza? Errerebbe».[8] «Risplendere soltanto è vano; ardere soltanto è poco; ardere e risplendere è perfetto».[9] Da dove abbia origine la vera e genuina dottrina e come debba essere congiunta con la carità, egli spiega con queste parole: «Dio è sapienza, e vuol essere amato non solo dolcemente, ma anche sapientemente. … Altrimenti assai facilmente lo spirito dell’errore si farà giuoco del tuo zelo, se trascurerai la scienza; e l’astuto nemico non ha strumento più efficace per strappar dal cuore l’amore, che se riesce a far sì che si cammini in esso incautamente e non sotto la guida della ragione».[10]
Da queste parole appare ben chiaro che Bernardo con lo studio e la contemplazione ha unicamente inteso di dirigere, stimolato dall’amore più che dalla sottigliezza delle opinioni umane, verso il Sommo Vero i raggi di verità da qualsiasi parte raccolti; da lui impetrando la luce alle menti, la fiamma della carità agli animi, le rette norme per la condotta morale. È questa la vera sapienza, che supera ogni umana realtà e tutto riconduce alla propria fonte, cioè a Dio, per convertire a lui gli uomini. Il dottore mellifluo, dunque, non si fonda sull’acutezza del suo ingegno per procedere con piede di piombo fra gli incerti e malsicuri anfratti del ragionamento, non si fonda sugli artificiosi e ingegnosi sillogismi, di cui tanto abusavano sovente al suo tempo i dialettici; ma come aquila, con lo sguardo fisso al sole, con rapidissimo volo mira al vertice della verità. Infatti, quella carità che lo stimolava non conosce impedimenti e mette ali, per così dire, all’intelligenza. A lui, insomma, la dottrina non è ultima meta, ma è piuttosto via che conduce a Dio; non è cosa fredda, in cui vanamente indugi l’animo, come gingillandosi affascinato da fulgori evanescenti, ma dall’amore è mosso, stimolato, governato. Perciò Bernardo, sostenuto da tale sapienza, meditando, contemplando e amando si eleva alle supreme vette della scienza mistica e si congiunge con Dio stesso, quasi fruendo già in questa vita mortale della beatitudine infinita.
Il suo stile poi, vivace, fiorito, abbondante e sentenzioso, è così dolce e soave da attirare l’animo del lettore, dilettarlo, elevarlo alle cose di lassù; da eccitare, alimentare, dirigere la pietà; da indurre infine l’animo a perseguire quei beni che non sono caduchi e passeggeri, ma veri, certi, eterni. Perciò i suoi scritti furono sempre in grande onore; da essi la chiesa stessa ha tratte non poche pagine celestiali e calde di pietà per la sacra liturgia.[11] Sembrano quasi vivificate dal soffio dello Spirito Santo e vivide di tal luce, che mai può estinguersi nel corso dei secoli, perché nasce dall’animo di colui che scrive, assetato di verità e carità, e desideroso di nutrirne gli altri conformandoli a propria immagine.[12]
Ci piace, venerabili fratelli, riferire circa questa mistica dottrina dai suoi libri, a comune utilità, alcune bellissime sentenze: «Abbiamo insegnato che ogni anima, benché piena di peccati, irretita nei vizi, schiava delle passioni, prigioniera dell’esilio, incarcerata nel corpo, benché, dico, a tal punto condannata e priva di speranza; abbiamo insegnato che essa tuttavia può scorgere in sé tanto, da poter non solo dilatare l’animo alla speranza del perdono, della misericordia, ma perfino da osar aspirare alle nozze del Verbo, da non temere di stringere patto d’alleanza con Dio, da non dubitare di stringere soave giogo d’amore con il Re degli angeli: Che cosa non può osare con sicurezza presso Colui di cui essa scorge in sé la nobile immagine, conosce la splendida somiglianza?».[13] «Tale conformità marita l’anima col Verbo, poiché così essa si rende simile per mezzo della volontà a Colui cui è simile per natura e Lo ama come ne è amata. Se dunque ama perfettamente; ha contratto le nozze. Che cosa vi è di più giocondo di tale conformità? Qual cosa più desiderabile di quella carità da cui proviene che tu, o anima, non contenta degli insegnamenti degli uomini, da te stessa con fiducia ti avvicini al Verbo, sia sempre unita al Verbo, interroghi familiarmente il Verbo e lo consulti su ogni cosa, fatta tanto capace di comprendere, quanto sei audace nel desiderio? È questo veramente un contratto di connubio spirituale e santo. Ho detto poco, contratto: è un amplesso. Amplesso, in verità, in cui volere e non volere le stesse cose fa di due uno spirito solo. E non c’è da temere che la disparità delle persone renda in qualche modo imperfetto l’accordo delle volontà, perché l’amore non sente soggezione reverenziale. Infatti amore viene da amare, non da riverire. … L’amore abbonda nel proprio senso, l’amore quando giunge assimila e sottomette tutte le altre affezioni. Perciò chi ama, ama ed altro non sa».[14]
Dopo aver notato che Dio vuole dagli uomini esser amato, ancor più che temuto e onorato, aggiunge queste acute e sottili osservazioni: «Esso (l’amore) basta da sé, piace in sé e per sé. Esso è merito, è premio a se stesso. L’amore non ricerca motivo, non frutto fuori di sé. Il suo frutto è l’uso di sé. Amo perché amo; amo per amore. Grande cosa è l’amore, purché ricorra al suo principio, ritorni alla sua origine, rifluisca alla sua fonte, sempre vi attinga di che perennemente scorrere. È solo l’amore, fra tutti i moti, sentimenti e affetti dell’animo, quello in cui la creatura può, anche se non a parità, corrispondere al suo Autore, ovvero restituire vicendevolmente in cosa simile».[15]
Poiché egli stesso ha sovente sperimentato nella contemplazione e nella preghiera questo divino amore che ci permette di congiungerci strettamente con Dio, dal suo animo prorompono queste parole infocate: «O felice (anima), resa degna di esser prevenuta con la benedizione di tanta dolcezza! Felice, poiché le è stato dato di sperimentare un abbraccio così beatificante! Ciò non è altro che amore santo e casto, soave e dolce; amore tanto sereno, quanto sincero; amore scambievole, intimo e forte, che congiunge due non in una sola carne, ma in un solo spirito, fa sì che due non sian più due, ma uno solo, come dice Paolo (cf.1 Cor 6,17): “Chi aderisce a Dio, è un solo spirito con lui”».[16]
Questa sublime dottrina mistica del Dottore di Chiaravalle, che supera e può saziare ogni umano desiderio, sembra al giorno d’oggi talora negletta, o messa da parte, o dimenticata da molti; costoro, presi dalle sollecitudini e dalle faccende quotidiane, non cercano e desiderano altro se non ciò che è utile e redditizio per questa vita mortale; e quasi mai elevano l’occhio e la mente al cielo; quasi mai aspirano alle cose di lassù, ai beni non perituri.
Eppure, anche se non tutti possono attingere le vette di tale contemplazione divina, di cui Bernardo discorre con sublimi pensieri e parole, anche se non tutti possono congiungersi così intimamente con Dio, da sentirsi uniti col Sommo Bene con i vincoli come di un arcano celeste connubio; tutti possono e debbono però elevare di tanto in tanto l’animo da queste cose terrene alle celesti e amare con attiva volontà il Supremo Datore di ogni bene.
Pertanto, mentre oggi in molti animi l’amore verso Dio o insensibilmente si raffredda, o anche non raramente si spegne del tutto, stimiamo che siano da meditarsi attentamente questi scritti del dottore mellifluo; dalla loro dottrina, che del resto scaturisce dal Vangelo, tanto nella vita privata di ciascuno, quanto nell’umano civile consorzio può diffondersi una nuova soprannaturale energia che regga il pubblico costume, lo renda conforme ai precetti della morale cristiana e possa in tal modo offrire gli opportuni rimedi ai tanti e così gravi mali che turbano e travagliano la società. Quando infatti gli uomini non amano come si deve il loro Creatore, donde viene tutto ciò che essi hanno, allora non si amano neppure tra loro; anzi – come troppo spesso accade – nell’odio e nella contesa si separano vicendevolmente con asprezza si avversano. Dio è padre amorosissimo di noi tutti; noi siamo fratelli in Cristo, che egli ha redento versando il suo sacro sangue. Ogni qualvolta, dunque, non riamiamo quel Dio che ci ama e non riconosciamo con riverenza la sua divina paternità, anche i vincoli dell’amore fraterno sono disgraziatamente lacerati; e sventuratamente spuntano fuori – come purtroppo talora si vede – le discordie, le contese, le inimicizie; e queste possono arrivare a tal punto da sconvolgere e scalzare i fondamenti stessi dell’umana convivenza.
È dunque necessario restituire a tutti gli animi questa divina carità che infiammò così ardentemente il Dottore di Chiaravalle, se vogliamo che i costumi cristiani rifioriscano dappertutto, che la religione cattolica possa efficacemente compiere la sua missione e che, sedati i dissidi e restaurato l’ordine nella giustizia e nell’equità, al genere umano affaticato e travagliato rifulga serena la pace.
Di questa carità, per mezzo della quale dobbiamo sempre e con gran fervore essere uniti con Dio, siano infiammati in primo luogo coloro che hanno abbracciato l’ordine del dottore mellifluo, e parimenti tutti i sacerdoti ai quali spetta particolarmente l’obbligo di esortare ed eccitare gli altri a riaccendere il divino amore. Di questo divino amore – come abbiamo detto – se altre volte nel passato, in questi nostri tempi hanno immenso bisogno i cittadini, la domestica convivenza, l’umanità intera. Se esso arde e porta gli animi a Dio, fine ultimo dei mortali, si corroborano le altre virtù; se invece si affievolisce o si estingue, anche la tranquillità, la pace, la gioia e tutti gli altri veri beni a poco a poco si affievoliscono o si estinguono del tutto, come quelli che vengono da colui che «è carità» (1Gv 4,8).
Di questa divina carità nessuno forse ha parlato così bene, con tanta profondità, con tanta forza come Bernardo. «Il motivo per amare Dio, è Dio stesso; la misura, amarlo senza misura».[17] «Dove c’è amore, non c’è fatica, ma gusto».[18] Egli stesso confessa di averlo sperimentato, quando scrive: «O amore santo e casto! O dolce e soave affetto, tanto più soave e dolce, perché è tutto divino il sentimento che se ne prova. Sperimentarlo è divinizzarsi».[19] E altrove: «È cosa buona per me, o Signore, piuttosto stringermi a te nella tribolazione, averti con me nella fornace, che essere senza di te fosse pure in cielo».[20] Quando poi è giunto a quella somma e perfetta carità che lo unisce in intimo connubio con Dio stesso, gode di tanta gioia, di tanta pace, da non potervene essere di più grande: «O luogo della vera quiete, in cui non si vede Dio come turbato da ira o occupato in sollecitudini, ma si sperimenta in lui la sua volontà buona, benevola e perfetta! Questa visione non spaventa, ma accarezza; non eccita inquieta curiosità, ma mette in calma; non stanca i sensi, ma dà pace. Ivi veramente si riposa. Dio tranquillo dà tranquillità in tutto; vederlo pacifico è stare in pace».[21]
Questa perfetta quiete non è già morte dell’animo, ma vera vita: «Tale sopore vitale e vigilante illumina piuttosto il senso interiore e, scacciata la morte, dona la vita eterna. È veramente un sonno, che per altro non assopisce, ma è evasione. È anche morte – non temo di dirlo – poiché l’apostolo elogiando alcuni ancor vivi nella carne, dice così (Col 3,3]: “Siete morti, e la vostra vita è nascosta con Cristo in Dio”».[22]
Questa perfetta quiete dell’animo, di cui godiamo nel riamare Dio che ci ama, e fa sì che a lui volgiamo e dirigiamo noi e ogni nostra cosa, non ci porta alla pigrizia, non all’ignavia, non all’inerzia, ma ad un’alacre, solerte, operosa diligenza, con la quale cerchiamo di procurare, con l’aiuto di Dio, la nostra salvezza e anche quella degli altri. Infatti, tale sublime meditazione e contemplazione, incitata e stimolata dall’amore divino, «governa gli affetti, dirige le azioni, corregge gli eccessi, regola i costumi, adorna la vita e vi fa regnare l’ordine, dona infine la scienza delle cose divine e umane. È essa che distingue ciò che è confuso, unisce ciò che è diviso, raccoglie ciò che è disperso, investiga ciò che è nascosto, ricerca il vero, pondera ciò che è verosimile, scopre la finzione e l’artificio. Essa preordina ciò che è da farsi, riflette su ciò che è stato fatto, di modo che nulla rimanga nell’animo di poco corretto o bisognoso di correzione. Nella prosperità essa presente l’avversità, nelle avversità quasi non le sente; l’una è fortezza, l’altra prudenza».[23]
E infatti, benché aneli a restar immerso in sì alta meditazione e soave contemplazione, alimentata dal divino spirito, tuttavia il dottore mellifluo non rimane chiuso tra le pareti della sua cella, che pur «custodita è dolce»,[24] ma dovunque sia in questione la causa di Dio e della chiesa, è subito presente col consiglio, con la parola, con l’azione. Asseriva infatti che non «deve ognuno vivere per sé, ma per tutti».[25] Di se stesso, poi, e dei suoi così scriveva: «In tal modo anche ai nostri fratelli tra cui viviamo, siamo debitori, per diritto di fraternità e umano consorzio, di consiglio e di aiuto».[26] Quando con dolore vedeva minacciata o perseguitata la nostra santa religione, non risparmiava fatiche, non viaggi, non premure per difenderla strenuamente e porgerle aiuto secondo le sue possibilità. «Nulla mi è estraneo – diceva – di ciò che si riveli interesse di Dio».[27] E al re Ludovico di Francia scrive queste coraggiose parole: «Noi figli della chiesa, non possiamo in alcun modo dissimulare le ingiurie recate alla nostra madre, il disprezzo verso di lei, i suoi diritti conculcati… Per certo staremo saldi e combatteremo fino alla morte, se sarà necessario, per la nostra madre, con le armi che ci si addicono; non con gli scudi e le spade, ma con le preghiere e le lacrime al cospetto di Dio».[28] A Pietro, abate di Cluny: «Mi glorio nelle mie tribolazioni, se sono stato ritenuto degno di soffrirne alcuna per la chiesa. Questa è la mia gloria che esalta il mio capo, il trionfo della chiesa. Se infatti siamo stati compagni nella fatica, lo saremo anche nella consolazione. È stato doveroso collaborare con la nostra madre, unirci alla sua passione …».[29]
Quando poi il corpo mistico di Gesù Cristo fu conturbato da scisma così grave che anche i buoni rimanevano dubbiosi tra le due parti, egli si consacrò interamente per comporre i dissidi e per la felice riconciliazione e unione degli animi. Poiché i prìncipi, per ambizione di dominio terreno, erano separati da spaventose discordie, dalle quali potevano derivare gravi danni per i popoli, egli si fece artefice di pace e riconciliatore per una mutua concordia. Infine, poiché i luoghi santi della Palestina consacrati al divino Redentore col proprio sangue erano in gravissima condizione ed esposti all’ostile pressione di eserciti stranieri, per mandato del sommo pontefice incoraggiò con alte parole e più alta carità i prìncipi e i popoli cristiani ad una nuova crociata; se questa non sortì felice esito, non fu certo per sua colpa.
Trovandosi poi soprattutto esposta a gravissimi pericoli l’integrità, trasmessa dagli avi quale sacra eredità, della fede cattolica e dei costumi, per opera soprattutto di Abelardo, di Arnaldo da Brescia e di Gilberto della Porretta, egli, sia con la pubblicazione di scritti colmi di dottrina, sia con faticosi viaggi, tentò, sorretto dalla divina grazia, tutto ciò che gli fu possibile, per debellare e far condannare gli errori, e perché gli erranti, per quanto era in suo potere, ritornassero sulla retta via e a miglior consiglio.
Egli, consapevole che in questa cosa non importava tanto la sapienza dei dottori, quanto l’autorità soprattutto del romano pontefice, si diede cura d’interporre tale autorità, da lui riconosciuta, nel dirimere tali questioni, come suprema e del tutto infallibile. Pertanto al Nostro predecessore di f.m. Eugenio III, già suo discepolo, scrive queste parole, che rivelano il suo amore e la profonda riverenza verso di lui, unita con quella libertà d’animo che si addice ai santi: «L’amore non conosce il padrone, conosce il figlio anche sotto la tiara. … Ti ammonirò dunque non come maestro, ma come madre; certamente come uno che ti vuol bene».[30] Lo interpella in seguito con queste ardenti parole: «Chi sei? Il gran sacerdote, il sommo pontefice. Tu sei il principe dei vescovi, l’erede degli apostoli … Pietro per potestà, per unzione Cristo. Sei colui al quale sono state consegnate le chiavi, affidate le pecorelle. Vi sono anche altri portinai del Cielo e pastori di greggi; ma tu sei tanto più glorioso, quanto più grande è la differenza con cui hai ereditato al disopra degli altri entrambi questi nomi. Quelli hanno assegnati i loro greggi, a ciascuno il proprio: a te sono stati affidati tutti, a te solo nell’unità. E non soltanto tu sei pastore dei greggi, ma unico pastore di tutti i pastori».[31] E ancora: «Deve uscir al di fuori di questo mondo chi volesse ricercare ciò che non appartiene alla tua cura».[32]
Riconosce poi apertamente e pienamente l’infallibilità del magistero del romano pontefice, per quanto riguarda la fede e i costumi. Infatti, quando combatte gli errori di Abelardo, il quale «allorché parla della Trinità, risente di Ario; quando della grazia, sa di Pelagio; quando della persona di Cristo, sa di Nestorio»;[33] «egli che pone dei gradi nella Trinità, delle modalità nella maestà, successione numerica nell’eternità»;[34] e in lui «l’umana ragione usurpa tutto per sé e nulla lascia alla fede»;[35] egli non discute le sottili, contorte e ingannevoli fallacie e cavilli, li dissolve e li confuta, ma scrive altresì al Nostro predecessore d’immortale memoria Innocenzo II per simile motivo queste gravi parole: «Occorre riferire alla vostra autorità apostolica ogni pericolo… quelli soprattutto che riguardano la fede. Penso esser giusto che ivi soprattutto si riparino i danni della fede, dove la fede non può venir meno. E questa è la prerogativa di tale sede… È tempo, Padre amatissimo, che voi riconosciate la vostra potestà… In questo fate veramente le veci di Pietro, del quale occupate la sede, se con i vostri moniti confermate gli animi incerti nella fede, se con la vostra autorità sterminate i corruttori della fede».[36]
Ma da dove questo umile monaco, quasi senza alcun mezzo umano, abbia potuto attingere la forza per vincere anche le più ardue difficoltà, per risolvere intricatissimi problemi e dirimere le questioni più imbarazzanti, solamente si può capire se si pensa all’esimia santità di vita che lo adornava, congiunta con un grande amore della verità. Era infiammato soprattutto, come abbiamo detto, della più accesa carità verso Dio e verso il prossimo, che è, come ben sapete, venerabili fratelli, il principale precetto e quasi il compendio di tutto il Vangelo; di modo che non solo era sempre misticamente unito col Padre celeste, ma ancora niente più desiderava che guadagnare gli uomini a Cristo, sostenere i sacrosanti diritti della chiesa e difendere con invitto coraggio l’integrità della fede cattolica.
In mezzo ai tanti favori e alla stima di cui godeva presso i sommi pontefici, presso i prìncipi e presso i popoli, non si insuperbiva, non andava in cerca della mutevole e vana gloria umana, ma risplendeva in lui sempre quella cristiana umiltà che «raccoglie le altre virtù … dopo averle raccolte le custodisce … e conservandole le perfeziona»;[37] sicché «non sembrano nemmeno virtù … senza di quella».[38] Perciò non agitarono la sua anima gli onori che gli furono offerti, e il suo piede non fu mosso per dirigersi verso la gloria; e non lo attirava «più la tiara o il sacro anello, che il rastrello e il sarchio».[39] Mentre poi si sobbarcava a tali e tante fatiche per la gloria di Dio e l’incremento del nome cristiano, si professava «inutile servo dei servi di Dio»,[40] «vile vermiciattolo»,[41] «albero sterile»,[42] «peccatore, cenere …».[43] Alimentava quest’umiltà cristiana e le altre virtù con l’assidua contemplazione delle realtà celesti; le alimentava con le infiammate preci rivolte a Dio, con le quali attirava la grazia celeste su di sé e sulle opere da lui intraprese.
In modo specialissimo era preso da così ardente amore per Gesù Cristo, divino redentore, che sotto la sua mozione e il suo stimolo scriveva pagine bellissime e nobilissime, che ancor oggi destano l’ammirazione universale e infiammano la pietà del lettore. «Quale altra cosa arricchisce l’anima che vi medita sopra … irrobustisce le virtù, fa fiorire i buoni e onesti costumi, suscita casti affetti? È arido ogni cibo dell’anima, se non vi si infonde questo olio; è insipido, se non è condito con questo sale. Se scrivi qualcosa, non lo gusto se non vi leggo Gesù. Se fai una disputa o un ragionamento, non mi piace se non vi risuona Gesù. Gesù è miele nella bocca, dolce concerto all’orecchio, giubilo al cuore. Ma è anche medicina. C’è tra voi qualcuno triste? Gesù scenda nel cuore, salga poi al labbro; ed ecco, alla luce di questo nome ogni nube si dissolve, torna il sereno. Qualcuno ha commesso una colpa? corre disperato al laccio di morte? Ma se invocherà questo nome di vita, non sentirà subito speranza di vita?… C’è qualcuno che, angustiato e trepido tra i pericoli, invocando questo nome di forza non senta subito la fiducia e fugato il timore?… Nulla meglio infrange l’impeto dell’ira, reprime il tumore della superbia, sana la ferita dell’invidia…».[44]
A questo infiammato amore per Gesù Cristo si univa una tenerissima e soave devozione verso la sua eccelsa Madre, che egli, come propria amorosissima madre, ricambiava di amore nutrendo per lei un culto profondo. Aveva tanta fiducia nel suo potente patrocinio, da usare queste espressioni: «Dio ha voluto che noi nulla ottenessimo, che non passi per le mani di Maria».[45] Così pure: «Tale è la volontà di Colui, che ha voluto che noi avessimo tutto per mezzo di Maria».[46]
A questo punto ci è grato, venerabili fratelli, proporre a tutti da meditare quella pagina che è forse la più bella per le lodi della santa vergine Madre di Dio, la più ardente, la più atta a suscitare in noi l’amore verso di lei, la più utile per infiammare la pietà e a imitare i suoi esempi di virtù: «… È detta Stella del mare e la denominazione ben si addice alla Vergine Madre. Ella con la massima convenienza è paragonata ad una stella; perché come la stella sprigiona il suo raggio senza corrompersi, così la Vergine partorisce il Figlio senza lesione della propria integrità. Il raggio non menoma alla stella la sua chiarità, né il Figlio alla Vergine la sua integrità. Ella è dunque quella nobile stella nata da Giacobbe, il cui raggio illumina tutto il mondo, il cui splendore rifulge in cielo e penetra gli inferi… Ella è, dico, la preclara ed esimia stella, che è necessariamente al di sopra di questo grande e spazioso mare, fulgente di meriti, chiara dei suoi esempi. O tu, chiunque sia, che ti avvedi di essere in balìa dei flutti di questo mondo, tra le procelle e le tempeste, invece di camminare sulla terra, non distogliere gli occhi dal fulgore di questa stella, se non vuoi essere travolto dalle tempeste. Se insorgono i venti delle tentazioni, se incappi negli scogli delle tribolazioni, guarda la stella, invoca Maria. Se sei sballottato dalle onde della superbia, della detrazione, dell’invidia: guarda la stella, invoca Maria. Se l’ira, o l’avarizia, o l’allettamento della carne scuotono la navicella dell’anima: guarda a Maria. Se tu, conturbato per l’enormità del peccato, pieno di confusione per la laidezza della coscienza, intimorito per il tenore del giudizio, incominci ad essere inghiottito dall’abisso della tristezza, dalla voragine della disperazione: pensa a Maria. Nei pericoli, nelle angustie, nelle incertezze, pensa a Maria, invoca Maria. Ella non si parta mai dal tuo labbro, non si parta mai dal tuo cuore; e perché tu abbia ad ottenere l’aiuto della sua preghiera, non dimenticare mai l’esempio della sua vita. Se tu la segui, non puoi deviare; se tu la preghi, non puoi disperare; se tu pensi a lei, non puoi sbagliare. Se ella ti sorregge, non cadi; se ella ti protegge, non hai da temere; se ella ti guida, non ti stanchi; se ella ti è propizia, giungerai alla meta…».[47]
Ci sembra che meglio Noi non potremmo terminare questa lettera enciclica, che invitandovi tutti con le parole del dottore mellifluo ad accrescere ogni giorno più la devozione verso l’alta Madre di Dio, e parimenti a imitare col più grande impegno le sue eccelse virtù, ciascuno secondo le peculiari condizioni della propria vita. Se nel secolo XII gravi pericoli minacciavano la chiesa e l’umanità, altri non meno gravi, senza dubbio, minacciano la nostra età. La fede cattolica, che dà all’uomo le più grandi consolazioni, non di rado è indebolita negli animi, e perfino in alcuni paesi e nazioni è aspramente combattuta in pubblico. E quando la religione cristiana è negletta e combattuta dai suoi nemici, si vede purtroppo che i costumi privati e pubblici tralignano dalla retta via e anche talora attraverso i meandri dell’errore si scende infelicemente nel fondo dei vizi.
Al posto della carità, che è vincolo di perfezione, di concordia e di pace, si fanno strada gli odi, le contese, le discordie.
Un che d’inquieto, d’angustioso e di trepido penetra nell’animo umano: c’è proprio da temere che, se la luce del Vangelo a poco a poco diminuisce e languisce in molti, o – peggio ancora – se viene respinta del tutto, verranno a crollare i fondamenti stessi della civiltà e della vita domestica; e in tal modo verranno tempi anche peggiori e più infelici.
Come, dunque, il dottore di Chiaravalle chiese l’aiuto della vergine Madre di Dio Maria e lo ebbe per l’età sua turbolenta, così noi tutti, con la medesima costante pietà e preghiera dobbiamo ottenere dalla divina madre nostra che a questi gravi mali, sovrastanti o temuti, essa impetri da Dio gli opportuni rimedi; e benigna e potente conceda che, con l’aiuto divino, arrida finalmente una sincera, solida e fruttuosa pace alla chiesa, ai popoli, alle nazioni.
Siano questi i pingui e salutari frutti, mercè la protezione di Bernardo, delle celebrazioni centenarie della sua pia morte; tutti si uniscano a Noi in queste preci e suppliche, e ad un tempo, osservando e meditando gli esempi del dottore mellifluo, si sforzino di seguire volenterosamente e con zelo le sue sante tracce.
Di questi salutari frutti sia propiziatrice l’apostolica benedizione che a voi, venerabili fratelli, ai vostri greggi e particolarmente a coloro che appartengono all’istituto di san Bernardo, impartiamo con effusione di cuore.
Roma, presso San Pietro, nella festa di pentecoste, il 24 maggio 1953, anno XV del Nostro pontificato.
PIO PP. XII
[1] PIUS PP. XII, Litt. enc. Doctor mellifluus octavo exeunte saeculo a piissimo s. Bernardi obitu, [Ad venerabiles Fratres Patriarchas, Primates, Archiepiscopos, Episcopos aliosque locorum Ordinarios pacem et communionem cum Apostolica Sede habentes], 24 maii 1953: AAS 45(1953), pp. 369-384.
I molti elogi di s. Bernardo. Sua scienza umana e divina. Bellezza e utilità del suo stile. Sue sentenze sull’unione dell’anima con Dio, particolarmente utili in tempi di naturismo e di laicismo come l’odierno, e altre sulla carità verso Dio e la quiete perfetta che ne ridonda sull’anima devota, stimolo efficace per la salvezza dell’anima propria ed altrui, come san Bernardo mostrò con l’esempio della sua vita, tutta spesa nel difendere la dottrina cattolica e i diritti della Santa Sede. Tra le virtù del santo, l’umiltà e il suo amore verso Gesù Cristo e la sua Madre; loro opportunità nelle angustie del tempo presente.
[2] MABILLON, Bernardi Opera, Praef. generalis, n. 23: PL 182, 26.
[3] Litt. apost. Contigit olim, XV kal. febr. [17 ian.] an. 1174, Anagniae d.
[4] Annal., t. XII, a. 1153, p. 385 D-E, Romae, ex Typographia Vaticani, 1607.
[5] Cf. Serm. in festo SS. Apost. Petri et Pauli, n. 3: PL 183, 332B.
[6] In Cantica, serm, XXXVI, 3: PL 183, 968CD.
[7] In Cantica, serm. VIII, 6: PL 183, 813AB.
[8] In Cantica, serm. LXIX, 2: PL 183, 1113A.
[9] In Nat. S. Ioan. Bapt., serm. 3: PL 183, 399B.
[10] In Cantica, serm. XIX, 7: PL 183, 866D.
[11] Cf. Brev. Rom. in festo SS. Nom. Iesu; die III intra octavam Concept. immac. B.M.V.; in octava Assumpt. B.M.V.; in festo septem Dolor. B.M.V.; in festo s acrat. Rosarii B.M.V.; in festo S. Iosephi Sp. B.M.V.; in festo S. Gabrielis Arch.
[12] Cf. Fénelon, Panégyrique de St. Bernard.
[13] In Cantica, serm. LXXXIII; 1: PL 183, 1181CD.
[14] In Cantica, serm. LXXXIII, 3: PL 183, 1182CD.
[15] In Cantica, serm. LXXXIII, 4: PL 183, 1183B.
[16] In Cantica, serm. LXXXIII, 6: PL 183, 1184C.
[17] De diligendo Deo, c. I: PL 182, 974A.
[18] In Cantica, serm. LXXXV, 8: PL 183, 1191D.
[19] De diligendo Deo, c. X, 28: PL 182, 991A.
[20] In Ps. 190, serm. XVII, 4: PL 183, 252C.
[21] In Cantica, serm. XXIII, 16: PL 183, 893AB.
[22] In Cantica, serm. LII, 3: PL 183, 1031A.
[23] De Consid., I, c. 7: PL 182, 737AB.
[24] De imit. Ch., I, 20, 5.
[25] In Cantica, serm. XLI, 6: PL 183, 987B.
[26] De Adventu D., serm. III, 5: PL 183, 45D.
[27] Epist. 20 (ad Card. Haimericum): PL 182, 123B.
[28] Epist. 221, 3: PL 182, 386D-387A.
[29] Epist. 147, 1: PL 182, 304C-305A.
[30] De Consid., Prolog.: PL 182, 727A; 728AB.
[31] De Consid., II c. 8: PL 182, 751CD.
[32] De Consid., III, c. 1: PL 182, 757B.
[33] Epist. 192: PL 182, 358D-359A.
[34] De error. Abaelardi, I, 2: PL 182, 1056A.
[35] Epist. 188: PL 182, 353AB.
[36] De error. Abaelardi, Praef.: PL 182, 1053, 1054D.
[37] De moribus et off. Episc., seu Epist. 42, 5,17: PL 182, 821A.
[38] Ibid.
[39] Vita Prima, II, 25: PL 185, 283B.
[40] Epist. 37: PL 182, 143B.
[41] Epist. 215: PL 182, 379B.
[42] Vita Prima, V, 12: PL 185, 358D.
[43] In Cantica, serm. LXXI, 5: PL 183, 1123D.
[44] In Cantica, serm. XV, 6: PL 183, 846D, 847AB.
[45] In vigil. Nat. Domini, serm. III, 10: PL 183, 100A.
[46] Serm. in Nat. Mariae, 7: PL 183, 441B.
[47] Hom. II super «Missus est», 17: PL 183, 70BCD, 71A.