LETTERA DI BARNABA

BARNABA LA LETTERA (“cliccare per leggerne il testo”)

La Lettera di Barnaba (gr. Βαρνάβα Ἐπιστολή), è una lettera anonima, una delle Lettere apocrife del Nuovo Testamento. Fu composta in greco koinè tra il 70 e il 132. Fu attribuita a Barnaba apostolo, collaboratore di Paolo di Tarso, ma dagli studiosi moderni è considerata opera di uno scrittore sconosciuto. La datazione, come il luogo di composizione della Lettera, sono incerti.

La supposta origine apostolica dell’opera era per alcuni cristiani motivo per assegnarle un’autorità simile a quella accordata ai libri neotestamentari; ma quando si fissò il canone del Nuovo Testamento, essa ne è rimasta esclusa e perciò è classificata come uno degli apocrifi del Nuovo Testamento. A differenza però di molti altri testi apocrifi, essa appartiene alla cosiddetta letteratura subapostolica, testi della fine del I secolo e dell’inizio del II secolo, quali la Didaché, la Prima lettera di Clemente, le Lettere di Ignazio e il Pastore di Erma, che godettero di una notevole fortuna al punto che alcuni di essi sono contenuti, inseriti immediatamente dopo i libri canonici, in antichi manoscritti della Bibbia, per esempio nel Codex Alexandrinus e nel Codex Hierosolymitanus.

La Lettera di Barnaba ha forma meno di lettera (le manca l’indicazione dell’identità del mittente e dei destinatari) che di omelia parenetica o di trattato teologico. Sia nella forma che nel contenuto manifesta spiccate somiglianze con la Lettera agli Ebrei, che Tertulliano attribuì a Barnaba apostolo. Il documento però non è totalmente privo di caratteristiche epistolari, e Reidar Hvalvik sentenzia che è davvero una missiva.

Sulla base della materia trattata, l’opera può essere divisa in due parti. La prima parte (capitoli 1–17) espone una polemica anticultuale, mette in contrapposizione il popolo giudeo e quello cristiano, e presenta il suo insegnamento sull’alleanza, sull’incarnazione del Figlio di Dio, sulla passione e sul battesimo, su Gesù Figlio di Dio e non dell’uomo, sul sabato e sul tempio. La seconda parte (capitoli 18–21) tratta la dottrina delle due vie, tema anche della coeva Didaché.[84]

Nella prima parte l’autore insiste che bisogna interpretare spiritualmente, non letteralmente, i testi veterotestamentari, quali le norme riguardanti i sacrifici (cap. 2), il digiuno (cap. 3), la circoncisione (cap. 9), i cibi proibiti (cap. 10), il sabato (cap. 15), il tempio (cap. 16). Mette al centro la passione di Gesù, causa della remissione dei peccati e spiegazione/compimento delle profezie e delle prefigurazioni dell’Antico Testamento: “Per questo il Signore sopportò di dare la sua carne alla distruzione: perché fossimo santificati con la remissione dei peccati, vale a dire con l’effusione del suo sangue.” Prefigurazioni di Gesù e della passione sono da lui individuate nel capro espiatorio (cap. 78), nella giovenca rossa (cap. 8), nella nomina di Giosuè, omonimo di Gesù in greco (cap. 12), nelle braccia di Mosè estese (secondo il testo biblico della Septuaginta, che era “la Bibbia della Chiesa primitiva”) durante la battaglia contro Amalek (cap. 12).