GIOVEDI’ 27^ SETTIMANA T.O. 07.10.2021 B.V. MARIA DEL ROSARIO Luca 11,5-13 “…bussate e vi sarà aperto”
… il VECCHIO FARISEO COMMENTA….
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Dal Vangelo secondo Luca 11,5-13
In quel tempo, Gesù disse ai discepoli «Se uno di voi ha un amico e a mezzanotte va da lui a dirgli “Amico, prestami tre pani, perché è giunto da me un amico da un viaggio e non ho nulla da offrirgli”, e se quello dall’interno gli risponde “Non m’importunare, la porta è già chiusa, io e i miei bambini siamo a letto, non posso alzarmi per darti i pani”, vi dico che, anche se non si alzerà a darglieli perché è suo amico, almeno per la sua invadenza si alzerà a dargliene quanti gliene occorrono. Ebbene, io vi dico: chiedete e vi sarà dato, cercate e troverete, bussate e vi sarà aperto. Perché chiunque chiede riceve e chi cerca trova e a chi bussa sarà aperto. Quale padre tra voi, se il figlio gli chiede un pesce, gli darà una serpe al posto del pesce? O se gli chiede un uovo, gli darà uno scorpione? Se voi dunque, che siete cattivi, sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre vostro del cielo darà lo Spirito Santo a quelli che glielo chiedono!». Parola del Signore
Mediti…AMO
Questa memoria Mariana, di origine devozionale, si collega con la vittoria di Lepanto (1571), che arrestò la grande espansione dell’impero ottomano. Il Papa San Pio V attribuì quello storico evento alla preghiera che il popolo cristiano aveva indirizzato alla Vergine nella forma del Rosario.
Secondo quanto narra la tradizione, c’è una speciale protezione mariana per tutti coloro che lo recitano devotamente, la garanzia che i fedeli non moriranno senza sacramenti, l’assicurazione che quanti propagheranno il Rosario verranno soccorsi dalla Madonna in ogni loro necessità.
Nel 1212 san Domenico di Guzman, durante la sua permanenza a Tolosa, vide la Vergine Maria che gli consegnò il Rosario, come risposta ad una sua preghiera, a Lei rivolta, per sapere come combattere l’eresia albigese.
Fu così che il Santo Rosario divenne l’orazione più diffusa per contrastare le eresie e fu l’arma determinante per vincere i musulmani a Lepanto. Come già per Poitiers (ottobre 732) e poi sarà per Vienna (settembre 1683), la battaglia di Lepanto fu fondamentale per arrestare l’avanzata dei musulmani in Europa. E tutte e tre le vittorie vennero imputate, oltre al valore dei combattenti, anche e soprattutto all’intervento divino. La battaglia navale di Lepanto si svolse nel corso della guerra di Cipro.
Era il 7 ottobre 1571 quando le flotte musulmane dell’Impero ottomano si scontrarono con quelle cristiane della Lega Santa, che riuniva le forze navali della Repubblica di Venezia, dell’Impero spagnolo (con il Regno di Napoli e di Sicilia), dello Stato Pontificio, della Repubblica di Genova, dei Cavalieri di Malta, del Ducato di Savoia, del Granducato di Toscana e del Ducato di Urbino, federate sotto le insegne pontificie. Dell’alleanza cristiana faceva parte anche la Repubblica di Lucca, che pur non avendo navi coinvolte nello scontro, concorse con denaro e materiali all’armamento della flotta genovese.
Prima della partenza della Lega Santa per gli scenari di guerra, san Pio V benedisse lo stendardo raffigurante, su fondo rosso, il Crocifisso posto fra gli apostoli Pietro e Paolo e sormontato dal motto costantiniano In hoc signo vinces.
Tale simbolo, insieme con l’immagine della Madonna e la scritta S. Maria succurre miseris, issato sulla nave ammiraglia Real, sarà l’unico a sventolare in tutto lo schieramento cristiano quando, alle grida di guerra e ai primi attacchi turchi, i militi si uniranno in una preghiera accorata. Mentre si moriva per Cristo, per la Chiesa e per la Patria, si recitava il Santo Rosario: e i prigionieri remavano ritmando il tempo con le decine dei misteri. L’annuncio della vittoria giungerà a Roma 23 giorni dopo, portato da messaggeri del Principe Colonna.
Il trionfo fu attribuito all’intercessione della Vergine Maria, tanto che san Pio V, nel 1572, istituì la festa di Santa Maria della Vittoria, trasformata da Gregorio XIII in «Madonna del Rosario».
Comandante generale della flotta cristiana era Don Giovanni d’Austria di 24 anni, figlio illegittimo del defunto Imperatore Carlo V e fratellastro del regnante Filippo II.
Al fianco della sua nave Real erano schierate: la Capitana di Sebastiano Venier, capitano generale veneziano; la Capitana di Sua Santità di Marcantonio Colonna, ammiraglio pontificio; la Capitana di Ettore Spinola, capitano generale genovese; la Capitana di Andrea Provana di Leinì, capitano generale piemontese; l’ammiraglia Vittoria del priore Piero Giustiniani, capitano generale dei Cavalieri di Malta.
In totale, la Lega schierò una flotta di 6 galeazze e circa 204 galere. A bordo erano imbarcati non meno di 36.000 combattenti, tra soldati, venturieri e marinai.
A questi si aggiungevano circa 30.000 galeotti rematori. Comandante supremo dello schieramento ottomano era Müezzinzade Alì Pascià. La flotta turca, munita di minore artiglieria rispetto a quella cristiana, possedeva 170-180 galere e 20 o 30 galeotte, cui si aggiungeva un imprecisato numero di fuste e brigantini corsari. La forza combattente, comprensiva di giannizzeri, ammontava a circa 20-25.000 uomini.
L’ammiraglio, considerato il migliore comandante ottomano, Uluč Alì, era un apostata di origini calabresi, convertitosi all’Islam. Alì Pascià si trovava a bordo dell’ammiraglia Sultana, sulla quale sventolava un vessillo verde, dove era stato scritto, a caratteri d’oro, 28.900 volte il nome di Allah.
Per questo san Pio V, Papa mariano e domenicano, affidò a Maria Santissima le armate ed i destini dell’Occidente e della Cristianità, minacciati dai musulmani.
Da allora in poi si utilizzò ufficialmente il titolo di Auxilium Christianorum, titolo che non sembra doversi attribuire direttamente al Pontefice, ma ai reduci vittoriosi, che ritornando dalla guerra passarono per Loreto a ringraziare la Madonna.
I forzati che erano stati messi ai banchi dei remi furono liberati: sbarcarono a Porto Recanati e salirono in processione alla Santa Casa, dove offrirono le loro catene alla Madonna; con esse furono costruite le cancellate poi poste agli altari delle cappelle.
Lo stendardo della flotta fu donato alla chiesa di Maria Vergine a Gaeta, “dove è tuttora conservato e che attende di essere ancora issato nei cuori di coloro che si professano cristiani e vogliono difendere le proprie radici”.
La memoria del Rosario conduce il pensiero alle prime parole dell’Ave Maria “…Ti saluto, o piena di grazia, il Signore è con te“, che ripetiamo tante volte quando preghiamo il Rosario.
E un modo di metterci alla presenza di Maria e nello stesso tempo alla presenza del Signore, perché “il Signore è con lei“, di rimanere in maniera semplice con la Madonna, rivivendo con lei tutti i misteri della vita di Gesù, tutti i misteri della nostra salvezza.
Il racconto dell’annunciazione a prima vista ci presenta un solo mistero, ma se guardiamo bene vi si trovano tutti i misteri del Rosario: l’annunciazione, ma anche la visitazione, perché vi si nomina Elisabetta, e il Natale di Gesù “Concepirai un figlio, lo darai alla luce e lo chiamerai Gesù“.
Anche i misteri gloriosi sono annunciati “Sarà grande e chiamato Figlio dell’Altissimo; il Signore gli darà il trono di Davide suo padre… e il suo regno non avrà fine“. E nella risurrezione e ascensione che Gesù riceve la dignità di re messianico, la gloria eterna nel regno del Padre.
Dunque, misteri gaudiosi e misteri gloriosi. Sembra che manchino quelli dolorosi, ma troviamo anche quelli, non descritti, ma nel loro principio. Pensiamo alla risposta di Maria all’annuncio dell’Angelo: non è un grido di trionfo, ma una parola di umiltà “Eccomi, sono la serva del Signore“, che la mette in profonda consonanza con il Servo del Signore annunciato da Isaia, il Servo che sarà glorificato, ma prima umiliato, condannato, ucciso, “trafitto per i nostri delitti“.
Maria sa, per ispirazione dello Spirito Santo, che i misteri gloriosi non possono avvenire senza passaggio attraverso l’obbedienza fiduciosa e dolorosa al disegno divino. I misteri del Rosario sono una sola unità, ed è importante sapere che in ogni mistero gaudioso ci sono in radice tutti i misteri gloriosi e anche i dolorosi, come via per giungere alla gloria.
A proposito della preghiera del Rosario, un piccolo testo di una vecchia rivista benedettina diceva “…Dì il tuo Rosario dice Dio e non fermarti ad ascoltare gli sciocchi che dicono che è una devozione sorpassata e destinata a morire. Io so che cos’è la pietà, nessuno può dire che non me ne intendo, e ti dico che il Rosario mi piace, quando è recitato bene. I Padre Nostro, le Avemarie, i misteri di mio Figlio che meditate, sono Io che ve li ho dati. Questa preghiera te lo dico io è come un raggio di Vangelo, nessuno me la cambierà. Il Rosario mi piace dice Dio semplice e umile, come furono mio Figlio e sua Madre…“.
ESAME DEL TESTO EVANGELICO
Gesù è in cammino verso Gerusalemme, dove lo attende la Croce.
Nel suo cammino insegna ai discepoli, si ferma nei paesi che incontra e, soprattutto, prega.
È interessante notare come la narrazione che riporta il cosiddetto “Padre nostro” sia introdotta proprio dalla scena in cui Gesù si ferma a pregare, a colloquiare spiritualmente con Dio.
Al tempo era consuetudine che un rabbì producesse una preghiera da trasmettere ai propri discepoli, la quale fungeva da condensato dei suoi insegnamenti.
Ci insegna che la preghiera non deve essere prigioniera di forme standardizzate, non è, per il cristiano, la ripetizione di un mantra, o un modo per chiedere favori personali a Dio, ma un modo sempre nuovo di mettersi in contatto con quel Dio che si fa vicino, quel Dio che Gesù chiede di chiamare, come Lui stesso lo chiamava, in aramaico, “Abbà, Papà mio…”
Risuona ancora nelle nostre orecchie il contesto della lectio di ieri mattina, IN CUI ABBIAMO PROVATO LA GIOIA E LO STUPORE DI SENTIRCI FIGLI DI DIO E DI POTER RIVOLGERE A LUI LO STESSO GRIDO FILIALE DI GESÙ “Abbà…PADRE!”
E oggi il Vangelo “aggiusta il tiro”, mostrandoci un padre terreno che sa dare da mangiare ai figli cose buone.
Così anche noi, con la fiducia e l’insistenza dei figli, dobbiamo rivolgerci al Padre celeste, ben sapendo che otterremo da Lui tutto, anche le cose più grandi, SE FACCIAMO LA SUA VOLONTA’!
L’ultima frase contiene una sorpresa, perché Gesù in modo del tutto inaspettato -diversamente dal vangelo sinottico di Matteo (7,11)- conclude parlando del dono per eccellenza, lo Spirito Santo, che supera infinitamente tutte le altre “cose buone” «…quanto più il Padre vostro del cielo darà lo Spirito Santo a quelli che glielo chiedono».
Cosa possiamo intendere perciò?
Presa da sola, la parabola invita l’ascoltatore a chiedersi cosa avrebbe fatto al posto del padre di famiglia, svegliato a mezzanotte dall’amico importuno.
Ma Luca 11,8 identifica l’ascoltatore con l’amico che bussa alla porta. Luca ci vuole insegnare a pregare e al modo con cui dobbiamo pregare, e ci rassicura che Dio sempre finirà per non lasciare con le mani vuote a chi si rivolge a Lui, anche se la richiesta avviene sfacciatamente e a volte in modo intempestivo.
Implicitamente Dio è presentato da Gesù come quell’amico, importunato, che non mancherà di attendere ciò che il suo amico invadente gli chiede “…Se l’amico, disturbato durante la notte nel suo sonno, non dubita un momento di rispondere alla richiesta del vicino che si trova in difficoltà, anche se l’intera famiglia si sveglierà all’aprire la porta, quanto più Dio…“
Che mirabile insegnamento… allora anche io, immeritevole e misero diacono tra i più miseri, posso andare dal Padre mio e Nostro, SEMPRE, anche alle ore più intempestive e con reiterazione impertinente, perché so che il mio cuore riposa fiducioso in quello Suo. Ci mostra una “preghiera perseverante”: se la preghiera viene dal cuore, deve sempre essere presentata a Dio.
E so che Dio MIA AMA. Ama me e la mia miseria e io sono tranquillo e felice, come un bimbo svezzato in braccio alla Madre.
Egli, l’Altissimo, il Dio delle Altezze, NON È PIÙ IL DIO DEGLI ESERCITI!
EGLI NON SIGNOREGGIA… ma è il mio “Abbà… Papà…” e chiede di essere chiamano AMICO.
Nel cammino di questo tempo, nelle meditazioni della mattina abbiamo visto in filigrana, come un filo d’oro che unisce il cammino dell’insegnamento che Cristo ci rivolge:
- Lui è il Figlio
- Nel Figlio siamo Figli di Dio
- Come figli possiamo chiedere al Padre, ma non ne siamo capaci
- Il Signore ci insegna a pregare… PADRE NOSTRO… la storia della nascita di una Amicizia…
- E oggi come dobbiamo pregare questo Amico\Padre e quando…
E Gesù racconta questa bellissima parabola che abbiamo ascoltato «…Se uno di voi ha un amico… se un figlio chiede al padre…». Una storia d’amicizia ci insegna come pregare, una vicenda di affetti è il segreto della preghiera.
“Amico, prestami tre pani, perché è arrivato da me un amico”. Un uomo è uscito nella notte, ha camminato fino alla casa dell’amico, bussa e non chiede per sé, ma per un amico che a sua volta ha camminato nella notte.
Siamo così: povera gente, ricca solo di amici, che per avere del pane, per avere ciò che fa vivere, trova nel proprio mondo di affetti il coraggio di uscire nel colmo della notte, di bussare a porte chiuse, di chiedere e tornare a chiedere.
Nella notte, ma guidati dalla bussola del cuore. E non solo dalla mappa dei nostri bisogni. Il pane e gli amici sono necessari e sufficienti a vivere bene.
E allora questo mondo e le sue notti si coprono di una rete di strade che ci portano da casa a casa, da cuore a cuore.
Il mondo si copre di un fittissimo reticolo di fiducia: pregare è far circolare il pane dell’amore, nelle vene del mondo; pregare è instaurare in questo nostro mondo, ormai sfiduciato e diffidente, finalmente, un tessuto di fiducia e di carità.
Ma…c’è sempre un ma…… TRA I DUE AMICI C’E’ UNA PORTA CHIUSA. Ma Gesù ci dice «…Chiedete, cercate, bussate».
Anche se la porta è chiusa, anche quando la fiducia si fa difficile e Dio sembra muto come una lapide: oltre la porta sta il canto dell’amore… QUELLO CON LA “A” MAIUSCOLA, PERCHÉ È L’IMMAGINE DI QUELLO DI DIO.
Infatti la preghiera è una storia di affetti, DI AMORE, DI FIDUCIA, DI CERTEZZE, dove OGNUNO DI NOI è CHIAMATO A SCOPRIRE DI ESSERE IL FIGLIOL PRODIGO, SULLA STRADA DEL GRANDE RITORNO.
«Chiedete», esorta il Signore. Ma noi non sappiamo neppure che cosa chiedere.
Per questo IL CRISTO ci viene incontro con la preghiera del Padre Nostro, CHE È IL FARMACO SALVAVITA, NECESSARIO PER LA GUARIGIONE DEL NOSTRO DOMANDARE MALATO. E ci insegna le poche cose veramente necessarie:
- IL PANE
- IL PERDONO
- E LA LOTTA CONTRO IL MALE.
Il pane quotidiano, che ci fa quotidianamente dipendenti dal cielo e dagli altri, perché il Padre Nostro è la preghiera dove mai si dice «io», dove mai si dice «mio», ma sempre «tuo» e «nostro»:
- PADRE NOSTRO
- SIA SANTIFICATO IL TUO NOME
- VENGA IL TUO REGNO
- SIA FATTA LA TUA VOLONTÀ
- DACCI OGGI IL NOSTRO PANE QUOTIDIANO
- RIMETTI A NOI I NOSTRI DEBITI
- COME ANCHE NOI LI RIMETTIAMO AI NOSTRI DEBITORI
- E NON CI ABBANDONARE ALLA TENTAZIONE
- MA LIBERACI DAL MALE.
E il Signore, attraverso Luca, ci insegna a chiedere QUEL PERDONO, che ci è necessario e vitale, per poter riprendere a vivere insieme, impegnandoci ad essere per gli altri quello che vogliamo che Dio sia per noi.
Perché nella versione di Luca, al centro del discorso c’è il perdono dei peccati. Possiamo chiedere certamente il perdono, ma non ci sarà dato, ovviamente, in modo gratuito:
prendendo esempio dalla preghiera di Gesù, comprendiamo che possiamo produrre la richiesta del perdono, solamente se, per primi, siamo stati capaci di perdonare gli altri che hanno peccato contro di noi: facendoli diventare in questo modo nostri fratelli.
Perdonare il nemico, in altri termini, non è uno sforzo sovraumano che solo il Figlio di Dio può operare, ma è la condizione grazie alla quale i nostri stessi peccati vengono perdonati da Dio, che in questo modo diventa Abbà.
E infine ci chiede di lottare ogni istante contro il male, non per costruire un mondo degno dell’uomo, MA PER COSTRUIRE UN MONDO DEGNO DI QUELLA PRIMIGENIA CREAZIONE DI DIO, che noi abbiamo -io per primo- sporcato.
Un particolare interessante: il testo lucano parla correttamente di “ABBANDONO” alla tentazione il “PAPA’ NOSTRO” che è “FONS ET CULMEN” (ORIGINE E FINE ULTIMO) DELL’AMORE, non vuole certo indurre i figli alla tentazione.
Perché se così fosse, Dio potrebbe essere paragonato a coloro che giocano a bruciare le formiche puntando una lente di ingrandimento su di un formicaio (con l’aggravante – se così si può dire – che quel formicaio l’ha pure creato).
L’Amore, il Babbo, è molto lontano da questa logica prettamente umana, nessun altro animale causa dolore all’altro animale per svago.
E anche questa mattina regalo al vostro cuore le dolci parole di una santa spagnola dottore della Chiesa e maestra di preghiera, Teresa Sánchez de Cepeda Dávila y Ahumada (1515–1582), religiosa Carmelitana e mistica spagnola, nota come TERESA D’AVILA “L’orazione, a mio parere, non è altro che un intimo rapporto di amicizia, nel quale ci si trattiene spesso da solo a solo con quel Dio da cui ci si sa amati.”
Amo anche un altro insegnamento di Santa Teresa D’Avila, che voglio condividere con voi, nel quale la santa ci insegna a meditare sul nostro modo di offendere Dio e delle conseguenze che Nostro Signore riporta sul suo Corpo quando pecchiamo:
«I miei occhi caddero sopra una immagine che era stata posta lì, in attesa della solennità che doveva farsi in monastero. Raffigurava Nostro Signore coperto di piaghe. Appena la guardai mi sentii tutta commossa, perché rappresentava al vivo quanto Egli aveva sofferto per noi: fu così grande il dolore che provai al pensiero dell’ingratitudine con la quale rispondevo al suo amore, che mi parve il cuore mi si spezzasse. Mi gettai ai suoi piedi tutta in lacrime, e lo supplicai a darmi forza per non offenderlo più.»
Ella ebbe questa visione estatica che ribaltò la propria vita religiosa, con una grande conversione.
Che Iddio ci aiuti…..
Ragioniamoci sopra…
Sia Lodato Gesù, il Cristo!