Bolla Transiturs, di Papa Urbano IV, data in Orvieto, 11 agosto 1264, con la quale si istituisce e promulga la solennità del “Corpus et Sanguis Domini”

Transiturus de Hoc Mundo. Traduzione italiana tratta da Ezio Franceschini, Origine e stile della Bolla «Transiturus» in AA.VV.Studi Eucaristici, Atti della settimana internazionale di alti studi teologici e storici, Orvieto, 21-26settembre 1964, Tipografia Fratelli Scaravaglio & C., Torino, 1966; pp. 313-317.

 

Urbano vescovo

servo dei servi di Dio,

ai venerabili fratelli patriarchi, arcivescovi, vescovi e a tutti gli altri prelati ecclesiastici,

salute e apostolica benedizione.

“Sul punto di passare da questo mondo al Padre, il Salvatore nostro, Gesù Cristo Signore, essendo imminente il tempo della Sua Passione, consumata la cena, in memoria della Sua morte, istituì l’eccelso e meraviglioso Sacramento del Suo Corpo e del Suo Sangue, lasciandoci in cibo il corpo e in bevanda il sangue. Infatti «ogniqualvolta mangiamo questo pane e beviamo il calice annunziamo la morte del Signore» (1 Cor. XI, 26).

Nell’istituire, poi, questo Sacramento di salvezza Egli disse agli Apostoli: Fate questo in memoria di me (1 Cor. XI, 24) affinché questo altissimo e venerabile Sacramento fosse per noi massimo e mirabile documento del grande amore con cui Egli ci amò. Documento, dico, meraviglioso e stupendo, dilettevole e soave, carissimo e più di ogni altro prezioso, nel quale si rinnovano i prodigi e sono costanti le meraviglie (Eccli. XXXVI, 6), nel quale è riposta ogni delizia e ogni soavità (Sap. XVI, 20) e la stessa dolcezza di Dio viene gustata, nel quale, infine otteniamo aiuto di vita e di salvezza.

È questo il documento dolcissimo, il documento santissimo, il documento salvifico, nel quale richiamiamo il grato ricordo della nostra redenzione; nel quale siamo distolti dal male, confortati nel bene, avviati ad aumento di virtù e di grazie; nel quale, inoltre, siamo ristorati dalla presenza corporale dello stesso Salvatore. Altre cose infatti, di cui facciamo memoria, noi abbracciamo con l’animo e con la mente, ma non per questo ne otteniamo la presenza reale: invece in questa sacramentale commemorazione di Cristo lo stesso Cristo è con noi, presente sotto altra forma, ma nella propria sostanza, veracemente.

Infatti mentre stava per salire al Cielo disse agli Apostoli e ai loro seguaci: Ecco, io sono con voi tutti i giorni fino alla consumazione del mondo (Mt. XXVIII, 20), con benevola promessa confortandoli che rimarrebbe e sarebbe con loro anche con presenza corporale. O ricordo prezioso e degno di non essere dimenticato mai, con cui ricordiamo che la nostra morte fu uccisa, che la nostra perdizione fu distrutta dalla morte della Vita, e che l’albero di vita confitto sull’albero di morte produsse per noi frutto di salvezza!

O ricordo glorioso, che riempie di gioia salutare gli animi dei fedeli e colmandoli di letizia dà loro lacrime di devozione! Noi esultiamo invero ricordando la nostra liberazione; e ricordando la passione del Signore, per mezzo del quale fummo liberati, a stento tratteniamo le lacrime. In questo sacratissimo ricordo sono perciò in noi, in unione soave, gioia e lacrime, perché in esso siamo ripieni di gaudio mentre piamente piangiamo, e nello stesso tempo, mentre versiamo lacrime, devotamente godiamo: con lacrime liete e letizia nel pianto.

Anche il cuore, infatti, inondato di gioia immensa, rende dolcemente stillanti gli occhi. O immensità di amore divino, o sovrabbondanza di pietà divina, o eccesso di larghezza divina! Ci ha dato infatti, il Signore, ciò che è Suo, perché ha messo ogni cosa sotto i nostri piedi (Salmo, VIII, 8) e su tutte le creature della terra ci ha dato il dominio. E perfino con il ministero degli spiriti celesti nobilita e sublima la dignità dell’uomo: sono, infatti, destinati a servizio di coloro che ottengono l’eredità della salvezza (Ebr. I, 14).

E pur essendo così copiosa la Sua munificenza verso di noi, volendoci Egli mostrare con immensa liberalità la sua carità senza confini, ci ha offerto Se stesso: e travalicando ogni pienezza di dono e ogni limite di amore si è dato a noi in cibo. Quale singolare e ammirevole liberalità è quella in cui il donatore viene in dono, e il dono è la stessa cosa del donatore! Quale abbondante e prodiga larghezza è quella con la quale uno dà se stesso, e in cui così sovrabbonda il desiderio di dare che pur essendo colma di donativi di cose si allarga fino al dono del donatore: e tanto più si compie quanto più copiosamente si è effusa!

Si è dato a noi, dunque, il Salvatore in cibo, perché – essendo l’uomo precipitato nella morte per un cibo – fosse mediante un cibo rilevato a vita; cadde l’uomo per il cibo del legno portatore di morte, è rialzato l’uomo per il cibo del legno che dà vita; nel primo albero pendette l’esca di morte; nel secondo l’alimento di vita; l’aver mangiato di quello produsse ferita, il gusto di questo apportò salute; il gusto ferì e il gusto curò, e di là donde era venuta la ferita venne anche la medicina: e da dove uscì la morte, di là venne la vita. Di quel primo gusto si dice: in qualunque giorno avrai mangiato, morrai di morte (Gen. II, 17); del secondo si legge: se qualcuno avrà mangiato di questo pane vivrà in eterno (Gv. VI, 52).

Questo è il cibo che ristora pienamente, veramente nutre e più di ogni altro impingua: non il corpo, ma il cuore, non la carne, ma l’anima, non il ventre, ma la mente. All’uomo dunque, poiché aveva bisogno anche di nutrimento spirituale, il misericordioso Salvatore provvide e gli stesso con provvido pensiero il più nobile e più prezioso cibo di questo mondo per l’alimentazione dell’anima. E fu bella liberalità, e conveniente opera di pietà che il Verbo eterno di Dio, il quale cibo è ristoro di ogni creatura razionale, fatto carne, si desse in cibo alla creatura razionale, fatta di carne e di corpo, cioè all’uomo.

Il pane degli angeli, infatti, divenne cibo dell’uomo (Ps. LXXVII, 25) e perciò il Salvatore stesso disse: la mia carne è veramente cibo e il mio sangue è veramente bevanda (Gv. VI, 56). Questo pane si prende, ma non si consuma; si mangia, ma non si tramuta: perché non si tramuta affatto in chi lo mangia, ma, se è ricevuto degnamente, è chi lo riceve che diventa ad esso conforme. O eccellentissimo Sacramento, da adorare, venerare, onorare, glorificare, amare, meditare, innalzare con le maggiori lodi, esaltare con le preghiere più alte, onorare con ogni zelo, perseguire con ogni ossequio di devozione, ritenere con animo puro! O memoriale nobilissimo, da ricordare nell’intimo del cuore, da radicare fermamente nell’animo, da custodire diligentemente nelle viscere del cuore, da richiamare in meditazione e celebrazione frequente!
Di esso dobbiamo celebrare continuamente il ricordo per essere sempre memori di Colui di cui sappiamo essere il memoriale per eccellenza; perché quanto più spesso si vede un dono o un regalo ricevuto, tanto più ci si ricorda della persona che lo ha dato. Benché, pertanto, questo memorabile Sacramento si rievochi con frequenza nelle quotidiane celebrazioni della Messa, riteniamo conveniente e degno che si faccia di esso più celebre solenne ricordo almeno una volta all’anno, specialmente per confondere la perfidia e la insania degli eretici.

Nel giorno della Cena del Signore, infatti, in cui Cristo stesso istituì questo Sacramento, la Chiesa universale, occupatissima nella riconciliazione dei penitenti, nella confezione del sacro crisma, nell’adempimento del mandato sulla lavanda dei piedi ed in altre cerimonie, non può attendere pienamente alla celebrazione di questo eccelso Sacramento. Ora la Chiesa, per ciò che si riferisce ai Santi che noi veneriamo durante il corso dell’anno, benché il loro ricordo frequentemente si rinnovi e nelle litanie e nelle Messe e in altri modi, tuttavia fa sì che il loro natalizio sia rievocato con maggiore solennità in giorni stabiliti lungo l’anno liturgico, celebrando speciali funzioni, a tale scopo, in quegli stessi giorni.

E poiché può accadere che in tali feste, quanto alla dovuta solennità, qualche cosa venga omesso dai fedeli per negligenza, per preoccupazioni di cose mondane o per altra causa dovuta ad umana fragilità, stabilì la stessa Chiesa un giorno preciso in cui fosse fatta commemorazione generale di tutti i Santi; affinché in questa comune loro festività si riparasse a ciò che fosse stato trascurato nelle feste proprie di ciascuno di loro.

A maggior ragione dunque deve farsi ciò nei riguardi di questo meraviglioso Sacramento del Corpo e del Sangue di Gesù Cristo, che di tutti i Santi è gloria e corona, così che esso rifulga di speciale festività e amore, affinché con dovuto zelo si supplisca e ripari a quanto si è forse trascurato in solennità nelle altre Messe, e i fedeli – spinti dalla stessa festa – riandando dentro di sé al passato, ripaghino attentamente in umiltà di spirito e purezza di cuore quanto con minor pienezza hanno compiuto durante la celebrazione delle Messe, avvinti forse da preoccupazioni mondane, o per negligenza, o per umana fragilità. Seppimo, poi, un tempo, quando eravamo insigniti di minore dignità, che era stato divinamente rivelato ad alcuni fedeli doversi una siffatta festa celebrare in tutta la Chiesa.

Noi pertanto, a corroborazione e ad esaltazione della fede cattolica, degnamente e a ragion veduta abbiamo ritenuto di stabilire che di così grande Sacramento, oltre la quotidiana commemorazione che ne fa la Chiesa, si celebri ogni anno più speciale e più solenne memoria, designando e fissando a questo scopo un giorno preciso, e cioè il giovedì che segue immediatamente l’ottava dopo Pentecoste, affinché in tale giorno le turbe devote dei fedeli accorrano zelanti alla chiesa a questo scopo, e clero e popolo uniti in gioia comune erompano in canti di lode, e i cuori e i voti di tutti, le bocche, le labbra, risuonino di inni e di letizia salutare, e trionfi la fede, la speranza tripudii, la carità esulti, la devozione applauda, la purezza giubili, la sincerità si allieti; i fedeli ad uno ad uno con alacre animo e volontà pronta si raccolgano, lodevolmente rivolgendo ogni loro cura a meglio partecipare ai riti di così grande solennità; e voglia Iddio che l’ardore dell’affetto infiammi i fedeli di Cristo a servirlo in modo che – avanzando essi per abbondanza di meriti presso di Lui per mezzo di questi ed altri atti di pietà – Egli stesso, che si è dato loro in prezzo e si dà loro in cibo, si dia a loro come premio, finito il corso della vita.

Perciò ammoniamo ed esortiamo tutti voi nel Signore e vi ordiniamo con questa lettera apostolica di celebrare ogni anno una così eccelsa e gloriosa festività, nel suddetto giovedì con devozione e solennità, e di farla celebrare con ogni zelo in tutte le chiese delle vostre città e diocesi, esortando personalmente, e tramite altri, tutti i vostri fedeli, durante la domenica precedente il giovedì anzidetto, con salutari ammonimenti ed ogni sollecitudine, affinché, con sincera e pura confessione, con elargizione di elemosine, con attente e pie preghiere ed altri atti di devozione e di pietà, cerchino di prepararsi in modo tale da meritare di divenire partecipi, con la grazia di Dio, di questo preziosissimo Sacramento, e da poter riceverlo con reverenza nel suddetto giovedì, conseguendo, per sua virtù, aumento di grazie.

Noi poi, volendo spronare con doni spirituali i fedeli ad onorare e celebrare devotamente così grande solennità, fiduciosi nella misericordia di Dio onnipotente e confidando nell’autorità dei beati apostoli Pietro e Paolo, benevolmente rimettiamo, delle penitenze loro ingiunte, per quanti si saranno veracemente pentiti e confessati, cento giorni a chi avrà partecipato all’ufficio mattutino della detta festa nella chiesa dove essa sarà celebrata, cento a chi avrà partecipato alla Messa, cento a chi sarà stato presente ai primi vespri della festa, cento per i secondi vespri, quaranta per ciascuna delle ore di prima, terza, sesta, nona e compieta; a quanti poi saranno intervenuti agli uffici di mattutino, di vespro, alla Messa, agli uffici delle ore anzidette, durante l’ottava della festa, cento giorni per ciascun giorno dell’ottava stessa.

Dato a Orvieto il terzo giorno prima delle Idi di agosto, anno terzo del nostro pontificato (11 agosto 1264).»