… il VECCHIO FARISEO COMMENTA…. In illo tempore: dixit Iesus…
Vedere approfondimenti sul nostro sito WWW.INSAECULASAECULORUM.ORG
Dal Vangelo secondo MATTEO 14,13-21
In quel tempo, avendo udito [della morte di Giovanni Battista], Gesù partì di là su una barca e si ritirò in un luogo deserto, in disparte. Ma le folle, avendolo saputo, lo seguirono a piedi dalle città. Sceso dalla barca, egli vide una grande folla, sentì compassione per loro e guarì i loro malati. Sul far della sera, gli si avvicinarono i discepoli e gli dissero: «Il luogo è deserto ed è ormai tardi; congeda la folla perché vada nei villaggi a comprarsi da mangiare». Ma Gesù disse loro: «Non occorre che vadano; voi stessi date loro da mangiare». Gli risposero: «Qui non abbiamo altro che cinque pani e due pesci!». Ed egli disse: «Portatemeli qui». E, dopo aver ordinato alla folla di sedersi sull’erba, prese i cinque pani e i due pesci, alzò gli occhi al cielo, recitò la benedizione, spezzò i pani e li diede ai discepoli, e i discepoli alla folla. Tutti mangiarono a sazietà, e portarono via i pezzi avanzati: dodici ceste piene. Quelli che avevano mangiato erano circa cinquemila uomini, senza contare le donne e i bambini. Parola del Signore
Mediti…AMO
LA VITA E IL PENSIERO DEL SANTO
Alfonso (1696 –1787), già avvocato del foro di Napoli, lasciò la toga per la vita ecclesiastica. Vescovo di Sant’Agata dei Goti (1762-1775) e fondatore dei Redentoristi (1732), DOTTORE DELLA CHIESA, attese con grande zelo alle missioni al popolo, si dedicò ai poveri e ai malati, fu maestro di scienze morali, che ispirò a criteri di prudenza pastorale, fondata sulla sincera ricerca oggettiva della verità, ma anche sensibile ai bisogni e alle situazioni delle coscienze.
Compose scritti ascetici di vasta risonanza.
Apostolo del culto all’Eucaristia e alla Vergine, guidò i fedeli alla meditazione dei novissimi, alla preghiera e alla vita sacramentale.
L’intento era quello di imitare Cristo, cominciando dai Redentoristi da lui fondati, i quali andavano via via operando per la redenzione di tante anime con missioni, esercizi spirituali e varie forme di apostolato straordinario.
Nasce a Napoli il 27 settembre 1696 da genitori appartenenti alla nobiltà cittadina. Studia filosofia e diritto. Dopo alcuni anni di avvocatura, decide di dedicarsi interamente al Signore. Ordinato prete nel 1726, Alfonso Maria dedica quasi tutto il suo tempo e e il suo ministero agli abitanti dei quartieri più poveri della Napoli settecentesca.
Mentre si prepara per un futuro impegno missionario in Oriente, prosegue l’attività di predicatore e confessore e, due o tre volte all’anno, prende parte alle missioni nei paesi all’interno del regno.
Nel maggio del 1730, in un momento di forzato riposo, incontra i pastori delle montagne di Amalfi e, constatando il loro profondo abbandono umano e religioso, sente la necessità di rimediare ad una situazione che lo scandalizza sia come pastore che come uomo colto del secolo dei lumi.
Lascia Napoli e con alcuni compagni, sotto la guida del vescovo di Castellammare di Stabia, fonda la Congregazione del SS. Salvatore. Intorno al 1760 viene nominato vescovo di Sant’Agata, e governa la sua diocesi con dedizione, fino alla morte, avvenuta il 1 agosto del 1787.
Tracciare un profilo breve di un santo, grande e longevo quale fu il napoletano Alfonso Maria de’ Liguori, è quasi un’impresa. Qui lo si ricorda soprattutto per la sua tutela dei moralisti, come dal nuovo titolo conferitegli da papa Pio XII nel 1950. Il significato del suo nome, Alfonso, rispecchia sinteticamente la sua personalità: valoroso e nobile.
L’attualità del santo di Napoli sta nel fatto che, pur contrastando nella sostanza il relativismo morale e riconoscendo la Chiesa cattolica come suprema maestra, diede spazio alle “voci interiori della coscienza” e mantenne una posizione di equilibrio e di pratica prudenza tra i due estremi del rigorismo e del lassismo.
Tale posizione affiora in quasi tutte le sue numerosissime opere di meditazione e di ascetica, ma soprattutto è sempre presente nell’ancora oggi studiata “Theologia moralis”.
È questo in effetti il vero capolavoro di colui che, canonizzato nel 1839, venne decretato da papa Pio IX Dottore della Chiesa nel marzo 1871.
Alfonso Maria de’ Liguori nacque il 27 settembre 1696 a Marinella, nei pressi di Napoli, nel palazzo di villeggiatura della nobile famiglia: il padre Giuseppe era ufficiale di marina e la madre, Anna Cavalieri, apparteneva al casato dei marchesi d’Avenia.
Egli fu il primo dei loro otto figli e crebbe all’insegna di una robusta educazione religiosa, addolcita però sempre da sentimenti di compassione nei riguardi dell’infelicità altrui.
Si suole suddividere la sua vita in cinque distinti periodi, in ognuno dei quali la personalità si arricchiva o si modulava con tanta fede in Gesù e con grande devozione a Maria e alle sue “glorie”.
Fino a ventisette anni prevalsero gli studi privati nel campo della musica, delle scienze, delle lingue e del diritto, seguiti da una iniziale brillante carriera forense.
Questa si interruppe improvvisamente per una delusione provata in un processo giudiziario tormentato di falsità. Tra il 1723 e il 1732 si colloca il periodo ecclesiastico con l’ordinazione sacerdotale nel 1726 e l’esercizio ad ampio raggio del ministero.
Quando nel 1730 fu mandato a Scala, sopra Amalfi, esplose la sua spiritualità con la fondazione due anni dopo e poi la diffusione della Congregazione del SS. Salvatore, successivamente approvata dal papa Benedetto XIV come Congregazione del SS. Redentore.
L’intento era quello di imitare Cristo, cominciando dai redentoristi stessi, i quali andavano via via operando per la redenzione di tante anime con missioni, esercizi spirituali e varie forme di apostolato straordinario.
Mantenendo la carica di Rettore Maggiore della Congregazione, Alfonso Maria de’ Liguori fu poi, dal 1762 al 1775, vescovo di S. Agata dei Goti, centro oggi in provincia di Benevento e allora sede episcopale di un’area montagnosa, povera e bisognosa di ogni forma di aiuto, al quale il santo rispose con generosità.
Ammalato di artropatia deformante e quasi cieco, dopo dodici anni di direzione diocesana, Alfonso Maria si dimise e si ritirò nella casa dei suoi fratelli a Nocera de’ Pagani, in provincia di Salerno, tra preghiere e meditazioni.
Là morirà il 1° agosto 1787, non senza avere prima subito la dura tribolazione di uno sdoppiamento dei suoi confratelli, ciò che si ricompose soltanto sei anni dopo la sua morte. La Chiesa universale lo ricorda solennemente ogni anno in occasione del “dies natalis”.
ESAME DEL TESTO EVANGELICO
La pericope evangelica della XVIII domenica inizia con l’annotazione che Gesù parte su una barca e si ritira in disparte, in un luogo deserto, dopo aver appreso la notizia della morte di Giovanni Battista.
Come si era ritirato dopo aver saputo dell’arresto di Giovanni (Mt 4,12), ora, venuto a sapere della sua esecuzione capitale, analogamente si ritira, fa anacoresi.
Il rapporto di Gesù con Giovanni è profondo anche nella distanza. È come se la presenza di Giovanni abitasse in Gesù: la notizia della sua morte provoca un’eco profonda in lui, una risonanza certamente di tipo affettivo, ma non solo.
Immerso nel Giordano da Giovanni, Gesù ne è stato un seguace, e il loro incontro è stato un evento spirituale in cui l’uno ha riconosciuto la vocazione dell’altro ed entrambi si sono obbediti a vicenda pur di compiere il volere del Padre (Mt 3,13-17).
Ora, morto Giovanni, Gesù cerca la solitudine per prendere una distanza dall’evento dell’esecuzione del Battista e poter così leggere la propria responsabilità di fronte al vuoto lasciato da Giovanni.
È come se la morte di Giovanni divenisse un messaggio per lui, un passaggio di testimone.
Desidera soprattutto riflettere nella calma per capire quanto la volontà del Padre esige da Lui in questa nuova situazione.
Sente anche il bisogno di un po’ di riposo nella quiete e nella compagnia dei suoi amici, i discepoli. Lo fa specialmente per loro.
C’è qui un richiamo a saperci ritagliare uno spazio quotidiano per “stare con Gesù” in un dialogo affettuoso, cuore a cuore.
Nel nostro episodio, però, il programma salta a causa della folla: a contatto con essa Gesù si lascia “giocare” dalla “compassione”.
Conosciamo già questo meccanismo che scatta in Lui.
L’abbiamo incontrato in Mt. 9,36ss “…Gesù, vedendo le folle, ne sentì compassione, perché erano stanche e sfinite come pecore senza pastore”.
Nel nostro testo leggiamo che “Gesù vide una grande folla” non solo allora, ma anche oggi.
È una società non soltanto divisa, ma anche malata (“guarì i loro malati”): quante infermità fisiche e morali!
Una umanità affamata (vv. 15 ss.) di una fame molteplice:
di cibo,
ma anche soprattutto di valori,
- di affetto,
- di libertà,
- di felicità,
- di Dio.
Nel suo sguardo attento Gesù non rimane neutrale, insensibile, anzi “…sentì compassione“.
Anche nell’episodio della seconda moltiplicazione dei pani (Mt 15,32) ritornerà il motivo della “compassione“. È Gesù stesso che confida ai discepoli “…Sento compassione di questa folla“.
Di per sé significa sentirsi “fremere e sconvolgere le viscere“.
Esprime quindi non una compassione emotiva, superficiale, ma una reale partecipazione e coinvolgimento. È immedesimarsi nella situazione dell’altro, un “patire-sentire insieme con l’altro”.
È una “compassione” che è attiva, e spinge Gesù a guarire i malati e poi a saziare la folla affamata.
Stupisce l’insistenza con cui Matteo presenta Gesù come il medico che risana i malati.
Sta in questa attività una delle caratteristiche inconfondibili del Messia. A Lui sta a cuore tutto l’uomo, l’integrità totale della persona.
Egli sa che la malattia tende a isolare le persone dalla vita sociale. Guarendo i malati intende reintegrarli pienamente nella società.
Nella concatenazione dinamica di questi tre momenti –sguardo, compassione, intervento concreto– Gesù si rivela come il Messia misericordioso che si lascia catturare e calamitare da ogni forma di sofferenza che incontra.
In tal modo rivela anche il vero volto di Dio quale “Padre misericordioso“, che si prende a cuore ogni forma di miseria.
Questo miracolo, che è il più documentato nella tradizione evangelica (viene riportato sei volte), ci mostra chi è Gesù:
- è il Messia che al suo popolo offre un banchetto durante il suo cammino, come già Dio aveva nutrito Israele nel deserto.
Gesù compie le promesse dei profeti, che avevano raffigurato il Regno di Dio con l’immagine di un banchetto festivo e abbondante (Is 55, 1-3 e Is 25, 6-10).
Gesù è l’unico che può saziare l’uomo completamente e in misura sovrabbondante.
E la via indicata di Gesù è quella della condivisione. Il poco, condiviso, diventa sufficiente per tutti.
E Gesù imbandisce il banchetto messianico, nl quale, tra i compiti del Messia vi è quello di assicurare il pane al popolo.
Il re Davide, figura del Messia venturo, aveva distribuito una focaccia di pane per ciascuno dei membri del popolo d’Israele (2Sam 6,19).
Gesù qui si manifesta come colui che realizza l’operare del Dio che “dà il cibo a ogni vivente” (lett. “il pane a ogni carne”, dice il Salmo 136,25), come il pastore che fa sedere sull’erba verde (Mt 14,19) il suo gregge e lo rifocilla e sostiene (cf. Sal 23).
Il testo può certamente anche essere colto come PREFIGURAZIONE DEL BANCHETTO EUCARISTICO (Mt 14,19), tuttavia può essere utile terminare la riflessione ricordando che le parole di Gesù “Voi stessi date loro da mangiare” si rivolgono anche a noi oggi e diventano una spina nella carne che interpella le chiese di fronte alla tragedia della fame nel mondo.
Le parole di papa Benedetto XVI conferiscono una dimensione politica e mondiale al comando che Gesù rivolse ai suoi discepoli
- “La fame miete ancora moltissime vittime tra i tanti Lazzaro ai quali non è consentito … di sedersi alla mensa del ricco epulone.
- Dare da mangiare agli affamati (Mt 25,35.37.42) è un imperativo etico per la chiesa universale, che risponde agli insegnamenti di solidarietà e di condivisione del Signore Gesù.
- Inoltre, eliminare la fame nel mondo è divenuta, nell’era della globalizzazione, anche un traguardo da perseguire per salvaguardare la pace e la stabilità del pianeta.
- La fame non dipende tanto da scarsità materiale, quanto piuttosto da scarsità di risorse sociali, la più importante delle quali è di natura istituzionale” (Caritas in veritate 27).
LA PRASSI MESSIANICA DI GESÙ PASSA COSÌ NELLA REALTÀ ECCLESIALE E DIVIENE PAROLA E AZIONE PROFETICA.
Ragioniamoci sopra…
Sia Lodato Gesù, il Cristo!