17.11.2022 – GIOVEDI’ SANTA ELISABETTA DI UNGHERIA – LUCA 19,41-44 “Se avessi compreso quello che porta alla pace!”
… il VECCHIO FARISEO COMMENTA…. In illo tempore: dixit Iesus…
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Dal Vangelo secondo LUCA 19,41-44
In quel tempo, Gesù, quando fu vicino a Gerusalemme, alla vista della città pianse su di essa dicendo: «Se avessi compreso anche tu, in questo giorno, quello che porta alla pace! Ma ora è stato nascosto ai tuoi occhi. Per te verranno giorni in cui i tuoi nemici ti circonderanno di trincee, ti assedieranno e ti stringeranno da ogni parte; distruggeranno te e i tuoi figli dentro di te e non lasceranno in te pietra su pietra, perché non hai riconosciuto il tempo in cui sei stata visitata». Parola del Signore
Mediti…AMO
LA VITA E IL PENSIERO DEL SANTO
Presburgo, Bratislava, 1207 – Marburgo, Germania, 17 novembre 1231. Figlia di Andrea, re d’Ungheria e di Gertrude, nobildonna di Merano, ebbe una vita breve. Nata nel 1207, fu promessa in moglie a Ludovico figlio ed erede del sovrano di Turingia. Sposa a quattordici anni, madre a quindici, restò vedova a 20. Il marito, Ludovico IV morì ad Otranto in attesa di imbarcarsi con Federico II per la crociata in Terra Santa.
Elisabetta aveva tre figli. Dopo il primogenito Ermanno vennero al mondo due bambine: Sofia e Gertrude, quest’ultima data alla luce già orfana di padre. Alla morte del marito, Elisabetta si ritirò a Eisenach, poi nel castello di Pottenstein per scegliere infine come dimora una modesta casa di Marburgo dove fece edificare a proprie spese un ospedale, riducendosi in povertà. Iscrittasi al terz’ordine francescano, offrì tutta sé stessa agli ultimi, visitando gli ammalati due volte al giorno, facendosi mendicante e attribuendosi sempre le mansioni più umili. La sua scelta di povertà scatenò la rabbia dei cognati che arrivarono a privarla dei figli. Morì a Marburgo, in Germania il 17 novembre 1231. È stata canonizzata da papa Gregorio IX nel 1235. (Avvenire)
A quattro anni di età è già fidanzata. Suo padre, il re Andrea II d’Ungheria e la regina Gertrude sua madre l’hanno promessa in sposa a Ludovico, figlio ed erede del sovrano di Turingia (all’epoca, questa regione tedesca è una signoria indipendente, il cui sovrano ha il titolo di Landgraf). E subito viene condotta nel regno del futuro marito, per vivere e crescere lì, tra la città di Marburgo e Wartburg il castello presso Eisenach.
Nel 1217 muore il langravio di Turingia, Ermanno I. Muore scomunicato per i contrasti politici con l’arcivescovo di Magonza, che è anche signore laico, principe dell’Impero. Gli succede il figlio Ludovico, che nel 1221 sposa solennemente la quattordicenne Elisabetta. Ora i sovrani sono loro due. Lei viene chiamata “Elisabetta di Turingia”. Nel 1222 nasce il loro primo figlio, Ermanno. Seguono due bambine: nel 1224 Sofia e nel 1227 Gertrude. Ma quest’ultima viene al mondo già orfana di padre.
Ludovico di Turingia si è adoperato per organizzare la sesta crociata in Terrasanta, perché papa Onorio III gli ha promesso di liberarlo dalle intromissioni dell’arcivescovo di Magonza. Parte al comando dell’imperatore Federico II. Ma non vedrà la Palestina: lo uccide un male contagioso a Otranto.
Vedova a vent’anni con tre figli, Elisabetta riceve indietro la dote, e c’è chi fa progetti per lei: può risposarsi, a quell’età, oppure entrare in un monastero come altre regine, per viverci da regina, o anche da penitente in preghiera, a scelta. Questo le suggerisce il confessore.
Ma lei dà retta a voci francescane che si fanno sentire in Turingia, per dire da che parte si può trovare la “perfetta letizia”. E per i poveri offre il denaro della sua dote (si costruirà un ospedale). Ma soprattutto ai poveri offre l’intera sua vita. Questo per lei è realizzarsi: facendosi come loro. Visita gli ammalati due volte al giorno, e poi raccoglie aiuti facendosi mendicante. E tutto questo rimanendo nella sua condizione di vedova, di laica.
Dopo la sua morte, il confessore rivelerà che, ancora vivente il marito, lei si dedicava ai malati, anche a quelli ripugnanti:” Nutrì alcuni, ad altri procurò un letto, altri portò sulle proprie spalle, prodigandosi sempre, senza mettersi tuttavia in contrasto con suo marito “. Collocava la sua dedizione in una cornice di normalità, che includeva anche piccoli gesti “esteriori”, ispirati non a semplice benevolenza, ma a rispetto vero per gli “inferiori”: come il farsi dare del tu dalle donne di servizio. Ed era poi attenta a non eccedere con le penitenze personali, che potessero indebolirla e renderla meno pronta all’aiuto. Vive da povera e da povera si ammala, rinunciando pure al ritorno in Ungheria, come vorrebbero i suoi genitori, re e regina.
Muore in Marburgo a 24 anni, subito “gridata santa” da molte voci, che inducono papa Gregorio IX a ordinare l’inchiesta sui prodigi che le si attribuiscono. Un lavoro reso difficile da complicazioni anche tragiche: muore assassinato il confessore di lei; l’arcivescovo di Magonza cerca di sabotare le indagini. Ma Roma le fa riprendere. E si arriva alla canonizzazione nel 1235 sempre a opera di papa Gregorio. I suoi resti, trafugati da Marburgo durante i conflitti al tempo della Riforma protestante, sono ora custoditi in parte a Vienna. È compatrona dell’Ordine Francescano secolare assieme a S. Ludovico.
ESAME DEL TESTO EVANGELICO
In questo brano del Vangelo, Luca dà l’ultimo tocco al ritratto di Gesù, immagine perfetta del Padre. E ci fa vedere che il pianto di Gesù rivela il mistero più grande di Dio: la sua passione e il suo Amore per noi.
Ciò che Dio, un giorno lontano, aveva detto a Geremia, si avvera ora in Gesù: “Tu riferirai questa parola: ‘I miei occhi grondano lacrime notte e giorno, senza cessare, perché da grande calamità è stata colpita la figlia del mio popolo, da una ferita mortale’” (Ger 14,17).
Gesù piange su Gerusalemme, perché sa che la condanna cadrà su di lei e il Signore non potrà impedirla.
Le lacrime manifestano quindi la sua impotenza. Il suo pianto impotente nasconde un profondo mistero.
Dio nasconde la sua potenza nell’amore di Gesù che salva e nella sua debolezza.
Egli prende con tanta serietà la libertà dell’uomo, che preferisce piangere impotente in Gesù, piuttosto che togliere alla creatura umana la propria libertà.
Il pianto di Gesù è l’ultimo invito alla penitenza per la città ostinata nel suo rifiuto e nel suo male.
LE PAROLE CHE GESÙ LE RIVOLGE A GERUSALEMME NON SONO MINACCE, NÉ LA SUA DISTRUZIONE SARÀ CASTIGO DI DIO. DIO È MISERICORDIOSO E PERDONA (Es 34,6-7; Sal 86,15; 103,8; Gio 4,2).
Ma esse sono una constatazione sofferta del male che il popolo fa a sé stesso. Il male, dal quale mette inutilmente in guardia Gerusalemme, ricadrà infatti su di Lui.
In croce, sarà assediato, angustiato e distrutto da tutta la cattiveria del mondo e dall’abbandono di tutti.
Ecco perché il pianto di Gesù esprime la sua debolezza estrema, che è la forza dell’amore, che portò lui alla croce (2Cor 13,4) e noi alla salvezza.
GESÙ, che un tempo AVEVA DETTO “BEATI VOI CHE ORA PIANGETE” (LC 6,21), ORA È LUI STESSO CHE PIANGE, PERCHÉ’ REALIZZA IN SÉ IL MISTERO DEL REGNO DI DIO SU QUESTA TERRA: EGLI SARA’ QUEL SEME GETTATO NEL PIANTO, CHE VEDRA’ LA SUA MIETITURA NEL GIUBILO “CHI SEMINA NEL PIANTO MIETERÀ CON GIUBILO”, canta il Libro dei Salmi (Sal 126,5-6).
Il motivo del lamento sta nel fatto che nel giorno della sua entrata in Gerusalemme, essa non ha compreso “la via della pace”. Di conseguenza, avendo rifiutato il Cristo che è la nostra pace (Ef 2,14), iniziano per lei i giorni di guerra, che continueranno fino alla sua distruzione.
Questo giorno dell’ingresso di Gesù in Gerusalemme porta a compimento la lunga storia di offerte di salvezza da parte di Dio alla città santa.
Questo è il momento in cui dovrebbe esserle donata la pace, la salvezza. E Gerusalemme avrebbe dovuto solamente riconoscere che Gesù è il principe della pace, inviato da Dio.
Ma essa, che ha ucciso i profeti e lapidato coloro che Dio le aveva mandato per salvarla, rifiuta questo riconoscimento.
Come dimenticare quell’accorato lamento di Gesù su Gerusalemme “Gerusalemme, Gerusalemme, che uccidi i profeti e lapidi coloro che sono mandati a te, quante volte ho voluto raccogliere i tuoi figli come una gallina la sua covata sotto le ali e voi non avete voluto! Ecco, la vostra casa viene lasciata deserta” (Lc 13,34-35).
Il popolo di Gerusalemme si chiude alla parola di Dio “Sono un popolo insensato e in essi non c’è intelligenza: se fossero saggi, capirebbero, rifletterebbero sulla loro fine” (Dt 32,28-29).
In questo momento si adempie ancora ciò che Dio aveva detto al profeta Geremia riguardo a Gerusalemme: “Tu mi hai respinto, dice il Signore, mi hai voltato le spalle e io ho steso la mano su di te per annientarti; sono stanco di avere pietà” (Ger 15,6).
Gesù annuncia il verdetto di Dio sulla sua nazione, ma lo fa a malincuore, con dolore, piangendo, non esultando di gioia per la vendetta di Dio che si abbatte sui peccatori.
Gesù non è venuto per punire, ma per salvare; per recare la pace, non la guerra.
Israele si era allontanato da Dio, l’aveva dimenticato e offeso e Gesù si è incarnato per ristabilire i buoni rapporti tra di loro.
Il suo stesso modo di presentarsi, semplice, umile rivelava lo scopo pacifico della sua venuta. Ma noi sappiamo, che per la nostra stupidità, un messia del genere non poteva non suscitare la fiducia dell’uomo.
Gerusalemme non ha riconosciuto il giorno del perdono e della grazia, e allora dovrà fare la conoscenza col giorno dell’ira e dello sterminio dei suoi abitanti, ovvero con il castigo divino in risposta al rifiuto del Messia.
La grazia, la bontà di Dio, quando è rifiutata, diventa ira, vendetta, castigo.
Qui sta il motivo dell’inarrestabile, doloroso pianto del Maestro, sconsolato nel vedere rifiutata la sua proposta di salvezza.
Piange davanti all’inspiegabile e malsana reazione dei suoi concittadini, davanti al maldestro esercizio della libertà che, invece di avvicinarci alla felicità, ce ne allontana drammaticamente…
E quel pianto ci svela la profonda umanità di Dio, la sua passione, il suo cuore ferito.
Gesù non reagisce stizzito davanti al rifiuto, lasciando che tutto vada in rovina, ma prende a cuore ciò che accade.
Non è offeso, ma è autenticamente scosso da ciò che accade. Non ha paura della tenerezza, come direbbe papa Francesco, non ha paura dei sentimenti. E noi, figli di questo Dio, non abbiamo paura dei sentimenti e lasciamo che la compassione ci abiti…
Le lacrime impotenti di Gesù, figura della sua morte, esprimono la potenza di un amore senza limiti. L’AMORE MUORE PERCHÉ NON È AMATO.
IL PIANTO DI GESÙ RIVELA IL DOLORE GRANDE GRANDE DI DIO, PER QUEL POPOLO AMATO, QUELLA CITTÀ SANTA CHE, PER LA DUREZZA DEL SUO CUORE, PER LA PRESUNZIONE DELLA SUA MENTE E PER L’ORGOGLIO DELLA SUA VITA, NON L’HA RICONOSCIUTO!
E Dio, di fronte alla nostra libertà, alle nostre scelte, si ferma e l’unica cosa che può fare è piangere!
Il pianto esprime l’impotenza davanti al rifiuto, ma rivela pure la grandezza di un amore fedele anche nell’infedeltà!
Dentro questo amore, fedele fino “alla morte e alla morte di croce“, come dirà Paolo di Tarso ai cristiani di Filippi (Fil 2,8), il nostro cuore, LEGGE NELLA FEDE, la luce della Speranza e della Misericordia, l’unica che riesce a sconfiggere la durezza del nostro male e del nostro peccato.
Ha detto Madre Teresa di Calcutta:
- “Dietro ogni linea di arrivo c’è una linea di partenza. Dietro ogni successo c’è un’altra delusione. Fino a quando sei viva, sentiti viva. Se ti manca ciò che facevi, torna a farlo. Non vivere di foto ingiallite… insisti anche se tutti si aspettano che abbandoni. Non lasciare che si arrugginisca il ferro che c’è in te. Fai in modo che invece che compassione, ti portino rispetto”.
Ragioniamoci sopra…
Prega il Signore per me… Fratello che Leggi…
Sia Lodato Gesù, il Cristo!