19.11.2023 – DOMENICA XXXIII P.A.  A – MATTEO 25,14-30 “Sei stato fedele nel poco, prendi parte alla gioia del tuo padrone”.

«Fermatevi nelle strade e guardate, informatevi circa i sentieri antichi, dove sta la strada buona e prendetela, così troverete pace per le anime vostre». Geremia 6,16

Pietro Saltarelli… il VECCHIO FARISEO COMMENTA…. “In illo tempore: dixit Iesus…”

Vedere approfondimenti sul nostro sito WWW.INSAECULASAECULORUM.ORG

Dal Vangelo secondo MATTEO 25,14-30

+ In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli questa parabola: «Avverrà come a un uomo che, partendo per un viaggio, chiamò i suoi servi e consegnò loro i suoi beni. A uno diede cinque talenti, a un altro due, a un altro uno, secondo le capacità di ciascuno; poi partì. Subito colui che aveva ricevuto cinque talenti andò a impiegarli, e ne guadagnò altri cinque. Così anche quello che ne aveva ricevuti due, ne guadagnò altri due. Colui invece che aveva ricevuto un solo talento, andò a fare una buca nel terreno e vi nascose il denaro del suo padrone. Dopo molto tempo il padrone di quei servi tornò e volle regolare i conti con loro. Si presentò colui che aveva ricevuto cinque talenti e ne portò altri cinque, dicendo: “Signore, mi hai consegnato cinque talenti; ecco, ne ho guadagnati altri cinque”. “Bene, servo buono e FEDELE – gli disse il suo padrone –, sei stato fedele nel poco, ti darò potere su molto; prendi parte alla gioia del tuo padrone”. Si presentò poi colui che aveva ricevuto due talenti e disse: “Signore, mi hai consegnato due talenti; ecco, ne ho guadagnati altri due”. “Bene, servo buono e fedele – gli disse il suo padrone –, sei stato fedele nel poco, ti darò potere su molto; prendi parte alla gioia del tuo padrone”. Si presentò infine anche colui che aveva ricevuto un solo talento e disse: “Signore, so che sei un uomo duro, che mieti dove non hai seminato e raccogli dove non hai sparso. Ho avuto paura e sono andato a nascondere il tuo talento sotto terra: ecco ciò che è tuo”. Il padrone gli rispose: “Servo malvagio e pigro, tu sapevi che mieto dove non ho seminato e raccolgo dove non ho sparso; avresti dovuto affidare il mio denaro ai banchieri e così, ritornando, avrei ritirato il mio con l’interesse. Toglietegli dunque il talento, e datelo a chi ha i dieci talenti. Perché a chiunque ha, verrà dato e sarà nell’abbondanza; ma a chi non ha, verrà tolto anche quello che ha. E il servo inutile gettatelo fuori nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti”». Parola del Signore

 

Mediti…AMO

Gesù, ormai, è a Gerusalemme, e nel piano narrativo di Matteo tiene lì l’ultimo dei suoi cinque discorsi.

Il quinto discorso di Gesù (Mt 24,1-25,46), detto anche “escatologico” o “apocalittico”, sulla fine dei tempi e trae ispirazione da Mc 13, ma conserva del materiale proprio.

Siamo di fronte alle parabole sull’attesa.

La parabola di Mt 25,14-30 si trova alla fine di cinque brevi parabole che appartengono al quanto discorso di Gesù:

tre brevi (24,37-51, quella del diluvio, del padrone e del servo)

e due più ampie: 25,1-13 (la parabola delle nozze, dell’olio e delle vergini)

e infine il nostro testo.

In chiusura del discorso, subito dopo la parabola dei talenti, ci sarà la grandiosa scena del “giudizio universale” (25,31-46).

La parabola non è esclusivamente matteana, e si trova anche nel vangelo di Luca (19,12-27), dove però è collocata però mentre Gesù si trova ancora in viaggio verso Gerusalemme

Ed è narrata «perché (Gesù) era vicino a Gerusalemme ed essi pensavano che il regno di Dio dovesse manifestarsi da un momento all’altro» (Lc 19,11).

Rispetto a quella di Mt, Lc parla non di un padrone, ma di un uomo di nobile famiglia che parte per ricevere il titolo di re, e non di talenti ma di monete d’oro (o, nella precedente versione CEI, “mine”).

E questa domenica, quindi, ci viene proposta la parabola dei talenti di Matteo, con la quale veniamo così proiettati verso gli ultimi tempi.

Infatti, questa parabola, ci parla della venuta di Gesù per il giudizio universale.

E ci dice che quando ritornerà, vorrà sapere da noi come abbiamo usato il nostro tempo, cosa abbiamo fatto della nostra vita, e cosa abbiamo fatto dei talenti che abbiamo ricevuto, cioè delle nostre capacità.

Il premio per il buon uso sarà la partecipazione alla gioia del Signore, cioè al banchetto eterno.

Il Signore ci ha fatto dono di tante cose, di tanti carismi, facoltà e possibilità per fare il bene, non solo su questa terra, ma in vista del Regno dei cieli.

Questi doni che il Vangelo di oggi, con la parabola dei talenti, ci fa capire che possediamo TUTTI, ovviamente in misura diversa, VANNO FATTI FRUTTIFICARE.

Certamente bisogna capirne il senso.

Possiamo essere talentuosi per questo mondo, raccogliendo consensi e favori in ogni luogo, come invece, più saggiamente, dobbiamo essere talentuosi per il Regno dei cieli, QUI ED ORA -hic et nunc-.

Per cui i doni ricevuti vanno investiti e fatto produrre per il nostro e altrui bene.

Non possiamo restare con le mani in mano, aspettando che i doni ricevuti producano da soli.

Bisogna attivarsi, mettersi in moto, ingegnarsi, perché quello che abbiamo ricevuto, in quantità e qualità diversa, produca i suoi frutti.

Non possiamo fare come l’uomo del vangelo di oggi che ricevette un solo talento e per paura di non perderlo, cioè per non rischiare (perchè non si voleva impegnare,) ha scelto di metterlo in sottoterra, e conservarlo in attesa del rendiconto finale, per il momento in cui il padrone che ne avrebbe chiesto la restituzione.

La parabola racchiude un insegnamento fondamentale: Dio non misurerà né conterà i nostri acquisti, le nostre realizzazioni.

Non ci chiederà se abbiamo compiuto delle prodezze ammirate dal mondo, perché ciò non dipende da noi, ma è in parte condizionato dai talenti che abbiamo ricevuto.

Perchè i talenti non sono capacità o beni materiali da moltiplicare.

Sono l’olio del brano precedente (le lampade delle dieci vergini che aspettano lo Sposo) e l’amore verso i poveri del brano seguente (“Avevo fame…”).

Il vero talento è l’amore che il Padre ha per noi e che deve duplicarsi nell’amore nostro verso i fratelli.

Di conseguenza saranno tenute in conto soltanto la fedeltà, l’assiduità e la carità con le quali noi avremo fatto fronte ai nostri doveri, anche se i più umili e i più ordinari.

Il terzo servitore, “malvagio e infingardo” ha una falsa immagine del padrone (di Dio).

Il peggio è che non lo ama.

La paura nei confronti del padrone l’ha paralizzato ed ha agito in modo maldestro, senza assumersi nessun rischio e così ha sotterrato il suo talento.

Ma questo è proprio ciò che non vuole il nostro Dio, che si aspetta da noi UNA RISPOSTA GIOIOSA, UN IMPEGNO CHE PROVIENE DALL’AMORE E DALLA NOSTRA PRONTEZZA AD ASSUMERE RISCHI E AD AFFRONTARE DIFFICOLTÀ.

Dobbiamo stare bene attenti a cogliere il significato dei talenti, che possono significare le capacità naturali, i doni e i carismi che abbiamo ricevuto dallo Spirito Santo, ma anche il Vangelo, la rivelazione, e la salvezza che Cristo ha trasmesso alla Chiesa, cioè a noi.

Tutti i credenti hanno il dovere di ritrasmettere questi doni, a parole e a fatti E ATTRAVERSO L’ESERCIZIO DI UNA FEDE CHE DEVE PERVADERE E CRESCERE NELL’ATTESA DEL RITORNO DEFINITIVO DEL SIGNORE.

C’è infatti in questa parabola un livello di interpretazione più profondo che riguarda LA FEDE.

Lo scopo della parabola poteva infatti essere, come per la precedente parabola delle dieci vergini, quello di un’esortazione per i credenti a vivere il tempo dell’attesa con fede.

L’aggettivo pistós, al v. 25,21, infatti, reso bene con “fedele” (nella traduzione della CEI), IMPLICA PERÒ IL SIGNIFICATO DI “CREDENTE”, RELATIVO CIOÈ DI COLUI CHE HA FEDE (Ef 1,1 e Col 1,2 e 1Pt 1,21).

È proprio il contesto delle parabole che ci permette, qui (e anche in 24,45), di intendere ANCHE il senso della parabola in questo modo, diversamente da coloro che pensano che proprio il contesto vada esclusivamente a favore del senso di «fedeltà» o «affidabilità».

E, LA FEDE, CHE OPERA, È IMPORTANTE NEL VOCABOLARIO MATTEANO: GESÙ NEL PRIMO VANGELO PARLA DELLA FEDE DI COLORO CHE CREDONO IN LUI PER POTER ESSERE GUARITI:

  • -il centurione in 8,10,
  • -il paralitico in 9,2,
  • -la donna emorroissa in 9,22,
  • -nei dei due ciechi in 9,29,
  • -nella Cananea in 15,28).

La nostra parabola potrebbe dunque voler dire qualcosa sul CREDERE O NON CREDERE IN DIO NEL TEMPO INTERMEDIO di quell’attesa, che separa dal giudizio.

Infatti, il terzo servo -malvagio- NON HA PIÙ FEDE, l’ha persa col tempo: si era dimenticato che quanto gli era stato affidato doveva essere investito perché portasse frutto per il padrone, MA ANCHE A SUO FAVORE.

Ma il fatto che la parabola tratti del dono della fede, si può indirettamente evincere anche da un altro testo del Nuovo Testamento, dove, Paolo di Tarso dice ai cristiani di Roma, che questo dono è misteriosamente “personalizzato”, al modo in cui racconta Gesù:

  • «Dico infatti […] di nutrire una stima saggia di sé, secondo la misura di fede che Dio ha assegnato a ciascuno» (Rm 12,3).

E questo ci rimanda ad un altro grande problema: Quale visione abbiamo noi di Dio?

E per capirlo dobbiamo prendere in esame la visione che i servi hanno di Dio.

E, in questa analizi, merita attenzione, soprattutto il terzo servo, quello malvagio (del v. 18), che vede Dio IN MODO MOLTO CRITICO.

I servi buoni non si esprimono a riguardo, invece il malvagio spiega di aver avuto paura di investire il denaro, dicendo al Signore:

  • «[So] che sei un uomo duro, che mieti dove non hai seminato e raccogli dove non hai sparso» (25,24).

E io allora mi chiedo: ma da dove ci arriva un’immagine così negativa di Dio?

Ecco allora un’altro senso profondo che ci regala questa parabola: ci fa domandare se abbiamo ricevuto la visione di un Dio vendicativo ed esigente, che magari riproduciamo senza accorgercene.

O, una visione che, invece, grazie alle parole di Gesù può cambiare.

Un ultimo spunto di riflessione: “Chiamò i suoi servi e consegnò loro i suoi beni” (25,14).

Come ho già detto, la parabola dei talenti è un’icona suggestiva di tutta la vicenda umana segnata dalla fiducia di Dio e dalla responsabilità dell’uomo.

La fiducia di Dio non viene mani meno.

Mentre l’uomo invece non sempre si mostra all’altezza dei compiti che ha ricevuto.

Il Vangelo ricorda che tutto inizia da una chiamata nella quale possiamo intravedere il racconto della creazione “Facciamo l’uomo a nostra immagine” (Gen 1,26).

Abbiamo un’oggettiva responsabilità nel mondo, siamo chiamati a portare a compimento l’opera creatrice di Dio.

E, sempre come ho già detto, Dio non è Colui che ci chiama, e ci manda allo sbaraglio, ma Colui che ci dona tutto il necessario.

Prima di pensare alle capacità che ciascuno possiede, dobbiamo ricordare CHE LA VITA STESSA È IL TALENTO CHE DIO HA MESSO A NOSTRA DISPOSIZIONE.

E, SE LA VITA VIENE PERCEPITA COME UN DONO, POSSIAMO RICONOSCERE E ACCOGLIERE TUTTE LE ALTRE RISORSE COME UN DONO; E POSSIAMO ANCHE IMPEGNARCI A FARE DELLA VITA UN DONO.

Il Padre celeste affida tutto nelle nostra fragili mani e ci chiede di collaborare con Lui per rendere più bella la creazione.

In modo particolare ci affida le persone, generate dal suo Amore e redente grazie al Sangue di Cristo e ci chiede questa grande responsabilità.

Di fronte alle pochissime forze e agli innumerevoli bisogni dell’uomo sofferente, San Francesco Saverio, scriveva così a Sant’Ignazio:

  • Quale gran numero di anime, per colpa vostra, viene escluso dal cielo e cacciato all’inferno. Oh! Se costoro, come si occupano di Lettere, così si dessero pensiero anche di questo, onde poter rendere conto a Dio della scienza e dei talenti ricevuti!”.

Ragioniamoci sopra…Pace e Bene!

Il Signore IDDIO ti Benedica

Prega il Signore per me, Fratello che Leggi…

…e ti prego di condividere, se ciò che hai letto è stato di tuo gradimento!

Sia Lodato Gesù, il Cristo!