12.11.2022 – SABATO SAN GIOSAFAT – LUCA 18,1-8 “Dio farà giustizia ai suoi eletti che gridano verso di lui”.

… il VECCHIO FARISEO COMMENTA…. In illo tempore: dixit Iesus…

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Dal Vangelo secondo LUCA 18,1-8

In quel tempo, Gesù diceva ai suoi discepoli una parabola sulla necessità di pregare sempre, senza stancarsi mai: «In una città viveva un giudice, che non temeva Dio né aveva riguardo per alcuno. In quella città c’era anche una vedova, che andava da lui e gli diceva: “Fammi giustizia contro il mio avversario”. Per un po’ di tempo egli non volle; ma poi disse tra sé: “Anche se non temo Dio e non ho riguardo per alcuno, dato che questa vedova mi dà tanto fastidio, le farò giustizia perché non venga continuamente a importunarmi”». E il Signore soggiunse: «Ascoltate ciò che dice il giudice disonesto. E Dio non farà forse giustizia ai suoi eletti, che gridano giorno e notte verso di lui? Li farà forse aspettare a lungo? Io vi dico che farà loro giustizia prontamente. Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?». Parola del Signore

 

Mediti…AMO

LA VITA E IL PENSIERO DEL SANTO (Wolodymyr in Volynia, Ucraina, 1580 – Vitesbk, Bielorussia, 12 novembre 1623).

San Giosafat viene ricordato come il simbolo di una Russia ferita dalle lotte tra ortodossi e uniati [Questo aggettivo deriva dal russo unijat, derivato da unija “unione (delle Chiese)”] .

La diocesi di Polock si trovava in Rutenia (la parola “ruteno” è la forma latinizzata di “russo”), regione che dalla Russia era passata in parte sotto il dominio del Re di Polonia, Sigismondo III.

La fede dei Polacchi era quella cattolica romana; in Rutenia invece, come nel resto della Russia, i fedeli aderivano alla Chiesa greco-ortodossa. Si tentò allora un’unione della Chiesa greca con quella latina.

Si mantennero cioè i riti e i sacerdoti ortodossi, ma si ristabilì la comunione con Roma.

Questa Chiesa, detta «uniate», incontrò l’approvazione del Re di Polonia e del Papa Clemente VIII.

Gli ortodossi, però, accusavano di tradimento gli uniati, che non erano ben accetti nemmeno dai cattolici di rito latino.

Giovanni Kuncevitz, che prese il nome di Giosafat, fu il grande difensore della Chiesa uniate. A vent’anni era entrato tra i monaci basiliani.

Monaco, priore, abate e finalmente arcivescovo di Polock, intraprese una riforma dei costumi monastici della regione rutena, migliorando così la Chiesa uniate.

Ma a causa del suo operato nel 1623 un gruppo di ortodossi lo assalì e lo uccise a colpi di spada e di moschetto.

San Giosafat dette tutta la sua vita, fino alla morte, spargendo il suo sangue, per questa unica intenzione: ricondurre all’ovile di Cristo tutte le anime, riconciliare con la Sede Romana del Vicario di Cristo, principio dell’unità della Chiesa, le chiese scismatiche.

Meditando sul martirio del santo, alla luce degli eventi ultimi possiamo ben dire quanta ragione avesse san Giosafat ad agire così, ragione non già umana, ma divina.

Cari fratelli e Sorelle, certamente non ignorate la situazione attuale in Russia, là dove la chiesa ortodossa, divisa in sé stessa, non ha il capo voluto da Cristo, quel capo al quale furono date le chiavi del regno dei cieli.

Mancando di tale capo, i patriarchi, i metropoliti ecc. (non tutti, per fortuna, ma molti di loro) sono divenuti strumenti della propaganda atea più sfacciata.

Leggete le opere di quel cristiano ortodosso sincero e buono, scismatico purtroppo anche lui, che è Solgenicyn; leggete soprattutto la lettera che scrisse una decina di anni fa al patriarca Pimen, in cui lo scongiurò, lui laico, di non farsi strumento della propaganda atea.

Il sacerdozio, strumento di Dio per la salvezza, per la santificazione delle anime, per la diffusione del regno di Cristo nel mondo, può diventare strumento di Satana quando si fa propagatore di ateismo. È proprio quello che accade nella Russia di oggi.

San Giòsafat Kuncewicz, pur essendo nato in una famiglia ortodossa scismatica, fu incrollabilmente fedele alla sede di Pietro grazie all’esempio di tutti i Padri della Chiesa, anche quelli della Chiesa orientale, che non ruppero l’unità della Chiesa cattolica (= “universale”). Giosafat intuì che la Chiesa non può che essere universale.

La Chiesa cattolica ha questa bellezza spirituale e ciò che è spirituale è sempre universale. L’universalità della Chiesa cattolica è segno della sua spiritualità e la spiritualità è a sua volta fonte di universalità. Per capire questo concetto, occorre rifarsi all’istituzione del sacerdozio.

Stringiamoci perciò attorno al papa, mostriamo fedeltà incrollabile verso la Santa Sede.

Ex inde oritur unitas sacerdotii”, da lì scaturisce l’unità del sacerdozio. Dalla sede apostolica, dalla sede di Pietro nasce l’unità della Chiesa. L’unità si fa attorno al papa o non si fa.

Certo siamo tutti angosciati dalla divisione della Chiesa, ma al Vangelo non si può derogare. La parola del Signore non è suscettibile di alterazioni e rimane in eterno. È meglio essere pochi ma fedeli, piuttosto che esseri molti ma talvolta infedeli. La vera unità è non già sociologica o orizzontale, bensì verticale, con Dio.

Se ci fosse solo un cristiano su questa terra (sarebbe il pontefice, perché lui solo non può venire meno), se il papa fosse il solo fedele a Cristo, sarebbe lui la Chiesa.

Quando il Verbo s’incarnò nel grembo della Vergine purissima per l’onnipotente azione dello Spirito Santo, la Chiesa non aveva bisogno di consensi sociologici.

In Maria, ostensorio vivente del Dio di Israele e “foederis arca” in cui s’era incarnato il Cristo, c’era la Chiesa, perché in Maria c’era il Cristo. Cari fratelli, dobbiamo pensare soprannaturalmente, non in base a statistiche umane o a categorie sociologiche.

Il papa propone parole non sue, ma di Cristo, cioè di colui di cui egli è il vicario.

E nel pontefice si deve cogliere, più che l’uomo, il vicario di Cristo. Tutti i pontefici della storia lo sapevano bene

E anche lo sapevano gli orientali. Pensate: quando il papa san Leone Magno (440-461), che abbiamo meditato nei giorni scorsi, inviò i suoi legati al concilio di Calcedonia (451), i padri conciliari si alzarono in piedi e, dopo che i legati ebbero letto la dottrina del vicario di Cristo (la cosiddetta Lettera dogmatica), proclamarono: “Per Leonem Petrus locutus est “, ovvero “tramite Leone, Pietro ha parlato”.

Questa è la fedeltà alla Santa Sede, spesso sofferta.

Quello che possiamo rimproverare a Lutero è di non essere stato fedele al papa. Lutero si scandalizzò dell’uomo, si scandalizzò di Giovanni de’ Medici (Leone X) e delle sue debolezze.

Non seppe vedere in lui il successore di Pietro, che, al di là di ogni debolezza, è l’incrollabile fondamento della Chiesa, perché, anche se le porte degl’inferi si scateneranno contro di lei, essa rimarrà per sempre, BASANDOSI SULLA PAROLA DI GESÙ CHE SALVA.

Gilbert Keith Chesterton (1874-1936), con il suo solito acume, fa notare CHE IL SIGNORE NON SCELSE COME SUO VICARIO NÉ IL MISTICO GIOVANNI, NÉ IL DOTTO PAOLO, BENSÌ PIETRO, CHE ERA ROZZO E DEBOLE (TRADÌ IL CRISTO!).

PIETRO, L’UOMO PIÙ INCOSTANTE DEL COLLEGIO APOSTOLICO, INCAPACE DI TENERE SOTTO CONTROLLO LE SUE PASSIONI, UNA VOLTA RINNEGÒ GESÙ, UN’ALTRA VOLTA OSCILLÒ TRA ENTUSIASMO E SCETTICISMO, TANTO DA CAMMINARE SULLE ACQUE PER ANDARE INCONTRO AL CRISTO E DA SPROFONDARE DI LÌ A POCO.

Gesù, tendendogli la mano, lo rimproverò: ” Perché hai dubitato, uomo di poca fede? “.

Ecco la logica di Dio: EGLI FONDA IL SACERDOZIO E LA CHIESA NON SULL’APOSTOLO PIÙ DOTTO O PIÙ SPIRITUALE O PIÙ FORTE O PIÙ CORAGGIOSO, MA SUL PIÙ FRAGILE. Ecco perché, allora, non dobbiamo mai scandalizzarci dell’uomo.

ESAME DEL TESTO EVANGELICO

Nel vangelo secondo Luca Gesù aveva già dato un insegnamento sulla preghiera attraverso la consegna ai discepoli del Padre nostro (Lc 11,1-4) e una parabola, poi commentata, sulla necessità di insistere nella preghiera, chiedendo e bussando presso Dio, che sempre concede lo Spirito santo, cioè la cosa buona tra le cose buone, quella più necessaria ai credenti (Lc 11,5-13).

Al capitolo 18 c’è una ripresa di questo insegnamento, attraverso la parabola parallela a quella dell’amico importuno: la parabola del giudice iniquo e della vedova insistente, che abbiamo commentato pochi giorni orsono, E CHE OGGI NON COMMENTEREMO, se non nella domanda finale che il Signore pone all’ascoltatore.

Al termine di questa breve parabola, Gesù se ne fa esegeta e con autorevolezza pone una domanda ai suoi ascoltatori:

  • Se accade così sulla terra da parte di un giudice al quale non importa né la giustizia umana né la Legge di Dio, Dio che è giudice giusto non ascolterà forse le suppliche e le grida dei chiamati da lui a essere suo popolo, sua comunità e assemblea in alleanza con lui? Tarderà forse a intervenire?”.

Con queste parole Gesù conferma la fede dei credenti in Lui e tenta di placare la loro ansia e i loro dubbi sull’esercizio della giustizia da parte di Dio.

La comunità di Luca, infatti, ma ancora oggi le nostre comunità, faticano a credere che Dio è il difensore dei poveri e degli oppressi.

L’ingiustizia continua a regnare e nonostante le preghiere e le grida nulla sembra cambiare.

Ma Gesù, con la sua forza profetica, assicura che “…Dio farà loro giustizia in fretta!”

Il giudizio di Dio ci sarà, e verrà su tutti in fretta, nella fretta escatologica, anche se a noi umani, che viviamo nel tempo, sembra tardare. Ma Dio non tiene conto del tempo e la Sua Parola ci ricorda “…ai tuoi occhi, o Dio, mille anni sono come ieri”, canta il salmo (90,4).

Ma Dio verrà in fretta, senza tardare (ci ricorda l’Antico e il Nuovo Testamento: Ab 2,3; Eb 10,37; 2Pt 3,9).

Dunque la perseveranza nel pregare ha i suoi effetti, non è inutile, e occorre sempre ricordare che Dio è un giudice giusto che esercita il giudizio in un modo che per ora non conosciamo.

Siamo miopi e ciechi quando cerchiamo di vedere l’azione di Dio nel mondo, e soprattutto l’azione di Dio sugli altri…

Ma per Gesù la preghiera è l’altra faccia della medaglia della fede perché, come si è detto, nasce dalla fede ed è eloquenza della fede.

Per questo segue un’ultima domanda, non retorica, che indica l’inquietudine di Gesù circa l’avventura della fede nel mondo “…ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?”.

Domanda che inquieta anche noi, che a volte abbiamo l’impressione di essere gli ultimi cristiani sulla terra e temiamo che la nostra fede venga meno.

Nulla è garantito, nulla è assicurato, e purtroppo ci sono cristiani convinti che la chiesa resterà sempre presente nella storia.

Ma chi ce lo assicura, se neanche la fede è assicurata?

Dio non abbandona certo la sua chiesa, ma questa può diventare non-chiesa, fino a diminuire, scomparire e dissolversi nella vita del mondo, magari religiosa, NON ESSENDO PIU’ COMUNITÀ DI GESÙ CRISTO IL SIGNORE RISORTO.

La chiamata di Dio è sempre fedele, ma i cristiani possono diventare increduli, la chiesa può rinnegare il Signore.

Quando leggiamo il nostro oggi, possiamo forse non denunciare la morte della fede come fiducia, adesione, fede nell’umanità e nel futuro, prima ancora che nel Dio vivente?

E se viene a mancare la fiducia negli altri che vediamo, come potremo coltivare una fiducia nell’Altro, nel Dio che non vediamo (1Gv 4,20)?

La mancanza di fede è la ragione profonda di molte patologie dei credenti e la tentazione di abbandonare la fede è quotidiana e presente nei nostri cuori.

Non ci resta dunque che rinnovare la fede, con la speranza nella venuta di Gesù, Figlio dell’uomo, Giudice giusto, e con l’amore fraterno vissuto attingendo all’amore di Gesù, amore fedele fino alla fine (Gv 13,1), per tutti gli uomini.

Ragioniamoci sopra…

Prega il Signore per me… Fratello che Leggi…

Sia Lodato Gesù, il Cristo!