… il VECCHIO FARISEO COMMENTA…. In illo tempore: dixit Iesus…
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Dal Vangelo secondo MATTEO 18,21-19,1
In quel tempo, Pietro si avvicinò a Gesù e gli disse: «Signore, se il mio fratello commette colpe contro di me, quante volte dovrò perdonargli? Fino a sette volte?». E Gesù gli rispose: «Non ti dico fino a sette volte, ma fino a settanta volte sette. Per questo, il regno dei cieli è simile a un re che volle regolare i conti con i suoi servi. Aveva cominciato a regolare i conti, quando gli fu presentato un tale che gli doveva diecimila talenti. Poiché costui non era in grado di restituire, il padrone ordinò che fosse venduto lui con la moglie, i figli e quanto possedeva, e così saldasse il debito. Allora il servo, prostrato a terra, lo supplicava dicendo: “Abbi pazienza con me e ti restituirò ogni cosa”. Il padrone ebbe compassione di quel servo, lo lasciò andare e gli condonò il debito. Appena uscito, quel servo trovò uno dei suoi compagni, che gli doveva cento denari. Lo prese per il collo e lo soffocava, dicendo: “Restituisci quello che devi!”. Il suo compagno, prostrato a terra, lo pregava dicendo: “Abbi pazienza con me e ti restituirò”. Ma egli non volle, andò e lo fece gettare in prigione, fino a che non avesse pagato il debito. Visto quello che accadeva, i suoi compagni furono molto dispiaciuti e andarono a riferire al loro padrone tutto l’accaduto. Allora il padrone fece chiamare quell’uomo e gli disse: “Servo malvagio, io ti ho condonato tutto quel debito perché tu mi hai pregato. Non dovevi anche tu aver pietà del tuo compagno, così come io ho avuto pietà di te?”. Sdegnato, il padrone lo diede in mano agli aguzzini, finché non avesse restituito tutto il dovuto. Così anche il Padre mio celeste farà con voi se non perdonerete di cuore, ciascuno al proprio fratello». Terminati questi discorsi, Gesù lasciò la Galilea e andò nella regione della Giudea, al di là del Giordano. Parola del Signore
Mediti…AMO
LA VITA E IL PENSIERO DELLA SANTA
Chiara (Assisi 1193 – 11 agosto 1253) «seguì in tutto le orme di colui che per noi si è fatto povero e via, verità e vita».
La sera della domenica delle Palme (1211 o 1212) una bella ragazza diciottenne fugge dalla sua casa in Assisi e corre alla Porziuncola, dove l’attendono Francesco e il gruppo dei suoi frati minori.
Le fanno indossare un saio da penitente, le tagliano i capelli e poi la ricoverano in due successivi monasteri benedettini, a Bastia e a Sant’Angelo.
Infine Chiara prende dimora nel piccolo fabbricato annesso alla chiesa di San Damiano, che era stata restaurata da Francesco.
Qui Chiara è stata raggiunta dalla sorella Agnese; poi dall’altra, Beatrice, e da gruppi di ragazze e donne: saranno presto una cinquantina.
Così incomincia, sotto la spinta di Francesco d’Assisi, l’avventura di Chiara, figlia di nobili che si oppongono anche con la forza alla sua scelta di vita, ma invano.
Anzi, dopo alcuni anni andrà con lei anche sua madre, Ortolana. Chiara però non è fuggita “per andare dalle monache”, ossia per entrare in una comunità nota e stabilita.
Affascinata dalla predicazione e dall’esempio di Francesco, la ragazza vuole dare vita a una famiglia di claustrali radicalmente povere, come singole e come monastero, viventi del loro lavoro e di qualche aiuto dei frati minori, immerse nella preghiera per sé e per gli altri, al servizio di tutti, preoccupate per tutti.
Chiamate popolarmente “Damianite” e da Francesco “Povere Dame”, saranno poi per sempre note come “Clarisse”.
Da Francesco, lei ottiene una prima regola fondata sulla povertà. Francesco consiglia, Francesco ispira sempre, fino alla morte (1226), ma lei è per parte sua una protagonista, anche se sarà faticoso farle accettare l’incarico di abbadessa.
In un certo modo essa preannuncia la forte iniziativa femminile che il suo secolo e il successivo vedranno svilupparsi nella Chiesa.
Il cardinale Ugolino, vescovo di Ostia e protettore dei Minori, le dà una nuova regola che attenua la povertà, ma lei non accetta sconti: così Ugolino, diventato papa Gregorio IX (1227-41) le concede il “privilegio della povertà”, poi confermato da Innocenzo IV con una solenne bolla del 1253, presentata a Chiara pochi giorni prima della morte.
Austerità sempre. Però “non abbiamo un corpo di bronzo, né la nostra è la robustezza del granito“. Così dice una delle lettere ad Agnese di Praga, figlia del re di Boemia, severa badessa di un monastero ispirato all’ideale francescano.
Chiara le manda consigli affettuosi ed espliciti: “Ti supplico di moderarti con saggia discrezione nell’austerità quasi esagerata e impossibile, nella quale ho saputo che ti sei avviata“.
Agnese dovrebbe vedere come Chiara sa rendere alle consorelle malate i servizi anche più umili e sgradevoli, senza perdere il sorriso e senza farlo perdere.
A soli due anni dalla morte, papa Alessandro IV la proclama santa.
Chiara si distinse per il culto verso l’Eucarestia.
Per due volte Assisi venne minacciata dall’esercito dell’imperatore Federico II che contava, tra i suoi soldati, anche saraceni. Chiara, in quel tempo malata, fu portata alle mura della città con in mano la pisside contenente il Santissimo Sacramento: i suoi biografi raccontano che l’esercito, a quella vista, si dette alla fuga.
Esercitò il suo ufficio di guida e madre, studiandosi «di presiedere alla altre più per virtù e santità di vita che per ufficio, affinché le sorelle obbedissero più per amore che per timore».
Seppe trasformare i suoi lunghi anni di malattia in apostolato della sofferenza.
ESAME DEL TESTO EVANGELICO
Pietro è conosciuto tra gli Apostoli per la sua generosità, ma anche per la sua goffaggine.
Sa bene che deve essere all’altezza della responsabilità affidatagli dal Signore e dimostrare di avere ampiamente capito l’ammonimento riguardante il perdono. Ed è disposto a perdonare fino a sette volte.
Pietro crede di fare una bella figura proponendosi di perdonare fino a sette volte il torto subito.
Anche i rabbini discutevano questa questione; partendo da Amos (2, 4), da Giobbe (33, 29) e dalla triplice preghiera di Giuseppe (Gen 50,17) pensavano che si potesse arrivare a perdonare fino a tre volte.
La risposta di Gesù è chiara. Rovesciando il canto di Lamech “Sette volte sarà vendicato Caino, ma Lamech settanta volte sette” (Gen 4,24), Gesù svela le risorse insospettate di misericordia generate dall’avvento del regno dei cieli.
E così facendo, Gesù spiazza Pietro, come spiazza ognuno di noi: il discepolo è chiamato a perdonare settanta volte sette, cioè sempre.
E lo può fare non perché è migliore, o santo, ma perché lui per primo ha fatto esperienza sia del peccato che del perdono incondizionato di Dio.
Gesù rialza quindi la posta, spostando il ragionamento su un altro livello: bisogna perdonare sempre perché sempre siamo perdonati.
Il fondamento del mio rapporto con l’altro è l’imitazione del rapporto che Dio ha con me.
Gesù ha detto di amarci a vicenda “come lui ha amato noi” (Gv 13,34); e Paolo dice “di graziarci l’un l’altro come il Padre ha graziato noi in Cristo” (Ef 4,32).
La giustizia di Dio non è quella che ristabilisce la parità, secondo la regola: chi sbaglia, paga.
Ma è una giustizia superiore, propria di chi ama, che è sempre in debito verso tutti:
- all’avversario deve la riconciliazione,
- al piccolo l’accoglienza,
- allo smarrito la ricerca,
- al colpevole la correzione,
- al debitore il condono.
La parabola che vede protagonisti i due debitori illustra bene ciò che intende dire Gesù: la sproporzione del debito condonato e la diversa reazione dei debitori ci dicono che, per quanto possiamo perdonare chi ci ha offeso, mai uguaglieremo l’azione di Dio.
Possiamo quindi perdonare, DIMENTICANDO SEMPRE TUTTO, PERCHÉ A NOI È STATO PERDONATO TUTTO DA DIO, CHE HA DIMENTICATO OGNI NOSTRO PECCATO.
E, così facendo, possiamo davvero diventare simili al Padre Nostro che fa piovere sui giusti e sugli ingiusti.
Ma, nonostante tutte queste belle considerazioni, il problema del perdono rimane un problema irrisolto.
Non basta infatti sapere che Gesù ci dice che dobbiamo perdonare all’infinito, IL VERO PROBLEMA È LA SENSAZIONE CHE ABBIAMO DI NON AVERE IN MANO NOI IL POTERE DEL PERDONO.
Infatti ci sono delle situazioni che noi vorremmo perdonare, MA IL DOLORE, LA RABBIA CHE CI PORTIAMO DENTRO SEMBRANO PIÙ FORTI DELLA NOSTRA STESSA VOLONTÀ E DEL NOSTRO STESSO PROPOSITO.
Ma è proprio qui che forse dovremmo fermarci un istante e ragionare con saggezza e con la sapienza di Dio.
E dobbiamo chiederci se perdonare significa smettere di provare dolore e sofferenza per il male ricevuto?
Ovvio che no!
Noi non possiamo comandare a noi stessi di sentire o non sentire qualcosa.
La rabbia, come il rancore, o l’amore e la gioia, non sono cose che proviamo a comando.
Sono cose che ci capitano senza che noi possiamo fare molto.
Ma, attenzione! La nostra volontà però può decidere che cosa farne di quella rabbia, di quel dolore, o di quell’amore e di quella gioia.
Cioè la nostra volontà può decidere cosa fare di ciò che sentiamo e che molto spesso non abbiamo deciso noi.
Perdonare allora significa non lasciare decidere la rabbia e la sofferenza al posto nostro.
È OPPORRE RESISTENZA A CIÒ CHE ESSI SUGGERISCONO. PERDONARE È DISOBBEDIRE AL DOLORE CHE CI CHIEDE VENDETTA.
Bisogna ragionare come un bambino piccolo che piange perché qualcuno l’ha spinto ed è caduto facendosi male.
Ciò che lo calma è ESSERE PRESO IN BRACCIO DALLA MADRE, ED È PROPRIO A QUELLA MADRE CHE RACCONTA L’ACCADUTO E CHIEDE GIUSTIZIA, SAPENDO CHE È NELLE SUE MANI, E CHE ELLA PROVVEDERA’.
E NON PIANGE PIU! E SI DIMENTICA DI QUANTO ACCADUTO!!!
Anche per questo Gesù dice in Matteo 18,3 “…In verità vi dico: se non diventerete come i bambini, non entrerete nel regno dei cieli”.
Perdonare è una questione di cuore: è ricordare l’amore che il Padre ha per me e per il fratello.
Ragioniamoci sopra…
Sia Lodato Gesù, il Cristo!