… il VECCHIO FARISEO COMMENTA…. In illo tempore: dixit Iesus…
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Dal Vangelo secondo GIOVANNI 12,24-26
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «In verità, in verità io vi dico: se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto. Chi ama la propria vita, la perde e chi odia la propria vita in questo mondo, la conserverà per la vita eterna. Se uno mi vuole servire, mi segua, e dove sono io, là sarà anche il mio servitore. Se uno serve me, il Padre lo onorerà». Parola del Signore
Mediti…AMO
LA VITA E IL PENSIERO DEL SANTO
Lorenzo, da ragazzo, ha visto le grandiose feste per i mille anni della città di Roma, celebrate nel 237-38, regnando l’imperatore Filippo detto l’Arabo, perché figlio di un notabile della regione siriana.
Poco dopo le feste, Filippo viene detronizzato e ucciso da Decio, duro persecutore dei cristiani, che muore in guerra nel 251.
L’impero è in crisi, minacciato dalla pressione dei popoli germanici e dall’aggressività persiana.
Contro i persiani combatte anche l’imperatore Valeriano, salito al trono nel 253: sconfitto dall’esercito di Shapur I, morirà in prigionia nel 260. Ma già nel 257 ha ordinato una persecuzione anticristiana.
Ed è qui che incontriamo Lorenzo, della cui vita si sa pochissimo.
È noto soprattutto per la sua morte, e anche lì con problemi. Le antiche fonti lo indicano come arcidiacono di papa Sisto II; cioè il primo dei sette diaconi allora al servizio della Chiesa romana. Assiste il papa nella celebrazione dei riti, distribuisce l’Eucaristia e amministra le offerte fatte alla Chiesa.
Viene dunque la persecuzione, e dapprima non sembra accanita come ai tempi di Decio. Vieta le adunanze di cristiani, blocca gli accessi alle catacombe, esige rispetto per i riti pagani. Ma non obbliga a rinnegare pubblicamente la fede cristiana.
Nel 258, però, Valeriano ordina la messa a morte di vescovi e preti.
Così il vescovo Cipriano di Cartagine, esiliato nella prima fase, viene poi decapitato.
La stessa sorte tocca ad altri vescovi e allo stesso papa Sisto II, ai primi di agosto del 258.
Si racconta appunto che Lorenzo lo incontri e gli parli, mentre va al supplizio. Poi il prefetto imperiale ferma lui, chiedendogli di consegnare “i tesori della Chiesa”.
Nella persecuzione sembra non mancare un intento di confisca; e il prefetto deve essersi convinto che la Chiesa del tempo possieda chissà quali ricchezze.
Lorenzo, comunque, chiede solo un po’ di tempo. Si affretta poi a distribuire ai poveri le offerte di cui è amministratore.
Infine compare davanti al prefetto e gli mostra la turba dei malati, storpi ed emarginati che lo accompagna, dicendo: “Ecco, i tesori della Chiesa sono questi“.
Allora viene messo a morte. E un’antica “passione”, raccolta da sant’Ambrogio, precisa:
“Bruciato sopra una graticola“: un supplizio che ispirerà opere d’arte, testi di pietà e detti popolari per secoli. Ma gli studi dichiarano leggendaria questa tradizione.
Valeriano non ordinò torture. Possiamo ritenere che Lorenzo sia stato decapitato come Sisto II, Cipriano e tanti altri.
Il corpo viene deposto poi in una tomba sulla via Tiburtina. Su di essa, Costantino costruirà una basilica, poi ingrandita via via da Pelagio II e da Onorio III; e restaurata nel XX secolo, dopo i danni del bombardamento americano su Roma del 19 luglio 1943.
Il diacono e martire San Lorenzo ha assunto nel corso dei secoli una fama e una devozione veramente cattolica, universale, e ha saputo incarnare un modello concreto di servizio sena compromessi, tale ad essere additato come paradigmatico della diaconia in Cristo.
L’affascinante legame con le stelle cadenti
La notte dedicata al martirio di san Lorenzo è legato ormai in modo indissolubile al fenomeno delle stelle cadenti, diverse sono le interpretazioni di questo binomio che nasce per motivi ovviamente estranei alle sue vicende agiografiche sebbene si possa azzardare un interessante legame.
Le «stelle cadenti» rappresentano le lacrime versate dal Santo durante il suo supplizio, lacrime che vagherebbero eternamente nei cieli, e scenderebbero sulla terra solo in questo giorno; oppure, le «stelle cadenti» ricordano i carboni ardenti su cui il Santo, secondo la leggenda, fu martirizzato (su una graticola, il suo emblema).
In ogni caso, la tradizione di questa notte ha creato un’atmosfera ricca di speranza: si crede infatti che si possano avverare i desideri di tutti coloro che si soffermino a ricordare il dolore di san Lorenzo, e il rituale più diffuso prevede che a ogni stella cadente si pronunci l’avvenimento auspicato.
Celebre la poesia di Giovanni Pascoli, che interpreta la pioggia di stelle cadenti come lacrime celesti, intitolata appunto, dal giorno dedicato al santo, X AGOSTO:
- «San Lorenzo, io lo so perché tanto / di stelle per l’aria tranquilla / arde e cade, perché si gran pianto / nel concavo cielo sfavilla…».
ESAME DEL TESTO EVANGELICO
Il dono della sua vita, come caratteristica cruciale del suo messianismo, Gesù lo tratteggia con questa parabola, che attinge all’ambiente agricolo, da cui prende le immagini per rendere interessanti e immediate le sue parole.
È la storia di un seme: un seme inizia il suo percorso nei meandri oscuri della terra, ove soffoca e marcisce ma in primavera diventa uno stelo verdeggiante e nell’estate una spiga carica di chicchi di grano.
Due sono i punti focali della parabola:
- il produrre molto frutto;
- il trovare la vita eterna.
Il seme che sprofonda nell’oscurità della terra è stato interpretato dai Primi Padri della Chiesa un’allusione simbolica all’Incarnazione del Figlio di Dio.
Nel terreno sembra che la forza vitale del seme sia destinata a perdersi perché il seme marcisce e muore.
Ma poi la sorpresa della natura: in estate quando biondeggiano le spighe, viene svelato il segreto profondo di quella morte.
Gesù sa che la morte sta per incombere sulla sua persona tuttavia qui non la vede come una bestia che divora.
È vero che essa ha le caratteristiche di tenebra e di lacerazione, ma per Gesù contiene una forza segreta tipica del parto, un mistero di fecondità e di vita.
Alla luce di questa visione si comprende un’altra espressione di Gesù «Chi ama la sua vita la perde e chi odia la sua vita in questo mondo la conserverà per la vita eterna».
Chi considera la propria vita come una fredda proprietà da vivere nel proprio egoismo, è come un seme chiuso in sé stesso e senza prospettive di vita.
Chi invece «odia la sua vita», un’espressione semitica molto incisiva per indicare la rinuncia a realizzare unicamente se stessi, sposta l’asse del significato di un’esistenza sulla donazione agli altri; solo così la vita diventa creativa: è fonte di pace, di felicità e di vita.
È la realtà del seme che germoglia, ma che ci rimanda all’evento «pasquale».
Gesù è consapevole che per portare l’umanità al traguardo della vita divina deve passare per la via oscura della morte in croce.
Sulla scia di questa via anche il discepolo affronta la sua «ora», quella della morte, con la certezza che essa approderà alla vita eterna, vale a dire, alla comunione piena con Dio.
C’è un dinamismo di morte che dà vita, perché fa crescere il seme e lo fa diventare spiga, poi pianta, poi capace di frutto.
Noi possiamo temere questo divenire, scambiandolo per una morte, e in certo modo lo è perché non siamo più quelli di prima, e allora, per paura, possiamo decidere di restare come e dove siamo.
Possiamo scegliere di non crescere, di vivere una vita che è un lento morire.
Abbiamo qui due forme di morte
- la paura del cambiamento di sé che fa restare nella solitudine è la vera morte, la sterilità,
- l’accettazione del cambiamento di sé è la morte feconda di chi, scegliendo di cambiare, si apre alla vita e porta frutto.
Il frutto di questa morte è un dare: si diventa capaci di dare in abbondanza. La sofferenza del perdere diventa la gioiosa offerta di sé nel dare.
Si diventa cioè pienamente umani, si cresce alla statura di Cristo diventando capaci di donare fino a dare la vita.
L’abbondanza del frutto dell’amore è nel dono della vita «Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici» (Gv 15,13).
Con il suo martirio, il Vescovo di Antiochia, Ignazio, (fine I – inizi II secolo) ha scritto sulle sue carni l’esegesi di queste parole.
Nel suo viaggio verso Roma dove lo attendeva l’esecuzione della condanna a morte, scrive ai cristiani di quella città perché non impediscano il suo martirio «Lasciatemi essere pasto delle belve: sono frumento di Dio macinato dai loro denti per diventare puro pane di Cristo» (Ai Romani 4,1).
Ignazio concepisce la sua morte come un parto «Bello per me morire in Gesù Cristo. Lui cerco, che per noi è morto; lui voglio, che per noi è risorto. Il parto per me è vicino» (Ai Romani 6,1). Con straordinaria intuizione di antropologia cristiana, Ignazio specifica in che consiste il parto della morte attraverso il martirio, cioè seguendo Gesù fino a perdere la propria vita e ad essere là dove lui stesso è stato «Non impeditemi di vivere, né vogliate il mio morire. Lasciatemi ricevere la pura luce. Là giunto, sarò uomo» (Ai Romani 6,2).
Per Sant’Ignazio di Antiochia Gesù è “il nuovo uomo” (Agli Efesini 20,1), “il perfetto uomo” (Agli Smirnesi 4,2): ormai vicino al martirio, egli afferma che sta per diventare pienamente uomo grazie all’uomo nuovo e perfetto che è Gesù.
Per Ignazio di Antiochia:
- «Dio si è fatto l’uomo perfetto perché l’uomo impari a diventare uomo in lui. Non è richiesta alcuna fuga dall’umano, ma anzi si tratta di portare alla pienezza dell’unità l’Uomo, senza rifiutare la sua umanità, perché essa non viene mai annullata, ma unificata in Dio».
Purtroppo noi di morire non ne vogliamo sapere nulla. Questa società ha esorcizzato la morte e la ha sottratta alla nostra vita e alla nostra vista.
Anzi, giorno dopo giorno con le sue effimere pubblicità di pseudo-prodotti farmaceutici miracolosi e con l’ostentazione pubblicitaria di volti di anziani -che di anziani no hanno nulla- ci solletica con l’idea di una vita lunga e senza malattie. IN GRAN FORMA E DESIDEROSI DI SPASSARCELA.
E ogni giorno, pian piano, ci allontaniamo sempre più da quella realtà che ci dice invece, “…che del cielo siamo fatti, ci fermiamo un poco qui e poi riprendiamo il nostro cammino”.
Ma per far rimanere coi piedi per terra, dobbiamo imparare a morire pian piano a noi stessi, giorno dopo giorno, altrimenti non accetteremo mai la morte definitiva.
E mi sembra bello concludere con alcuni passaggi di una stupenda poesia di Pablo Neruda, che dice:
Lentamente muore chi diventa schiavo dell’abitudine,
Lentamente muore chi evita una passione,
chi vuole solo nero su bianco e i puntini sulle “i”
piuttosto che un insieme di emozioni;
emozioni che fanno brillare gli occhi,
quelle che fanno di uno sbaglio un sorriso,
quelle che fanno battere il cuore
davanti agli errori ed ai sentimenti!
Lentamente muore
chi non viaggia, chi non legge,
chi non ascolta musica,
chi non trova grazia e pace in sé stesso.
Evitiamo la morte a piccole dosi,
ricordando sempre che
essere vivo richiede uno sforzo di gran lunga maggiore
del semplice fatto di respirare!
Una poesia che ci ricorda che CHI NON SA MORIRE, NON SA NEPPURE VIVERE.
Ragioniamoci sopra…
Sia Lodato Gesù, il Cristo!