10.05.2023 MERCOLEDI’ 5 SETTIMANA DI PASQUA A – GIOVANNI 15,1-8 “Chi rimane in me, e io in lui, porta molto frutto”.

«Fermatevi nelle strade e guardate, informatevi circa i sentieri antichi, dove sta la strada buona e prendetela, così troverete pace per le anime vostre». Geremia 6,16

Pietro Saltarelli… il VECCHIO FARISEO COMMENTA…. “In illo tempore: dixit Iesus…”

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Dal Vangelo secondo

+In quel tempo, disse Gesù ai suoi discepoli: «Io sono la vite vera e il Padre mio è l’agricoltore. Ogni tralcio che in me non porta frutto, lo taglia, e ogni tralcio che porta frutto, lo pota perché porti più frutto. Voi siete già puri, a causa della parola che vi ho annunciato. Rimanete in me e io in voi. Come il tralcio non può portare frutto da se stesso se non rimane nella vite, così neanche voi se non rimanete in me. Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me, e io in lui, porta molto frutto, perché senza di me non potete far nulla. Chi non rimane in me viene gettato via come il tralcio e secca; poi lo raccolgono, lo gettano nel fuoco e lo bruciano. Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quello che volete e vi sarà fatto. In questo è glorificato il Padre mio: che portiate molto frutto e diventiate miei discepoli». Parola del Signore

 

Mediti…AMO

I capitoli che vanno dal 15’ al 17’, del Vangelo di Giovanni, ci presentano diversi insegnamenti di Gesù che l’evangelista mette insieme e colloca qui nel contesto dell’ultimo incontro di Gesù con i suoi discepoli:

  • Gv 15,1-17: Riflessioni attorno alla parabola della vite
  • Gv 15,18 a 16,4a: Consigli sul modo di comportarsi se siamo perseguitati
  • Gv 16,4b-15: Promessa sulla venuta dello Spirito Santo
  • Gv 16,16-33: Riflessioni sull’addio ed il ritorno di Gesù
  • Gv 17,1-26: Il Testamento di Gesù in forma di preghiera

Il capitolo 15 del vangelo di Giovanni attraverso l’immagine della vite e dei tralci concentra l’attenzione sul legame vitale che unisce i discepoli a Cristo e al Padre.

I temi ricorrenti e pressanti lungo tutto il brano sono quelli del “rimanere in” e del “portare frutto”. E, per capire bene tutta la portata di questa parabola, è importante analizzare bene le parole usate da Gesù.

Ed è anche importante osservare da vicino una vite o una qualsiasi pianta per vedere come cresce e come avviene il legame tra tronco e rami, e come il frutto nasce dal tronco e dai rami.

Nell’Antico Testamento, l’immagine della vite indicava il popolo di Israele (Is 5,1-2), quel popolo amato, che era come una vite che Dio piantò con molta tenerezza sulle colline della Palestina (Sal 80,9-12). Ma la vite non produsse a ciò che Dio si aspettava. Invece di uva buona produce un frutto acerbo che non è buono a nulla (Is 5,3-4).

Sfuggito al diluvio, Noè inaugura l’inizio di una nuova era piantando una vigna (Gn 9,20).

La vigna di Israele deve, dunque, la sua esistenza al Dio dell’alleanza che l’ha salvata dall’Egitto e l’ha piantata in uno spazio nuovo là dove ha potuto prosperare “come vite rigogliosa che dava frutto abbondante” (Os 10,1).

La vigna di Israele avrebbe dovuto manifestare la gloria di Dio, avrebbe dovuto fruttificare con i frutti della giustizia, derivanti dalla fedeltà a Dio e dalla pratica della legge, ma niente di tutto ciò si è realizzato e i profeti non hanno potuto far altro che costatare il fallimento della vigna (Is 5,1-7; Ger 12,10-11; Ez 19,12).

Stridente è il contrasto fra l’amore di Dio per la sua vigna e l’incapacità di Israele di corrispondergli. Da una parte c’è la cura di Dio, assidua e paziente, e dall’altra un’ostinata sterilità.

Nel Nuovo Testamento Giovanni riprende l’immagine della vite, familiare agli ascoltatori, ma va al di là dello sfondo biblico facendo uno spostamento ardito: non è più Israele la vigna di Dio, ma il Figlio.

Gesù stesso s’identifica e si auto-rivela come la vite di cui parlavano i profeti.

Piantato da Dio, il vignaiolo, e oggetto del suo amore è Lui la vera vite del Padre, è Lui il nuovo Israele.

Il Figlio realizza nella propria persona ciò che la figura voleva significare. È la vera vite, l’unica in grado di manifestare pienamente la gloria di Dio e di produrre finalmente i frutti sperati.

In Gesù il dono di Dio e la risposta dell’uomo si congiungono e trovano il loro compimento. Ma la vite ha necessità di essere potata “…Io sono la vera vite e mio Padre è il vignaiolo. Ogni tralcio che in me non porta frutto, lo toglie e ogni tralcio che porta frutto, lo pota perché porti più frutto“.

La potatura certamente è dolorosa, ma è necessaria, perché purifica la vite, mettendola così in condizione di crescere e dare più frutti.

E attraverso l’allegoria della vite – molto espressiva in quella società contadina – Gesù afferma che soltanto chi rimane unito a Dio può portare frutti buoni in parole e in opere, come il tralcio che fruttifica soltanto se è attaccato alla vite (si tenga presente il celebre canto della vigna di Isaia, riportato in Is.5).

La vera vite, di cui quella antica era solo un’immagine imperfetta, è in realtà il Cristo.

L’agricoltore è il Padre, che, come nel testo isaiano, ha cura della vigna, affinché i suoi tralci portino sempre più frutto. Ma che cos’è questo frutto su cui Gesù insiste tanto nel Vangelo?

La risposta appare proprio nell’ultima riga del brano citato più sopra «In questo è glorificato il Padre mio: che portiate molto frutto e diventiate miei discepoli».

Il frutto che Dio vuole da ogni credente è che diventi discepolo di Gesù. Si noti bene, proprio perché il discepolato è un cammino che dura tutta la vita, nel testo originale viene usato appropriatamente non il verbo “essere” (perché siate miei discepoli), ma «diventiate miei discepoli».

In tal modo viene introdotto nel cammino del discepolo un dinamismo sempre più crescente che lo porta alla piena abbondanza del frutto.

La fonte di ogni bene è soltanto Dio e quindi, per fare il bene e portarne frutti, occorre essere collegati a Lui, che ci dà l’illuminazione e la forza per compiere il bene. In tal modo, diffondendo il bene, noi annunziamo che Dio è amore (1Gv.4,8) e si preoccupa di tutti i suoi figli e figlie.

Perché senza Cristo non contiamo nulla e nemmeno possiamo fare nulla.

Ecco perché dobbiamo restare innestati alla vite perché il tralcio, da solo, non porta frutto.

Come possiamo restare innestati?

Ovviamente on la preghiera quotidiana, la frequentazione e la meditazione della Parola di Dio, con la partecipazione attiva e consapevole ai sacramenti e alla vita della comunità.

Così facendo possiamo attingere alla linfa’ che da Cristo nutre la nostra vita spirituale.

Gesù è quella vite che può rispondere in pienezza alle attese di Dio, quel germoglio che docilmente si lascia piantare nella terra dell’uomo e che produce un frutto che rimane per sempre; da quel frutto ogni uomo potrà trarre il vino nuovo della gioia perché da quel frutto sgorga la vita.

Voi mi direte che lo sappiamo bene, ma io vi ricordo che a volte ce ne scordiamo e viviamo di rendita, viviamo, di fatto, come se Gesù non contasse veramente nella nostra vita, nelle nostre scelte, tanto siamo immersi nel relativismo.

Il credente ormai si trova immerso, non solo nel relativismo, ma anche nel materialismo e nel laicismo, CHE MINACCIANO L’ANNIENTAMENTO DELLA VITA DELLO SPIRITO.

Abbandonati a noi stessi, ci perdiamo, intimoriti da forze che sembrano sempre più grandi e imperiose.

La situazione della Chiesa delle origini non era però diversa.

Eppure i primi cristiani, al seguito di un gruppo di pescatori della Galilea, privi di potere in quanto alle cose del mondo, ma riempiti della forza dello Spirito, “vennero, videro e vinsero” l’Impero Romano.

Contando solo sui propri mezzi, non potevano far nulla, ma uniti a Cristo, come i tralci alla vite, produssero frutti in abbondanza.

Ogni credente è chiamato a fare lo stesso: a sentirsi pronto ad essere sfrondato dal vignaiolo, cioè dal Padre.

In altre parole, per dare frutto, dobbiamo essere disposti a soffrire, andando contro le mode imperanti, rispettando i principi cristiani negli affari, restando fedeli nel matrimonio, sopportando ogni tipo di discriminazione derivante dal professare pubblicamente la nostra fede.

E LA SOFFERENZA CHE SI PRODURRA’ IN NOI NEL FAR CIÒ, PURIFICHERÀ IL NOSTRO CUORE, RAFFORZANDO LA VITA DI CRISTO IN NOI.

Essere parte della VERA VITE CHE È IL CRISTO è dunque la condizione per vivere, per donare la vita.

Per il discepolo questo significa riconoscere la verità della propria esistenza: non abbiamo la vera vita in noi, ma la riceviamo continuamente come dono da Gesù, come la linfa che scorre tra le pieghe più nascoste del nostro essere e ci rende fecondi.

Senza questa forza, quella forza che poi ci viene comunicata nel dono dello Spirito, senza di essa non possiamo far nulla.

Essere radicati in Cristo, comprendere che solo la comunione con lui permette alla vita divina di entrare nelle pieghe più nascoste della nostra esistenza, non solo è la condizione che ci rende tralci vivi della «Vite vera», ma è ciò che permette di portare il frutto che il Padre attende da noi:

  • «In questo è glorificato il Padre mio: che portiate molto frutto e diventiate miei discepoli» (15,8).

Il frutto è essere discepoli di Gesù, è la scoperta che la vita in Cristo è abbondante, inesauribile, piena di bellezza e di novità.

Ma in fondo, non dobbiamo nemmeno preoccuparci troppo del nostro frutto: ci sarà chi alla fine saprà scoprirlo, raccoglierlo, gustarlo. Dobbiamo preoccuparci di rimanere BEN RADICATI IN COLUI CHE CI RENDE FECONDI.

La voce dalla sapienza dell’Oriente, espressa da Siddhārtha Gautama Buddha, è stato un monaco, filosofo e mistico e asceta indiano, fondatore del Buddhismo, una delle più importanti figure spirituali e religiose dell’Asia e del mondo (566-486 a.C.):

  • “Se desideri conoscere il divino, senti il vento sul viso e il sole caldo sulla tua mano”.

Ragioniamoci sopra…

Il Signore IDDIO ti Benedica

E tu Prega il Signore per me… Fratello che Leggi…

Sia Lodato Gesù, il Cristo!