06.02.2023 LUNEDI’ SAN PAOLO MIKI E COMPAGNI – MARCO 6,53-56 “Quanti lo toccavano venivano salvati”.
«Fermatevi nelle strade e guardate, informatevi circa i sentieri antichi, dove sta la strada buona e prendetela, così troverete pace per le anime vostre». Geremia 6,16
Pietro Saltarelli… il VECCHIO FARISEO COMMENTA…. In illo tempore: dixit Iesus…
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Dal Vangelo secondo MARCO 6,53-56
In quel tempo, Gesù e i suoi discepoli, compiuta la traversata fino a terra, giunsero a Genèsareth e approdarono. Scesi dalla barca, la gente subito lo riconobbe e, accorrendo da tutta quella regione, cominciarono a portargli sulle barelle i malati, dovunque udivano che egli si trovasse. E là dove giungeva, in villaggi o città o campagne, deponevano i malati nelle piazze e lo supplicavano di poter toccare almeno il lembo del suo mantello; e quanti lo toccavano venivano salvati. Parola del Signore
Mediti…AMO
Memoria dei santi Paolo Miki e compagni, martiri, a Nagasaki in Giappone.
Nato a Kyoto nel 1556 in una famiglia benestante e battezzato a cinque anni, Paolo Miki entra in un collegio della Compagnia di Gesù e a 22 anni è novizio, il primo religioso cattolico giapponese.
Diventa un esperto della religiosità orientale e viene destinato, con successo, alla predicazione, che comporta il dialogo con dotti buddhisti.
Paolo è il primo giapponese accolto in un Ordine religioso cattolico: il primo gesuita. Riesce bene in tutto: solo lo studio del latino lo fa penare; troppo lontano dal suo modo nativo di parlare e di pensare.
Diventa invece un esperto della religiosità orientale e riesce bene, ottiene conversioni; però -dice un francescano spagnolo- più efficaci della parola SONO I SUOI SENTIMENTI AFFETTUOSI.
Il cristianesimo è penetrato in Giappone nel 1549 con Francesco Saverio, che vi è rimasto due anni, aprendo poi la via ad altri missionari, bene accolti dalla gente.
Li lascia in pace anche lo Stato, in cui gli imperatori sopravvivono come simboli, mentre chi comanda è sempre lo Shogun, capo militare e politico.
Paolo Miki vive anni attivi e fecondi, percorrendo continuamente il Paese. I cristiani diventano decine di migliaia. Nel 1582-84 c’è la prima visita a Roma di una delegazione giapponese, autorizzata dallo Shogun Hideyoshi, e lietamente accolta da papa Gregorio XIII.
Ma proprio Hideyoshi capovolge poi la politica verso i cristiani, facendosi persecutore per un complesso di motivi: il timore che il cristianesimo minacci l’unità nazionale, già indebolita dai feudatari; il comportamento offensivo e minaccioso di marinai cristiani (spagnoli) arrivati in Giappone; e anche i gravi dissidi tra gli stessi missionari dei vari Ordini in terra giapponese, tristi fattori di diffidenza.
Un insieme di fatti e di sospetti che porterà a spietati eccidi di cristiani nel secolo successivo.
Ma già al tempo di Hideyoshi, ecco una prima persecuzione locale, che coinvolge Paolo Miki.
Arrestato nel dicembre 1596 a Osaka, trova in carcere tre gesuiti e sei francescani missionari, con 17 giapponesi terziari di San Francesco.
Dopo essere stato condannato con gli altri, scrisse a un superiore della Compagnia di Gesù con semplicità “Siamo stati condannati alla crocifissione, ma non preoccupatevi per noi che siamo molto consolati nel Signore.
Abbiamo un solo desiderio, ed è che prima di arrivare a Nagasaki possiamo incontrare un Padre della Compagnia per confessarci, partecipare alla messa e ricevere l’Eucaristia. È il nostro unico desiderio”.
Vediamo in questo la gioia della speranza fondata sulla fede che è feconda di frutti di carità. Evidentemente soltanto la fede era fondamento della loro grande gioia, che dimostrarono anche sulla croce.
Essere crocifissi con Cristo era per loro grande onore perché credevano con tutta l’anima che Cristo si era dato per loro e per la loro salvezza.
“Il Figlio di Dio mi ha amato e ha dato sé stesso per me”. La croce appare alla fede come il sommo dell’amore di Cristo e dell’amore che noi possiamo dare a lui. In questa fede essi erano pieni di speranza e di gioia.
La loro speranza era non la ricompensa, ma il martirio: speravano che Gesù li avrebbe sostenuti fino alla morte e avrebbe permesso loro di offrire la vita con un amore senza limiti. Il pensiero di imitarlo dando la vita per gli altri era fonte di grande esultanza.
Per commentare il loro martirio si potrebbero prendere le parole della lettera di Pietro: “Rendete conto della speranza che è in voi con dolcezza e rispetto”.
Dall’alto della sua croce Paolo Miki continuava a predicare Cristo e a testimoniare la sua speranza. Diceva ai presenti: “Io sono giapponese come voi, non sono uno straniero ed è a causa della mia fede in Cristo che sono condannato. Nella situazione estrema in cui mi trovo potete credere alla mia sincerità. Non ho nessuna voglia di ingannarvi e vi dichiaro che non c’è via di salvezza se non nella fede in Cristo”.
E continuava, manifestando che la fede e la speranza gli riempivano il cuore di intensa carità: “Cristo vuole che perdoniamo a chi ci fa del male e preghiamo per loro. Io dunque perdono a tutti quelli che hanno contribuito alla nostra morte e auguro loro di convertirsi, perché anch’essi si salvino”.
E anche tutti i suoi compagni sorridevano e cantavano preghiere dall’alto della croce.
Possiamo pensare che talvolta è più difficile essere gioiosi nelle circostanze ordinarie della vita che in quelle straordinarie, nelle quali la grazia sostiene in maniera speciale. Ma abbiamo altri esempi a illuminare la vita quotidiana.
È a proposito della sua vita quotidiana che san Paolo dice “Sono crocifisso con Cristo e non son più io che vivo, ma Cristo vive in me”. La croce di Cristo illuminava le sue numerose, e niente affatto gloriose, difficoltà di ogni giorno: egli stesso parla di tribolazioni umilianti.
Ma nella fede egli ne vedeva il senso di profonda unione a Gesù, ed era lieto nella speranza, paziente nella tribolazione e insegnava questa via di gioia ai cristiani.
E insieme a tutti i suoi compagni viene crocifisso su un’altura presso Nagasaki. Prima di morire, tiene l’ultima predica, invitando tutti a seguire la fede in Cristo; e dà il suo perdono ai carnefici.
Andando al supplizio, ripete le parole di Gesù in croce “In manus tuas, Domine, commendo spiritum meum“.
Proprio così le dice: in quel latino che da giovane studiava con tanta fatica. Nel 1862, papa Pio IX lo proclamerà santo.
Nell’anno 1846, a Verona, un seminarista quindicenne legge il racconto di questo supplizio e ne riceve la prima forte spinta alla vita missionaria: è Daniele Comboni, futuro apostolo della “Nigrizia”, alla quale dedicherà vita e morte, tre secoli dopo san Paolo Miki.
Ma veniamo al testo evangelico di oggi, che vede le folle accorrere attorno al Maestro.
La sua qualità di guaritore si è diffusa ovunque e molta gente si fa trovare sulla sua strada portandogli i propri dolori, le sofferenze dei propri familiari.
Ormai è risaputo che una donna che perdeva sangue, gli ha toccato la frangia del mantello ed è guarita. E da allora è una gara ad andargli vicino per ottenere il miracolo.
E mi ritorna alla mente l’immagine delle pecore senza pastore, che Gesù guida verso i pascoli della vita vera.
In Gesù, tutto era rivelazione. Non solo parlava di Dio, ma lo rivelava anche, soprattutto attraverso le guarigioni dalla malattia.
La malattia, oggi, è un tema dimenticato, riservato ai sanitari e a chi – sfortunatamente – ne fa esperienza sulla propria pelle.
D’altronde in un mondo dell’immagine dell’eternamente giovane, come il nostro, la malattia è discrepanza, fastidio, dimensione che intristisce, quindi meglio non parlarne.
Mi fa tristezza vedere incessanti pubblicità farmaceutiche, di fitness, o di alimenti, che vedono protagonisti IMPROBABILI VECCHI ESENTI DA RUGHE, SENILITA’ O MALATTIE, che altro non fanno che ingannare la gente, AL SOLO FINE DI GARANTIRE CONSUMISMO E L’IMMAGINE DI UNA INESISTENTE EFFIMERA ETERNA VECCHIAIA.
Meglio affrontare, però, il tema della malattia perché, come quello della morte, è uno dei temi assolutamente certi della nostra vita. Gli ebrei prima e i cristiani poi hanno lungamente riflettuto sulla malattia e la morte, sulla loro origine, giungendo ad affermare che la malattia e la morte sono contrari all’armonia, sono comunque dolorosa discrepanza nel capolavoro del cosmo.
Un’ulteriore riflessione porterà la Scrittura a vedere nella malattia la conseguenza della disobbedienza e dell’arroganza dell’uomo al progetto di Dio. Da cui emerge però chiaramente che Dio non ama la malattia. Ma ama le persone ammalate.
Ma bisogna fare un altro passo in avanti leggendo il Vangelo, da cui apprendiamo che la guarigione dalla malattia È PRIMA EVENTO INTERIORE CHE ESTERIORE.
Gesù guarisce, e insegna che la salute non è tutto, perché prima della salute viene la salvezza.
E questo deve insegnare NEL SUO NOME LA CHIESA. È chiamata a mostrare il volto di Gesù per dare all’umanità la possibilità di incontrarlo.
Non importano le opere e neppure le persone, non contano le strutture. La gente ha bisogno di incontrare Gesù e di “toccare almeno il lembo del suo mantello” (6,56).
La Chiesa non deve dare parole di umana consolazione ma deve mostrare il volto del Redentore. È Lui la luce che risplende, è sua la Parola che rischiara.
Tanta gente oggi non cerca più nulla e si accontenta di un’esistenza scolorita oppure, al contrario, riempie la vita di emozioni che rispondono ai bisogni ma imprigionano i desideri.
Solo Gesù può dare la vita piena, perché la sua PAROLA possiede in se’ la forza di Dio. pertanto è una PAROLA che scuote e ferisce, accarezza e guarisce.
Lui solo è capace di restituire l’uomo a sé stesso.
Oggi allora, Fratelli e Sorelle, chiediamo la salute, allora, la salute del cuore anzitutto e quella del corpo, sapendo però che potrà succedere di essere raggiunti dalla malattia; chiediamo allora al Signore di poterla affrontare consapevolmente, come momento inevitabile della vita che può condurci ad una dimensione inesplorata della nostra vita.
Ragioniamoci sopra…
Prega il Signore per me… Fratello che Leggi…
Sia Lodato Gesù, il Cristo!